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    Matrimoni, arpe, violini e champagne…

    Gatto randagio Impazza. Ascoltate che ha scritto ieri….”Rimuginando sulla verde Irlanda, che la settimana scorsa ha detto sì, con una valanga di sì, ai matrimoni fra persone dello stesso sesso… Non ho potuto evitare che il primo pensiero andasse a  Oscar Wilde, che dovette subire un processo per omosessualità e una condanna a due anni di lavori forzati.  Ricordando la lettera che dal buio della sua prigione di Reading scrisse per l’uomo che amava (amore molto ingrato per la verità), e che in realtà è un lungo racconto che scava nell’anima,   che narra di quando si subisce un giudizio e tutta la vita viene giudicata, di come tutte le sentenze sono sentenze di morte. Il “De Profundis”, pensiero dal profondo del suo dolore… (che se non l’avete ancora fatto consiglio di leggere) dove Wilde qua e là si scaglia contro il conformismo bigotto. Pensando, fra le tante, alle bellissime pagine sulla figura di Cristo, che così tanto l’affascinava. Cristo che comprese “che la vita era cangiante, fluida, attiva, e che (…) accettare qualsiasi forma di stereotipo in essa voleva dire la morte”. Cristo che derise i filistei, “esatta controparte dei filistei inglesi di oggi”, come “sepolcri imbiancati della rispettabilità”…

    Frugando dunque fra gli appunti dal taccuino di un viaggetto a Dublino, breve vagabondaggio, fra le statue degli eroi che hanno fatto la storia di quel paese, in cerca di scrittori. Scusate il vizio… Era giusto anche allora il mese di maggio.

    Ricordo che se James Joyce l’ho incontrato per caso di prima mattina, affacciato su O’Connell Street, all’angolo con North Earl St., Oscar Wilde sono dovuta andare a cercarlo, per scovarlo fra gli alberi fitti fitti di foglie, dietro le cancellate di Merrion Square. Se ne sta nascosto fra ombre di rami e alti cespugli, sopra una roccia e vestito della giacca da camera, dai colori accesi di smalto. Seduto, anzi quasi disteso. E temi stia lì lì per scivolare sul piano inclinato di quella breve rupe. Ma resta fermo, inchiodato al suo letto di pietra. Mentre il suo sguardo va, oltre l’inferriata, al di là della strada, alle finestre della casa di fronte, che lo vide bambino. Pensi ne sia stato appena cacciato, per via di quello strano sorriso, che sembra piuttosto una smorfia. E subito ricordi che nessuno, proprio nessuno, ha scritto fiabe strazianti come le sue… La prima cosa che mi è venuta d’immaginare è che quella tensione gli si sia è sciolta finalmente sul volto, pensando il voto di oggi un voto anche per lui.

    Ma ecco lì, un appunto da quel vecchio taccuino a tirarmi le orecchie. Ascoltate un po’: “Quando le persone sono d’accordo con me, ho l’impressione di avere torto”. E’ una delle frasi “storiche” di Wilde. L’unica che, fra le tante, in quella visita appuntai. Come dire… l’omologazione, che orrore… Che oggi, che tutti sono con lui, che dire?, confonde e fa sobbalzare. Ah, squisito, impareggiabile Wilde! Già, il matrimonio. Come dimenticare tutti i dubbi e le polemiche certezze nutriti nel tempo. “Un buon matrimonio è quello in cui ciascuno dei due nomina l’altro custode della sua solitudine”, parola di Rilke, tanto per citarne uno. Ma è pur vero che ognuno deve essere libero di scegliersi la prigione che preferisce…

    E mi perdonerà Wilde se voglio continuare a immaginarlo anche per lui, questo “si” del voto di oggi, e voglio pensare che, sotto sotto, persino lui ne abbia per un attimo sorriso. Che domenica notte sia sceso dalla sua roccia, abbia scelto uno dei fiori del giardino, se lo sia appuntato all’occhiello, e sia andato a brindare. Champagne, naturalmente… Un brindisi alla voce d’Irlanda! Che ricordo, in quel maggio, intreccio d’echi. D’arpa e di  violino. 

    “I musicanti siederanno nella galleria – proferiva il giovane studente – e suoneranno i loro strumenti, e la mia amata ballerà al suono dell’arpa e del violino. Ballerà così leggera che i suoi piedi non toccheranno intorno. Ma con me non danzerà, perché io non ho una rosa rossa da offrirle”  e si gettò sull’erba, si chiuse il volto tra le mani, e versò lacrime. La rosa e l’usignolo, delle fiabe di Wilde fra le più strazianti, che ancora, leggendo, non si trattiene il pianto… 

    L’arpa e il violino. Davvero nulla accade per caso… E così, mentre m’avviavo in visita alla Galleria Nazionale d’Irlanda, da un angolo ricordo arrivò il suono di un violino, che sembrava impazzito, mentre sull’acqua sotto un ponte scivolavano due cigni. Mi accompagnò, l’eco di quel violino, fino alle stanze della Galleria. Per perdersi nel grido del silenzio di un’arpa… Perché lì, nella più grande sala del piano rialzato della National Gallery of Ireland, un gigantesco quadro occupa l’intera parete. Il matrimonio di Strongbow e Aoife, di Daniel Maclise. Un matrimonio triste come un funerale, le nozze dello “straniero” con la principessa irlandese, allegoria dell’inizio della fine dell’indipendenza del paese.

    Mai scena di matrimonio fu più mesta. Volti di pianto e corpi abbandonati. Colori cupi che minacciano tempesta. E, al centro, la figura della sposa sembra svanire nel pallore della veste. Su tutto, incombe il silenzio dell’arpa. Il cui suono, qualcuno allora mi spiegò, è un ponte fra l’uomo e il mondo intorno a lui, e oltre ancora. Strumento magico e potente, strumento di libertà, pure, e proprio al suo suono i bardi hanno raccontato le gesta degli eroi. Ma alle nozze della principessa con lo straniero è abbandonata in un angolo in terra, lì in basso sulla sinistra…

    Oggi immagino l’arpa suoni all’impazzata alle feste dei matrimoni nuovi e liberi che verranno per chi vorrà. Chissà se qualcuno, da queste parti, riuscirà a sentire la sua musica…

     Francesca de Carolis

     

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