La pietra, gli artisti, le prigioni…
C’è una pietra, in Palestina, chiamata pietra di Gerusalemme, Jerusalem Stone. Una pietra che è roccia, della roccia ha la bellezza e la forza, pietra di costruzioni storiche che nel tempo ancora vivono. Da sempre molto usata per la costruzione delle case, al cui calore rimanda…
Perché ve ne parlo? Per via di un progetto che è insieme denuncia, arte, provocazione come solo l’arte sa fare… e mette insieme Europa, Palestina, il movimento e il vivere come pietrificati in un luogo dove la vita tutta delle persone è fortemente limitata. Cosa che da troppo tempo accade in terra di Palestina. E che risponde alle stesse dinamiche di ciò che accade in tutte le situazioni di forte controllo, come in un regime miliare, ad esempio, come in un carcere ad esempio…
L’idea, di Matteo Guidi, artista visivo con una formazione in etno-antropologia, che da tempo vive a Barcellona, studioso di fenomeni di forte esclusione sociale e di alto controllo sulla persona, e di Giuliana Racco, artista canadese, che per anni ha lavorato fra l’altro sul movimento delle persone attraverso territori in situazioni di eccezionalità.
E poi c’è Ibrahim Jawabreh, artista performer nato e vissuto nel campo rifugiati di Arroub, con cui Matteo Guidi, nel 2011 in Palestina, ha lavorato, e che avrebbe tanto voluto portare con sé in Spagna, affinché potesse portare avanti in Europa la sua pratica artistica e poter interagire con il lavoro degli amici europei.
Aprire per lui le porte d’uscita dal suo paese. Una vera sfida… che è diventato un progetto, Elemental Movements, di cui “The artists and the stone” è il primo passo: fare arrivare Ibrahim a Barcellona, e nello stesso tempo spostare dalla cava vicina allo stesso campo di rifugiati dal quale Ibrahim proviene un blocco di pietre di circa dodici tonnellate. Provando insomma a far diventare la situazione di Ibrahim un caso, si è pensato di contrapporre il suo movimento a quello di una pietra di dodici tonnellate.
Ebbene, preparati i documenti necessari per fare ottenere a Ibrahim un visto Schengen dall’ambasciata spagnola in Palestina, preparati i documenti per spostare la grande pietra… in una decina di giorni la pietra, nel settembre del 2015, è arrivata a Barcellona. Ibrahim è riuscito a mettere piede in Europa solo due mesi e mezzo dopo la pietra…
E’ ritornato ora di nuovo, e neppure è stato semplice, ma ce l’ha fatta. Ed era a Roma, questo autunno, alla presentazione, all’ambasciata di Spagna, del progetto “The artists e the stone”. Ad assistere anche lui alla proiezione del video che documenta il viaggio della pietra…
Quasi ipnotizza guardare il video.
La telecamera spesso fissa sull’enorme pietra che sembra scivolare “leggera”, mentre senza intoppi attraversa check points e frontiere e solca il mare, e quasi allieta il cuore vederla approdare al porto di Barcellona, bella, potente, luminosa. Ma pesante, pesantissima e buia è l’assenza di Ibrahim…
Nati nello stesso luogo, la pietra scorre libera sotto il cielo e a tratti sembra volare, mentre Ibrahim è rimasto prigioniero. E non puoi che pensare alla tristezza di chi non si è mosso, al tempo infinito dei permessi negati, alla frustrazione di un viaggio negato, del movimento negato.
“Il soggetto occulto del film- spiega Benedetta Casini, curatrice della mostra a Roma- è ciò che accade oltre i margini dell’inquadratura, escluso dallo sguardo. Il blocco di pietra traccia un confine fra ciò che è visibile e libero di attraversare confini e chi non lo è”.
E il pensiero, insieme a Ibrahim, va ai tanti cui la libertà è così arbitrariamente imprigionata… Con tanto più strazio per la grande violenza esercitata su un popolo intero, di fatto da decenni come incarcerato, oggi che il genocidio in corso in Palestina ce lo ricorda ogni giorno. Se prima avevamo preferito dimenticarlo.
Con un’avvertenza. Che la questione non finisce qui, e il nodo del problema investe anche noi, anche se ce ne sentiamo al riparo.
“Nei territori occupati, nei regimi, in un carcere…- spiega Matteo Guidi- queste condizioni sono portate all’estremo. Sono ancora più evidenti le politiche di controllo sopra la persona, come il suo spazio di movimento quotidiano può essere implicato solamente per scoraggiare a compiere determinate, semplici, azioni. In questi luoghi si creano forme di autocensura. Non faccio questo perché mi può accadere quest’altro… Meglio non andare lì, per evitare di trovarmi in questa o in quella situazione…”. Sotto un’occupazione, nei regimi, in carcere…
Ma, mi aveva fatto notare Matteo quando incrociandoci sulla strada che in carcere porta ci siamo conosciuti, “in realtà ci sono tante misure intermedie dove, senza che ce ne rendiamo conto, questo avviene”. Pensando a tutte quelle forme di controllo che alla fine più o meno tranquillamente accettiamo per “questioni di sicurezza”. Pensandoci un po’ su… guardandoci intorno, guardandoci dentro…
Per questo lo sguardo su territori occupati come la Palestina, come sul carcere, di cui Matteo Guidi pure si è molto occupato, “ci permettono di capire qualcosa di quello che avviene nella nostra vita quotidiana, in territori dove apparentemente ci sentiamo sicuri”.
Oggi, guardando al viaggio della grande pietra di Gerusalemme, che senza intoppi in una decina di giorni scivola lungo frontiere, attraversa il mare, approda a Barcellona…
“L’obiettivo per me- spiega ancora Matteo – è studiare i meccanismi del controllo dichiarato, istituzionalizzato, ma anche vedere come l’uomo è in grado di trovare degli espedienti, che io chiamo tattiche, soluzioni o scorciatoie per riadattare e rinegoziare la propria posizione altrimenti passiva. A dieci anni di distanza da questa opera, le cose non sono cambiate, anzi sono peggiorate. Il genocidio avvenuto a Gaza ci ha dimostrato che non solo ci sono persone che hanno difficoltà a superare le frontiere, partendo proprio da quelle dei propri paesi, ma che è addirittura possibile tenerle chiuse in un territorio e bombardarle. Quando ho realizzato questo progetto insieme a Giuliana Racco nessuno dei due poteva immaginare che saremmo potuti arrivare a questo livello di odio nei confronti di una popolazione, e come questa situazione sia la cartina tornasole dell’impunità che hanno certi stati rispetto ad altri. Sempre per tornare al solito discorso di passaporti di serie A e di serie B, C, D…”.
A Roma dunque c’è, infine, anche l’amico Ibrahim… E strugge incrociare il suo sguardo profondo, che sembra racchiudere in sé tanta storia. Uno sguardo vicino e lontano, che racconta tutto il tempo impiegato per fare lo stesso percorso che la pietra della sua terra ha fatto in un soffio…
E il suo pensiero ancora brucia, quasi si fa fatica a reggere: “Avrei voluto essere questa pietra, almeno nessuno ti chiederebbe cosa stai provando ora. Ti guarderebbero, poi sparirebbero… per sempre. Essere un essere umano in generale, e palestinese in particolare, significa che oggi sei immerso in una massa di dolore, in una palude di tristezza.
Tutto intorno a te svanisce all’improvviso; la guerra, l’odio e la morte si innalzano come un grande muro che ti circonda.
Tutto muore, e le rocce restano sole, senza nomi e senza indirizzi”.
Scritto per Voci di Dentro