Ancora un intervento di Vittorio Da Rios, che ancora ringraziamo per tanta attenzione…
“Avevo trent’anni e per i strani casi della vita, “ma quasi niente è il prodotto del caso”, conobbi uno straordinario personaggio, un intellettuale scrittore, e diplomatico olandese. Di questa figura diventata poi un carissimo amico, a suo tempo ne ho già scritto delle riflessioni. Ora lo scritto come sempre stimolante e gravido di fondamentali domande di Francesca sul suicidio in carcere, mi stimola a rifare alcune considerazioni, e riflessioni. Martin, questo il suo nome, aveva trovato nell’alveo del fiume Piave la giusta “quiete” per terminare il suo capolavoro della maturità. E ricordo che lo accompagnai a spedire al suo editore a Rotterdam il dattiloscritto. Cosa trattava questo scritto? Della malattia mentale e delle sofferenze psichiche in generale e del suicidio in particolare. Martin aveva fatto grande esperienza concreta per molto tempo nei luoghi di “sofferenza”, strutture manicomiali, carceri ecc. E il suicidio lo aveva studiato da diverse angolazioni con grande conoscenza teorica: aveva studiato tutti i padri della psichiatria, della psicanalisi e della psicoterapia. Naturale il considerare che il suicidio è antico come l’Ominide, ma nell’era catastrofale odierna ha assunto forme e motivazioni inedite rispetto a paradigmi passati. Un primo aspetto da evidenziare del soggetto suicida: un attimo dopo se potesse ritornare indietro non lo farebbe più. Anche in luoghi di sofferenza estrema come è il carcere. Non intendo entrare dentro i complessi meccanismi della psiche umana, ma da molti “suicidi” mancati emerge questo. Quindi la tragica solitudine interiore, le insopportabili sofferenze psichiche e fisiche in taluni, casi e questo paradigma lo troviamo in carcere, porta momentaneamente ad esaurire tutte le risorse intellettuali culturali e psichiche positive. Il “buio” è totale, la solitudine irreversibile, quindi l’atto estremo. Lo stesso accade per i suicidi “liberi”, né più né meno, i meccanismi psicologici che lo determinano sono gli stessi. Ma la domanda che ci pone Francesca non può non inquietarci e porci innanzi a delle domande estreme che richiedono risposte altrettanto estreme quanto inedite rispetto ai paradigmi culturali odierni. Io mi permetto di citare ancora una volta un grande quanto innovativo giurista: Luigi Ferraioli, e la sua definizione di straordinaria sintesi dell’attuale realtà economica-finanziaria: “Creatrice dei crimini di sistema”. Quindi passiamo dal tradizionale paradigma della colpa “individuale” a responsabilità collettive. E i suicidi in carcere dove le creature sono irrimediabilmente “ristrette”, totalmente indifese, sono non solo responsabilità in fatto di diritto di questo oramai NON PIU’ STATO svenduto e oltraggiato nella sua essenza costitutiva GIURIDICA-COSTITUZIONALE, MA UN ASSASSINIO COLLETTIVO. I suicidi in carcere vanno ritenuti assassini collettivi. Per due semplici ragioni. Da un lato l’attuale paradigma giuridico-repressivo deve iniziare a riflettere e a darne conto. Se non esiste più lo Stato di diritto, e questo è incontrovertibile, con quale autorità oggi si mantiene ancora in essere il sistema carcerario? Dall’altro l’urgenza di ripristinare il DIRITTO previsto dalla Costituzione, nei suoi articoli portanti e fondativi di un efficiente e moderno STATO DI DIRITTO. Ma cosa si intente oggi per diritto e quindi organizzare il sistema di uno Stato moderno per dare a tutto concretezza operativa? E’ un compito collettivo cioè di tutti. Che prevede la deforestazione di gran parte del ginepraio dei testi giuridici, tanti di questi ripetitivi e inutili. E un ridisegnare dentro una riconquistata e matura civiltà del diritto nuovi trattati dei codici penali e civili. In sintesi un grande ripensamento con gli strumenti più evoluti della filosofia del diritto sugli strumenti filosofici-giuridici oggi e in futuro più idonei a determinare in tutte le pieghe della società a costruire concretamente l’applicazione del DIRITTO che prima di tutto è DIRITTO NATURALE: Giustizia sociale, equità economica, formazione culturale, costruzione del sapere collettivo, ecc. Questo agire nel tessuto sociale determina la totale inutilità del sistema carcerario. Retaggio feudale oggi non più tollerabile. E ci sia da stimolo riflessivo queste considerazioni di Lucrezio sulla conoscenza e l’errore. “Infine, se alcuno crede che niente si conosca, ignora anche questo, se si possa conoscere, perché ammette di non saper niente. Con lui dunque lascerò di discutere, perché da se stesso si pone con il capo al posto dei piedi”. Non meno tagliente questo assioma di Lucrezio sul pessimismo storico. “Così il genere umano si travaglia senza alcun frutto e invano sempre, e tra inutili affanni consuma la vita. Senza speranza non è la realtà ma il sapere che nel simbolo fantastico o matematico si appropria la realtà come schema e la perpetua”. Horkheimer e Adorno 1947. In “ragione e miseria” Franca Ongaro Basaglia, e Franco Basaglia fanno rilevare il momento storico in cui attraverso la dignità di malattia riconosciuta al delirio si da l’avvio a questo trasferimento della follia nella malattia mentale in cui la ragione consolida le fondamenta del suo impero, dà la possibilità di capire un altro aspetto essenziale del processo razionale, umanitario, scientifico, attraverso il quale la “malattia” diventa la mediazione tra la ragione ” dominate” e la miseria. Se la ragione borghese è diventata la Ragione Umana, il rapporto fra ragione e follia ” segregata ” è essenzialmente rapporto tra “Potere e Miseria” Un grazie di tutto cuore a Francesca per l’inesauribile impegno etico sociale che da sempre la caratterizza. Un caro saluto.
Vittorio Da Rios