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    Incontro con Marianna Adanti, dirigente penitenziario…

    La prima volta che l’ho vista, a Caserta per un incontro su carcere e dintorni, mi ha colpito la sua figura minuta, che pure avanzava sulla sua strada a passi decisi. Marianna Adanti,  professione dirigente penitenziario, attualmente presso la Casa Circondariale di Benevento. Uno scricciolo, ho pensato, appena appena un dondolio, sui tacchi alti. Immagine sottile che è rimasta, rincontrandola per parlare della sua scelta: il mestiere del carcere. Perché per quanto retorico possa sembrare in un paese dove di questi tempi 85 sulle 206 carceri sono dirette da donne, senza contare vice e direttori aggiunti, la domanda in fondo in fondo rimane: ma come, una donna a dirigere una struttura che più maschile non si  può… a guidare luoghi dove sembra che tutto, a partire dal respiro, abbia il sapore aspro del ferro…  “Ma io volevo essere direttore di carcere da quando studiavo all’università…”.  Anche se il percorso di studi è stato all’inizio in diritto civile, per la cronaca laurea con una tesi sul peculato, e poi la collaborazione con la cattedra di diritto civile all’università di Camerino, l’incontro con il professor Biscontini, che sempre ricorda con piacere, e a scorrere il curriculum si pensa a persona destinata in qualche modo all’insegnamento, o comunque attività di studio e ricerca… E invece no, Marianna Adanti insiste: “Sono presto passata al penale, perché sapevo che avrei fatto o il magistrato oppure quello che faccio. E’ stato poi lo studio fatto per il concorso in magistratura che ha rafforzato la mia passione, e dopo aver vinto il concorso nell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, ho continuato a studiare, ho conseguito anche l’abilitazione all’esercizio della professione forense, quella all’insegnamento delle materie giuridiche ed economiche e mi sono specializzata in diritto civile, diritto ed economia dell’Unione Europea, fino a conseguire il Master in Criminologia”. Insomma, una scelta per passione. Ma quale passione, insisto, per luoghi dove tutto suggerisce violenza… “E’ vero- risponde- ma in carcere emerge l’uomo, l’uomo in quanto tale”. Già, e mi viene in mente la “verità” delle conversazioni che con persone in prigione ho avuto anch’io. Verità nuda, di parole e gesti che non hanno tempo, né voglia, di giocare a rimpiattino con convenzioni e ipocrisie.(…)

    Sulle tracce dell’uomo, dunque… che è cosa che può anche far paura. E ancora ricorda Marianna Adanti il primo giorno in cui in un carcere si è affacciata davvero. 1997. Vinto il concorso e appena saputo di essere destinata al carcere di S.Maria Capua Vetere, aveva chiesto di poterlo visitare. Ma il salto dai libri alla realtà non è cosa da poco. “Mi spaventò. Entrai in crisi, non volevo più andarci!”. Ma era proprio destino, se lì incontrò Don Primo, che di quel carcere era il cappellano. “Ho paura, gli ho detto, e lui: vedrai, vedrai, fra un mese mi dirai che questo è il lavoro più bello del mondo. Ed è stato così”.

    Un carcere difficile, quello di Santa Maria, in piena terra di camorra, e non solo. “Sì, ma quale istituto non è difficile? Certo, l’impatto con le persone è forte, all’inizio non mi sono trovata molto bene… E’ un carcere maschile, nel senso che sono maschi la maggioranza dei detenuti, la direzione, gli agenti di polizia penitenziaria. Qualcuno guardava male a una donna che era loro superiore, e poi io ero molto giovane”.

    Già, a 27 anni, giovane e donna, non è facile… E questo  scricciolo, insisto, come ha fatto? Anche se la risposta la posso intuire, forse già letta nel busto sempre eretto, nello sguardo, di Marianna, che non si inclina mai, e anche spostandosi da un lato all’altro, si muove sempre sul piano orizzontale intorno a sé…  “Come ho fatto? Ho tirato fuori da me molta forza. Io sono un camaleonte, mi sdoppio. Spesso uso termini umili con le guardie, sono anche molto giocherellona,  scherzo, non creo eccessivo distacco… punto su collaborazione e gioco di squadra. o comunque non molto.  Certo il distacco serve e deve necessariamente esserci”.

    Questo con le guardie, e con i detenuti?  “Con loro cerco di mantenere il distacco di chi rappresenta lo Stato, ma poi bisogna anche saper mediare. Molto dipende dalle situazioni, ce ne sono di molto delicate, soprattutto quando ci si confronta con detenuti che hanno problemi psicologici, e ce ne sono, persone che ad esempio non si può sottoporre a procedimenti disciplinari. Allora bisogna anche saper tirare fuori l’aspetto trattamentale, ma anche in questo ci vuole equilibrio. Io come atteggiamento normale non sono materna, sono convinta che bisogna mantenere un certo distacco per evitare confidenzialità, ma poi bisogna saper anche essere dolce. L’importante è non confondere piani e ruoli. Io credo di saper smorzare la distanza che pure mantengo con la capacità di comunicazione, con le giuste parole”.

