Storia del pianista jazz Luca Flores, raccontata grazie alla testimonianza della donna con cui ha condiviso vita e musica.
” La trasformazione della figura di Luca in mito ha tormentato in me la memoria dell’uomo al quale sono stata legata durante gli ultimi anni della sua vita. Poi d’un colpo dettagli ed episodi di una storia che avevo custodito in perfetto silenzio si sono fatti avanti insistenti, chiedendo di essere depositati per sempre. Un insieme di colori, suoni, immagini, archetipi. Mille pezzi rimescolati di un puzzle già ben scosso. Li ho affidati a Francesca, che ha saputo raccogliere in questo romanzo, trovando i giusti incastri, anche nel caso di qualche tessera mancante”.
Angela, angelo, angelo mio, io non sapevo
di Francesca de Carolis
Era tutto già riassunto in una visione. Arrivata all’improvviso prima che il treno entrasse nella stazione di un piccolo paese sul fianco del lago. Forse Castiglione, forse Terontola, o forse qualche altro nome che non ricordo più. Quello che ho ancora nitido nella mente è il colore azzurro e grigio dell’acqua. Il basso movimento delle onde, appena appena sospinte a riva dal vento. Poco più che un’increspatura. E quella trasparenza ovattata di bruma che sempre mi sembra stia sospesa fra l’acqua e l’aria. Nella luce orizzontale del tardo pomeriggio.
Tornavo verso casa e come sempre fermavo gli occhi a riposare sul paesaggio tranquillo e prigioniero del lago. Fu allora che come nata dall’acqua una folla di immagini venne verso di me, ognuna attraversò lo spazio d’aria che ci separava e tutte invasero la mia mente.
Erano tante strane immagini. Faccio ancora fatica a metterle in ordine. Cominciò, mi sembra, con un collage di letti colorati. Differenti tipi di letti. Piccoli, ampi, in legno, o con sontuose testiere in ferro battuto. In alcuni vi erano distese delle sagome. Non era chiaro se si trattasse di donne o di uomini. Forse erano solo fantasmi. Uno o due fantasmi seguivano a piedi. Poi arrivarono le mucche. Grandi morbide mucche con le mammelle gonfie di latte. Troppo latte. Avanzavano muovendosi a fatica. Avvicinandosi mi guardavano e avevano il volto di donne piangenti.
I fantasmi e i letti e le mucche, tutti camminavano verso di me. Divennero vicinissimi. Il vetro del finestrino che mi separava dall’alito caldo dei loro respiri s’infranse. Si scompose in lame d’aghi, che ferirono le dita di una mano. Con tagli lenti e precisi. Che scorrevano verticali lungo le dita, dai polpastrelli al centro del palmo, inesorabili. Tutt’intorno solo piatti rotti.
Ho ancora qui il foglio dove avevo preso alcuni appunti di quella allucinata visione. A quei tempi prendevo sempre appunti. Come continuo a fare ancora. Tutte le volte che è necessario strappare i fantasmi dal terreno che li nutre e renderli innocue righe d’inchiostro.
Nello spazio lasciato vuoto dalle parole c’è un disegno. Uno scarabocchio, piuttosto. E’ una mano che fra l’indice e il pollice afferra una farfalla. Un gesto molle, quasi distratto, come a dimostrare, quasi fosse necessario, che non costa alcuno sforzo immobilizzare una farfalla. Mentre una forbice mossa, sembra, solo dall’aria, ne taglia le ali. Un gesto sgraziato sospeso sopra un fascio di lame di vetri.
Un brutto disegno. Anche ora che lo guardo dopo tanto tempo, sento il sordo stridere del morso del ferro che taglia e il dolore asciutto delle ali di quella farfalla.
Era tutto già riassunto lì. Bisognerebbe fare più attenzione alle proprie visioni. Non lasciarsene solo incantare. Ma io me ne dimenticai presto. Di questa come di altre. Ero troppo giovane per capire ed ero contenta di ritornare verso quella che allora era la mia casa. Di lasciarmi andare al dondolio lento del treno. All’aria del mese di maggio. Già piena di tepore e di spore mature.
Lo vidi per la prima volta qualche giorno dopo.
In molti mi avevano già parlato di lui. “E’ appena arrivato dalla Francia, lo devi conoscere”. “E’ tornato da New York” mi dicevano. “Vedrai, è uno dei migliori. Il migliore” qualcuno mi diceva. Lo vidi nel locale dove teneva un concerto con il suo gruppo. Un jazz molto complesso, intellettuale, quella sera, e tutti li vidi musicisti maturi, forti, irraggiungibili. Lui era il pianista e suonava da dio.
