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    catturando deserti…

    thumbs_gabbie-voloPer festeggiare la giornata mondiale della poesia, quest’anno il gruppo “Poeti italiani su Facebook” e la comunità on line PoetiSocial.it chiedono fra le varie cose di fare un gesto rivoluzionario: comprare un libro di poesie. Gatto Randagio aderisce, e suggerisce una cosa ancora più rivoluzionaria: cercate poesie scritte in carcere. Ne troverete, di cose belle, di cose vere…
    Che una delle definizioni di poesia che più mi ha dato da pensare, proprio in versi scritti dal carcere l’ho trovata. A cosa serve la poesia? “La poesia ti aiuta solo a catturare i tuoi deserti”. E’ un verso da Canzone corta, di Emidio Paolucci, la raccolta “Senza Speranza e Senza Disperazione” ( edito da Rupe Mutevole).
    Catturare i tuoi deserti… immagine di fulminante verità. Perché nel deserto di vita che è il mondo del carcere, c’è un deserto ancora più deserto, che è l’assenza di vita affettiva e sessuale. Immaginate? Questa pena che si aggiunge a pena, questa compressione di pulsioni naturali, violenta e devastante, e tutto il dolore fisico e psichico che si porta dietro. Ed è difficile che ne parli, chi è dentro. C’è quasi timore. Il dolore è insostenibile. Quindi meglio non pronunciare, negare. Che a volte diventa negazione della vita stessa.
    Le poesie di Paolucci, invece, sono lì, a catturare questo deserto, con immagini affollatissime di donne. (…) Parole piene di amore, di sesso, di sentimenti, di tenerezze e di furori… che rivestono di sangue e carne donne che potresti pensare fantasmi. E lo fa senza veli, senza ipocrisie, sfacciatamente, urlando verità come solo con parole vere si può fare, senza avere paura del loro suono. Con un pensiero al tempo, “che si consuma senza una carezza, senza una palpatina/ sì, senza una scopata/ una di quelle che alla fine ti tolgono il fiato/ e ti lasciano a raccogliere il respiro/, con gli occhi sul soffitto”.
    Rimangono immagini di donne, quasi tutte senza nome. Forse tutti, i nomi, risucchiati dal nulla di quel tempo e… “di tutta questa nostra assenza fattasi normalità/ che cosa resta? //resta tutto quel poco che non abbiamo vissuto / resta così poco / e poi tutto quello che domani non ci diremo”.
    Poesia, anche, dell’attesa di tutto quello per cui non si dovrebbe attendere. Come l’avvento di questa donna, che diventa amore e dolore e gioia e noia, una tale noia per quella ossessiva assente presenza, da trovarsi un giorno, svegliandosi, ad avere voglia di mandarla via. “Che ci fai la mattina accanto a me…”.
    Già, perché anche i fantasmi possono essere insopportabilmente ingombranti nel deserto…E se in carcere tutto è sottratto, si moltiplicano invece le paure. Ancora catturate nei versi. Che, quasi una nenia, compongono un elenco inesorabile: ce ne sono di terribili, che chi è fuori non sa, come la “paura che tutto questo diventi familiare”… come la “paura che il latte sia scaduto”… Mentre si moltiplicano le ossessioni. C’è posta, c’è, c’è posta? La posta… spesso l’unico filo per tessere parole con l’esterno, per suggerne un po’ di vita.
    Insomma, nella giornata mondiale della poesia, fate un gesto rivoluzionario, entrate in carcere attraverso la porta della poesia che pure, in un posto che è la negazione della comunicazione, riesce a comunicare l’inimmaginabile…
    Tornando un giorno a casa da un giretto, fra le lettere ho trovato quella di Giovanni, Giovanni Zito, dal carcere di Padova. Che sceglie i versi per dire che finalmente ha capito, e mi fa capire, cosa vuol dire inferno, che “E’ un posto dove rubano la vita ai morti,/ dove le pagine vecchie non si leggono più.//L’inferno che brucia sogni e amori/ Sono giardini d’inverno, sono brividi freddi, / suoni metallici di chiavi che chiudono /speranze, posti pieni di anime / di ricordi, / foto appese alla parete del cuore / questo è l’inferno. // L’inferno di chi aspetta e scrive / parole arse e sparse nel gelido fuoco, / di rimorsi che scendono oltre / il pensiero della mente stanca /dove tutto rimane sotto costo (…)”
    Giovanni fino a qualche tempo fa si firmava ‘Gianni’, ma dopo che gli ho scritto che il suo nome di battesimo è troppo bello per comprimerlo in riduttivi e tanto evocativo di grandi figure (Giovanni il Battista, Giovanni XXIII, Giovanni delle Bande Nere…), si firma per intero. E una volta che immagino appena superato un periodo di avvilimento era riuscito a trovare la forza di guardare avanti, nonostante la pena eterna che sta scontando, ha aggiunto “delle Bande Nere”.
    Anche se la sua più bella presentazione è stata questa: “Sono Giovanni e cammino sotto il sole”, che poi ha dato il titolo a una raccolta di versi e racconti, ma già da sola ha il richiamo di un flauto magico. Immaginavo l’avesse visto di notte questo sole nel quale camminare… , pensando ai versi di Alda Merini, che… “i poeti lavorano di notte/ quando il tempo non urge su di loro,/ quando tace il rumore della folla/ e termina il linciaggio delle ore./ I poeti lavorano nel buio / come falchi notturni od usignoli / dal dolcissimo canto / e temono di offendere Iddio / ma i poeti nel loro silenzio / fanno ben più rumore / di una dorata cupola di stelle”.
    E immaginavo giusto, ho pensato questa mattina leggendo il biglietto d’auguri che mi è arrivato per Pasqua, con la firma“Giovanni dalle Notti nere”.
    Insomma, versi dal carcere profondo. Con tutta la forza del suono della poesia. Oggi, fate un gesto rivoluzionario. Andateli a cercare, se vi sentite pronti a entrare in questo deserto.

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