    Stiamo parlando di carceri prevalentemente maschili, e comunque in generale la popolazione maschile è sempre molto alta rispetto a quella femminile, basti pensare che le donne detenute in Italia sono poco più del 4 per cento. E con loro il rapporto cambia. “Certo, il rapporto è diverso. Loro sono diverse. Si truccano, fanno la spesa, ti dicono delle loro cose, raccontano le loro storie. Spesso è l’aspetto più fragile che emerge: le litigate con le compagne di cella, il pensiero della vita fuori… si confidano, piangono…  cosa che gli uomini non farebbero mai”.

    E questo aiuta? “A volte aiuta. Ma a volte rende anche più difficile il mio lavoro, perché smuove cose che non vorrei smuovere dentro di me”.  Fra le tante storie viene avanti, incontenibile, quella della donna di un camorrista… “Molto irruente con tutti, anche con me, provocava le compagne, aveva comportamenti che sembravano voler scombussolare tutto. Un 416 bis, per una  rapina. E’ stata messa in isolamento. Con lei sono stata durissima all’inizio. Poi si è confidata e io le ho creduto… Quanto si aspetta le dia di isolamento, le avevo chiesto. 15 giorni, mi ha risposto, e glieli ho dati… E se le avessi detto mezza giornata? Sarebbe stato così… La sua gestione è stata difficile, poi alla fine la situazione è migliorata al punto che non se ne sarebbe voluta andare da Benevento. Credo di averla aiutata a cacciare la rabbia che aveva dentro di sé. Lei non era arrabbiata con il carcere, era arrabbiata con il mondo. Io l’ho capito e lei l’ha capito”.

    Equilibri non facili. Il confronto con un mondo violento, porta a mettersi a volte sullo stesso piano di violenza, mentre le condizioni generali delle carceri, e sappiamo quanto siano devastanti, rendono tutto molto duro. “Sì, ci si sente con le mani legate, soprattutto per la burocrazia. Non parlo di Benevento in particolare, ma della situazione generale: la cosa che più preoccupa e rende tutto difficile è il grande affollamento, le condizioni troppo spesso disumane, per non parlare degli intoppi burocratici che a volte tutto rallentano… Relazioni continue, con la Magistratura, Avvocatura, Provveditorato, Dipartimento, Sanità, Servizi Sociali, enti locali, Caritas…”

    Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, da Roma ha l’ultima parola sul trattamento dei detenuti… ed è davvero difficile, impossibile, far qualcosa per chi, se detenuto in alta sicurezza, vorrebbe in qualche modo avvicinarsi ai suoi. Parla, Marianna Adanti, di storie che, viste da fuori, possono sembrare impossibili, come può essere quella ad esempio di una donna in carcere, con padre ad esempio in dialisi, con figli di cui ad esempio uno non vede, con marito ad esempio detenuto in altro  carcere… insomma una di quelle vicende che la vita purtroppo riserva specie in alcuni luoghi, in alcuni tempi, in alcune condizioni… e di cui noi dalla tranquillità delle nostre case preferiamo non sapere nulla. “Perché non chiama Roma per me? Mi chiede magari quella donna, per poter rivedere i suoi figli. Ma se chiamo i servizi sociali temo che possano levarglieli i figli, ad esempio, e il Dap per ovvie ragioni d’opportunità non avvicina chi è in alta sicurezza, ad esempio…”

    Ma non sempre è tutto così chiaro. Non sempre i rapporti sono così limpidi. Pregiudizi, a ben scavare, ne abbiamo tutti in fondo al cuore. “I sex offender, ad esempio. Io ho una bambina… Avere di fronte una persona condannata per questi reati… sì, problemi ne ho, ma provo a superarli. Questo è il mio lavoro”. E non è facile, vivendo in terra di camorra non averne, di pregiudizi, con detenuti che spesso da quel mondo vengono, mondo dove si fa usura, si comanda, si uccide. Anche se a nessuno si può negare il diritto alla riabilitazione. “Sì, ma devo dire che credo poco a certi pentimenti… Pentirsi perché magari non si regge il regime del 41bis… La collaborazione, i collaboratori servono, danno molti elementi utili per le indagini, sono importantissimi, ma il pentimento vero… ho dei dubbi…. Io credo invece sicuramente nel ravvedimento di chi delinque perché ne ha bisogno”.