“Suona da dio, ma è completamente pazzo” dissi a Marco, che mi aveva accompagnato in uno dei soliti giri fra cantine e locali notturni. Marco rise e mi raccontò di lui, dettagli che ora non ricordo. Ma ricordo che a un certo punto mi puntò gli occhi addosso e fece un commento non so se più ironico o risentito: “So già come andrà a finire. Fra di voi” disse.
Le luci erano basse e lui era curvo sulla tastiera.
“Senti questo pezzo,” fece Marco. “E’ uno dei suoi. Ascoltalo bene…”.
Ma io già non avevo occhi e orecchi che per lui.
Aveva un modo molto particolare di scavare dentro la musica, dentro ogni nota. Andava giù, giù, ancora giù. Come tentato dall’esplorare chissà quali profondità. Fermandosi sul limite di non so cosa. Per poi risalire, in vortici leggeri. Soffermarsi in superficie, giocare con l’aria, indugiare accarezzando il piano della tastiera per poi ancora ridiscendere. Come inseguendo e componendo movimenti di linee a lui solo visibili.
Era sempre curvo sulla tastiera. Non ne potevo vedere bene il volto. Solo un tratto di profilo inclinato, la linea assorta dello zigomo, la barba leggera. La testa affollata di capelli e le spalle. Larghe e fragili di sussulti. Le braccia forti e le mani, le mani e le dita che erano tasti ed erano musica. Poi finalmente sollevò la testa, si volse appena, e vidi gli occhi. Grandi e scuri. Nella penombra mi sembrarono immensi. Erano immensi. Lucidi di gioia. Eccitata. Guardarono intorno, immaginai mi guardarono. Quasi subito si riabbassarono e furono di nuovo solo della musica.
Non so se fu già quella sera che m’innamorai di lui. No, non credo. Ma ne avvertivo, fortissimo, il fascino. Continuavo a fissare le sue mani, illuminate negli spot di luce, il loro doppio riflesso nel legno del piano, le dita che danzavano decise. Sfiorando appena i tasti e sempre fondendosi in loro. Sembravano tessere parole di note. Accompagnate da sfrigolio di piatti, tocchi soffocati di tamburo e corde di basso. Ma io vedevo e sentivo solo le sue dita.
Tutt’intorno era il solito sommesso chiasso. Parole, cenni d’intesa, saluti sorpresi da un tavolo all’altro, tintinnio breve di bicchieri, distratto spostare di sedie. Qualcuno che arrivava, qualcun altro che usciva per chissà dove. Incontri. Avvistamenti. Appuntamenti.
Salutai degli amici appena arrivati. Fecero segno di unirmi al loro tavolo. Esitai, poi provai ad alzarmi.
Ma tutto sembrò fermarsi, o almeno così ricordo la vertigine che si aprì nella mia testa, quando sentii l’accenno alle note di quel brano.
“Angela”. Motivo dolcissimo e dolorante che presto avrei imparato a conoscere e amare. Poche note che erano già un rimpianto
“Angela, Angelo, angelo mio. Io non credevo che questa sera. Sarebbe stato un addio. Angela io non sapevo”.
Ogni strofa un lieve lamento. Mi aveva preso allo stomaco dalla prima volta che l’avevo sentito. Decine e decine di volte l’avrei poi riascoltato nascere dalle sue dita, che sempre sembravano girare intorno alla triste dolcezza del brano quasi ne fossero padrone e schiave allo stesso tempo. Scavando nella melodia variazioni. Sprofondando fin dove il dolore poteva arrivare. Tentando a volte improvvise impossibili fughe. Per ritornare a cullarsi nel rimpianto. Rassegnate alla propria catena.
“Angela, angelo, angelo mio io non sapevo.
… volevo solo vederti piangere. Perché mi piace farti soffrire”.
Quel motivo ritornò a tratti durante la serata. O almeno così credetti. Forse perché rimasto prigioniero nella mia testa, più di una volta mi sembrò di sentirlo affacciarsi a sorpresa nel fraseggio di ogni altro brano che fu suonato. Negli attacchi dei suoi assolo. Magari ripreso in un breve cenno, riassunto in una sola nota. Nascosto qua e là nelle pause di silenzio.
“Angela, Angela, io non volevo”.
