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    Alice…

    gabripazzaQuando andai alla presentazione di uno dei suoi libri, ne rimasi piuttosto spiazzata. Gabriella La Rovere, che con “L’orologio di Benedetta” riusciva a sballottarti su e giù in quell’altalena che è la sua vita di madre di una ragazza autistica, quella sera riuscì a trasformare la sua emozione, il suo dolore, anche, in gesti che ti inchiodavano lo sguardo e l’anima. “Potresti fare l’attrice”, le dissi, le dicemmo anzi in molti, alla fine… “Forse sei un’attrice”. Ed eccola, ora, che la ritrovo a calpestare il palcoscenico di un teatro. Per un monologo, di cui è anche autrice, con il quale ci fa entrare nella mente di una “matta”. Quale pane per i denti di gatto randagio! Potete immaginare…
    “Alice”, il titolo, non è il nome della protagonista, ma il richiamo dell’eco di un mondo meraviglioso popolato di conigli senza tempo e trecce e cappellai che quella “matta” vorrebbe avere intorno a sé…
    Ma la scena è ben altra, e si apre sul buio di uno scambio di battute di voci maschili tratto, quello sì, proprio da un brano di “Alice nel paese delle meraviglie”, scomposto in un dialogo a tre. Voci che sembrano venire dal tetto. Con l’intento, spiega Gabriella, anche di sviare. “Queste voci sono un delirio della protagonista? Ci sono veramente delle persone sul tetto? Quello che racconta succede realmente? Ma, soprattutto, se dovesse mai capitare a me di avere un Tso, farò la sua stessa fine, verrò inserita in una lista di sorvegliati speciali ai quale non si perdona niente…?”
    Poi le voci si dileguano, si accendono le luci, e compare lei. Bianca. Più bianca del camicione che indossa… con capelli scomposti e occhi cerchiati da pazza… “Mi chiamo Gina. Ho sessant’anni e 18 Tso”. E chi sa cosa sia un Trattamento sanitario obbligatorio non fa fatica a immaginare come “il tuo primo ricovero ti segna a vita e tutto quello che eri prima viene cancellato e sei solo una povera pazza senza possibilità di riammissione nel mondo dei normali”.
    E si entra in un luogo che ha in se stesso la sua ragione d’essere, come alla fine sono tutti i sistemi di contenzione.
    “Ma come fai a sapere che sono matta?”. “Devi esserlo per forza altrimenti non saresti venuta qui”. Gina sente le voci, e ‘le voci’ a volte danno risposte che altrove non trovi…
    Il ‘qui’ dove Gina è arrivata è una stanza dove regna il vuoto nel quale rimbombano i suoi pensieri, dove deve fare i conti con i gesti rallentati e la mente sconvolta da massicce dosi di farmaci il cui nome finisce in …zepam.
    “Alice” ci ricorda che la storia di persone come Gina, sono sempre la storia di un tradimento. Quello, nella sua vicenda, della sorella, che ha paura di lei e la fa rinchiudere. Che è la stessa paura dei vicini, ed è la paura un po’ di tutti noi. Che rinchiudendo, fisicamente troppo spesso persino nei lacci terribili della contenzione, tradiamo il bisogno di aiuto, di comprensione, di amore…
    Hambre de alma…, fame di anima, e libertà… è ciò che Gina, a nome di tutti quelli costretti nelle sue condizioni, reclama ad ogni respiro.
    Il monologo, che la vede sempre sola nella scena, al centro, ferma, accartocciata in un angolo, in nervoso movimento… è intervallato da immagini. In bianco e nero, come sono le foto del passato, come passato e lontano diventa il mondo, oltre le grate della prigione che ai ‘folli’ viene costruita intorno.
    Rimangono ‘le voci’… Parlai una volta con una donna, ‘uditrice di voci’, come si dice. Superata la fase difficile dei suoi disturbi, era tornata al suo lavoro di insegnante, ad una vita normale (ma cos’è poi la normalità?) di relazioni. Disse che ancora, a volte, sentiva quelle voci, che pure erano diventate come un’affettuosa compagnia, in quel cammino complesso, delicato e difficile che è imparare a gestire le proprie debolezze…
    E mi sono chiesta se a volte sono percepite, quelle voci che chissà da dove arrivano, più rassicuranti del nostro estraneo ciarlare. Le voci sono l’unica compagnia per Gina, lì, a piedi nudi, circondata dal nulla della scatola nella quale è rinchiusa. Come lei, tutto l’intorno è bianco… che è colore che ogni altro assorbe in sé, per diventare il colore opaco della morte.
    Non riesco a non pensare ad altra scena vista a teatro, alla veste bianca di un’Ifigenia condotta al sacrificio. Perché questo accade quando celebriamo il sacrificio della vita dell’altro all’altare della nostra presunta tranquillità. E continuando a cercare, e scrivere e raccontare, e portandoci dentro percorsi fisici e mentali di persone che vogliamo escludere e allontanare da noi, Gabriella La Rovere ce lo ricorda con forza.
    Perché se i manicomi sono stati formalmente chiusi, rimangono tante storture e ombre… Le riassumo, con le parole di Peppe Dell’Acqua: “Le cose della salute mentale nel nostro paese vivono momenti difficili e, benché siano evidenti le buone leggi, gli impensabili mutamenti istituzionali, le culture critiche, le isolate buone pratiche e il generoso impegno di tanti operatori e cittadini, il rischio della prepotente occupazione del terreno da parte delle psichiatrie del cervello, dei farmaci, delle pericolosità, delle contenzioni è, quanto mai prima d’ora, una presenza inquietante…”
    Rimane la follia, che è parte di noi e parte del mondo, alla quale dovremmo imparare ad accostarci con meno paure, meno prevenzioni e ostilità, con meno parole che finiscono in ‘zepam’…

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