    E ritorna il ricordo dei detenuti di Poggioreale, un carcere difficile, che davvero segna. Ha segnato lei che, ricorda, ne è uscita quasi con le lacrime. Ritorna, sotto sotto, l’idea della donna fragile? Un uomo, un direttore, è difficile che pianga. Una differenza fra uomo e donna dunque c’è, che può anche esporre a rischi… “La fragilità c’è in tutti. Ma il rischio, per una donna, è legato alla cultura, a un’idea della donna ancora vista come persona debole, mamma, emotiva, fragile, che si lascia prendere dal trasporto verso chi soffre… Ma non è così, noi siamo più forti. Sappiamo gestire bene il dolore. Ci si trova, mi sono trovata davanti a situazioni impossibili, come in casi di autolesionismo, persone che si sono inferte ferite terribili, davanti alle quali sono rimasta impassibile, stupendo anche gli altri. Poi a casa magari mi sono pure sentita male, ma sul lavoro è necessario essere molto distaccati”.

    Ad ascoltare questi racconti il dubbio che viene è che più di quindici anni di questa vita possano comunque cambiare una persona. Ma quello che davvero ha cambiato Marianna è stata una storia d’amore. Succede. Ma a lei è accaduto di essere poi coinvolta e travolta nell’incubo di un processo. Una vicenda assurda dalla quale è stata assolta con formula piena, perché “il fatto non sussiste”. Ma è facile immaginare le ferite, lo sconquasso in famiglia. Una triste vicenda giudiziaria alla quale la madre non ha retto… Marianna Adanti, funzionario dello Stato, ne é uscita a testa alta, e poi? “Sono diventata più forte, molto più forte… e questo è importante, serve, perché chi lavora in carcere può essere francamente in pericolo se non ha la capacità di elaborare i vissuti di dolore, rabbia ed impotenza che la quotidianità del carcere gli scarica addosso”

    Ma il suo lavoro, ribadisce con tono risoluto, continua a farlo con passione. C’è da giurarlo, a seguire il tono con il quale parla, senza un attimo di dubbio. A incrociare lo sguardo fermo, quasi non vedi più, dimentichi i lineamenti minuti del viso, che si fa a tratti come carico d’anni. E carcerati, in carcere, lo sono un po’ tutti: oltre a chi è detenuto, anche chi ci lavora, nei vari ruoli e livelli. E’ un impegno che chiede disponibilità totale. Le donne, leggevo in una recente inchiesta fra le direttrici d’istituti di pena, sono le più tenaci. Ma cosa dice del suo lavoro una donna dirigente di un istituto di pena a sua figlia, una bambina di 9 anni? “Lei del mio lavoro sa tutto, o quasi… sa quello che le posso raccontare. Mi chiede dei detenuti, chi sono, che fanno, perché sono là, quanto tempo devono stare. A volte l’ho ascoltata ragionare sul fatto che sia giusto essere puniti se si sbaglia… Una bambina un po’ “tosta”…”

    E finalmente Marianna concede un sorriso, al racconto delle curiosità e delle spiegazioni  da dare ai bambini, ai compagni di classe. Mamma che fa? Dirige un carcere. E che rispondere quando chiedono cosa significa? Il suggerimento è di non dare sempre tante spiegazioni, di dire che ci sono cattivi, ma che non tutti sono cattivi… La sua bambina sa come rispondere.

    La nostra conversazione sta per concludersi… ma c’è qualcos’altro a cui Marianna riserva la sua passione? Bèh, la sorpresa arriva adesso. Quel che si rapprende nel suo dover essere “controllata e distaccata” salta fuori dalle dita delle mani. Già, perché Marianna Adanti ancora si illumina dicendomi di amare il ballo e di suonare il piano. E ancora una punta di dolore per il ricordo della madre persa con la quale… “suonavamo a quattro mani…”. “Beethoven… per Elisa… “L’ultima neve di primavera”… musica bellissima, commovente”.

    Musiche anche tristi, confida a volte le cerca anzi, per lasciarsi andare nei momenti in cui l’animo è triste. “Perché il dolore devo sviscerarlo, toccarne il fondo, per poi poter stare bene. E continuare ad avere il mio sorriso di sempre”.

    La musica dunque, che non si ferma alle soglie del carcere. “La musica, sì mi piace molto e spesso organizziamo molti concerti in carcere, invitando tante persone. Porto la musica dentro le mura, per portare la mente di chi è in prigione ad avere pensieri altri, per dare loro un momento di gioia. La musica aiuta, farei mettere la filodiffusione in carcere, se potessi… E forse anche la mente si incupirebbe di meno”

    E che musica per i suoi detenuti?  “La napoletana classica…”

    Un titolo? “Tu sì ‘na cosa grande….”

     

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