L’altra riva

L’altra riva. C’è sempre qualcuno che guarda da un’altra riva… E da quanti e quali punti di vista una storia può essere raccontata? Sguardi che non hanno nessuna presunzione d’oggettività, ma non per questo meno lontani dal vero. Anzi.

Ascoltare, indagare le voci dell’altra riva, anche quando non pronunciate, è un modo per provare a rompere la gabbia che ci si stringe intorno quando il linguaggio quotidiano s’impoverisce: parole d’ordine, luoghi comuni che diventano luoghi di contenzione.

Un’antica storia inuit, La donna scheletro, insegna che la morte ha sempre in incubazione una nuova vita, che bisogna imparare a tessere carne per rivestire le ossa di uno scheletro, che bisogna avere il coraggio di guardarle, quelle ossa, e guardando intenerirsi, pure… Spiega insomma che bisogna essere capaci di conoscenza, anche dolorosa, e che ci sono parti di noi alle quali dobbiamo rinunciare per dare ascolto e fare spazio all’altro e a tutto quello che ha da dirci. E dunque, anche oltre il rapporto a due, gettare ponti verso l’altra riva o, anche, lasciare che l’altro arrivi a noi, perché nella storia è la donna scheletro, agganciata dall’amo del pescatore che spaventato vuole ributtarla in mare, ad inseguire poi l’uomo fin dentro la sua capanna…

L’altra riva, dunque. E’ stato Eyal, un giorno, a propormi di scrivere un racconto su una delle sue foto. Scelsi quella che mi aveva tempo prima regalato, e che mi era piaciuta molto. Un ragazzo e una ragazza seduti sull’argine del Tevere, nel punto dove un gradino del letto del fiume disegna una piccola cascata. E non potei far altro che pensare di affidare la narrazione di quell’immagine a qualcuno che fosse sulla riva opposta, che non era più il mio amico, l’occhio di quell’istantanea, ma qualcuno che abitasse le rive ufficiose del fiume. Insomma, un cittadino di una di quelle specie di no man’s land urbane dove si accampano coloro per i quali sulla nostra riva non c’è spazio.

Un possibile, legittimo, punto di vista. E comincio da qui. Da “Soltanto l’acqua che scorre”, monologo, appunto, dall’altra riva.