Nessuno vorrebbe mai. Ma a volte c’è poco da fare. Temo. Quando le cose della vita fuggono lungo solchi già segnati. Spesso ci si illude, ci si oppone, si combatte senza accorgersi, quando presi nel corpo a corpo, del rischio di precipitare in una stessa terra nera. Ma questo posso dirlo solo adesso, che tutto si è già compiuto. Ormai da tempo. Allora era maggio. Finalmente lontano il torpore dell’inverno. Che sa come annichilirmi. Il calore della primavera inoltrata s’infiltrava fin sotto le volte della cantina. Era profumo di futuro. Lo riconoscevo benissimo, pur confuso fra la nebbia delle sigarette, le risa, i fumi dell’alcool, la musica che nasceva dalle sue dita, che restai lì ad ascoltare fino all’ultima nota dell’ultimo pezzo. Che, se il ricordo non si confonde, mi sembrò un gioco di danza, improvvisato sul piano di panno di un tavolo. Le note tentavano sommessi movimenti centrifughi, venivano ricomposte, scosse, respinte, riacciuffate e rimesse in gioco. Come una danza di dadi.
“So già come andrà a finire fra di voi! Pazienza!”
Marco rise. Scherzò ancora, e quando la serata ebbe termine, prima di andare via, insieme ci avvicinammo a lui per un breve saluto.
Lui sorrise con aria timida e, mi sembrò, distratta. Mi guardò appena. Di sfuggita. Ma forse così mi sembrò per via delle luci basse del locale e poi so bene quanto, al termine di un concerto, si sia ancora prigionieri della propria musica.
Lo rividi due giorni dopo. Era su di un autobus che saliva sulla collina alle porte della città. Non ricordo perché anch’io fossi lì.
Lui era assorto. Mi avvicinai.
“Ti ricordi di me?” gli chiesi.
Si ricordava, certo, di me. Si ricordava benissimo di me, mi disse. Mi confuse.
Ancora una sera andai ad ascoltarlo suonare. Ancora fui catturata dalla sua musica, piena di echi che sembravano arrivare da mondi lontani. La sua ricerca musicale a quel tempo era anche un viaggio, avrei in seguito capito, attraverso il ricordo dei suoni della terra d’Africa. Viaggio carico di nostalgia della magnifica infanzia che lì aveva trascorso. Con i fratelli, le sorelle, l’intera famiglia. Memoria di una felicità perduta poi lì sul limite del mare. Ma anche questo seppi solo in seguito.
Uscii da quella seconda serata con un suo disco. La copertina era un intreccio di curve che su un fondo bianco disegnavano figure. La testa di un cavallo, gli occhi di un fantasma, il sorriso di un clown, la spirale tronca di due conchiglie, due ombrelli, uno in volo verso lo sbarramento della linea del titolo, l’altro che planava verso il basso a testa in giù. Poi perle come gocce, o forse lacrime legate a un filo, e note a dondolo in fuga da un triangolo. Figure che avrei detto cadute alla rinfusa sulla base bianca del cartoncino, come da una scatola di minuti oggetti che un bambino avesse rovesciato in terra, dicendo: basta! è ora di cambiare gioco. Seppi dopo che si trattava di uno dei suoi disegni.
Prima di addormentarmi ne sfogliai la copertina. All’interno c’era una sua foto di qualche anno prima. Molti anni prima. Rideva a pieno viso di fronte alla camera. Come a diciott’anni ancora si riesce a ridere. Mi piacquero i suoi denti, larghi e un po’ sfrontati. I suoi sconfinati occhi castani.
L’estate passò senza che mi capitasse più di rivederlo. Né lo cercai, né evidentemente mi cercò. Ma la sua musica e i suoi occhi erano ancora lì, acquattati nella mia testa.
Fu in autunno. Erano trascorsi quasi sei mesi dal primo incontro. Mi chiamarono per sostituire per una serata la cantante che si era ammalata. Andai. Il pianista era lui.
Ricordo poco di quel concerto, se non il mio timore di non essere alla sua altezza, di non essere abbastanza brava per lui, e per gli altri suoi compagni, e che con impaccio, appena lo vidi, gli feci ancora quella domanda.
“Ti ricordi di me?”
Non rispose. Semplicemente sorrise appena.
Poi la serata ebbe inizio e lui mi sembrò essere subito solo del suo piano.
Al termine del concerto ci fermammo a bere qualcosa. Poi lui mi accompagnò fino alla bicicletta.
Parlava pochissimo.
Lo incontrai ancora, pochi giorni dopo, ad una cena in casa di Marco.
Gli dissi che ero stata contenta di aver cantato con lui. Che mi ero chiesta, e gli chiesi, se gli ero piaciuta.
Lui mi guardò in silenzio.
“Ti ricordi di me?” Questa volta scherzai.
“Certo, che mi ricordo di te” disse serio. Ricordava tutto, disse, fin dal primo giorno. Ricordava esattamente persino i colori del vestito che portavo quella prima sera di maggio in cui c’eravamo incontrati.
“Certo che mi ricordo di te,” disse. “sono sei mesi che ti aspetto”.