Storia di Wissem
Si è tenuta il 9 aprile l’udienza preliminare del processo per la morte di Wissem Ben Abdel Latif. Giovane tunisino di 26 anni, sbarcato il 2 ottobre del 2021 a Lampedusa, passato per una nave quarantena, spedito al Cpr di Ponte Galeria, morto il 28 novembre di quell’anno, legato a un letto di contenzione del San Camillo di Roma, sedato e legato per 100 ore consecutive. Wissem, arrivato in Italia “sano”. Ne parliamo con Yasmine Accardo, che tutta la vicenda ha seguito e, con LasciateCientrare, fa parte del Comitato “Verità e giustizia per Wissem”.
Un racconto dettagliato che denuncia l’assurda violenza di una storia che tante ne rappresenta…
“Wissem arriva a Lampedusa nel periodo dell’emergenza covid, qunado erano state istituite le navi quarantena. Seguivamo tantissime persone provenienti da Tunisia ed Egitto che non riuscivano ad accedere alla richiesta di protezione e finivano in Cpr o con un foglio di via alla velocità della luce. Decine e decine di casi ci venivano segnalati prevalentemente dagli attivisti tunisini. Un periodo particolare, appunto… c’era l’emergenza covid, che vedeva l’utilizzo delle navi quarantena per isolare le persone in arrivo d’oltremare, bloccate in attesa di ricevere il risultato positivo o negativo del covid. Strumento, terribile, demoniaco… di fatto i migranti non venivano fatti arrivare a terra, e ci si prendeva tutto il tempo necessario sostanzialmente per sottrarre loro diritti, a cominciare da quello alla salute: ci sono studi che dimostrano come tutte le patologie si diffondono facilmente nelle navi. Un sistema fra l’altro strumentale al privato, cioè a tutti coloro che avevano le navi quarantena in gestione, grandi compagnie che non potevano più viaggiare e che hanno utilizzato questo periodo per continuare a fare soldi. Lo Stato ha dilapidato milioni e milioni di euro per l’impiego di queste navi, una sorta di esternalizzazione di frontiera sull’acqua.
Quello che mi ricordo di impressionante erano le azioni delle reti tunisine, delle famiglie che ci contattavano per segnalarci decine e decine di casi al giorno. Il problema principale, come sempre, era presentare la richiesta di protezione internazionale, che significa poter anche solo dire: “io devo fare richiesta di protezione internazionale” e fare in modo che ci sia traccia di questa domanda, perché se non ce ne è traccia il sistema considera che tu in realtà non hai fatto richiesta. E se la farai in seguito, verrà considerata una richiesta strumentale…
Strumentale a cosa?
Strumentale al fatto di non voler entrare in un Cpr, e questo valeva in particolare per i migranti provenienti da paesi considerati “sicuri”. Centinaia di tunisini non riuscivano a presentare richiesta di protezione, sulle navi e nell’hotspot di Lampedusa incontravano operatori che assicuravano che la richiesta l’avrebbero fatta una volta a terra, quindi salivano sulle navi tranquilli, ma non era esattamente così.
Noi abbiamo iniziato a seguire tutti i casi di persone tunisine ed egiziane che volevano presentare domanda di protezione, rivolgendosi sia alla Croce Rossa sia agli uffici d’immigrazione competente e alle prefetture di riferimento rispetto a dove si trovava la nave quarantena.
Facevamo un fiume di richieste. Erano talmente tante che a volte non riuscivamo neppure a ricordare i nomi delle persone, le loro storie scorrevano l’un l’altra come corpo unico, velocità che toglie non solo diritti, ma il senso della persona come individuo. Una macchina costruita ad hoc per cancellare la voce di chi arriva. Noi siamo convinti che il diritto alla protezione internazionale, che le norme e le procedure attuali hanno annichilito, nasce anche solo dal dire “io voglio farne richiesta”, come del resto ben delineato e ribadito nelle normative europee ed internazionali dai tempi della convenzione di Ginevra: basta dirlo! E non vogliamo conoscere le storie. E’ un diritto di ciascuno. Chi deciderà non sono gli attivisti né le questure, ma una commissione deputata alla valutazione della richiesta. Per noi vige un’unica norma: la libertà di movimento.
Wissem è dunque arrivato in quel periodo, pieno di difficoltà e ambiguità…
Sì, Wissem arriva il 2 ottobre, il giorno prima delle celebrazioni che si fanno di un’altra storia, la strage dell’ottobre del 2011, quando arrivano tutte le autorità sull’isola di Lampedusa. Era nell’hotspot di Lampedusa. Voleva fare la sua richiesta e anche a lui fu detto “lo farete dopo”. Ma Wissem è in mezzo al gruppo di tunisini, che già solo per la provenienza da un paese considerato “sicuro” non vengono considerati aventi diritto neanche di fare la richiesta, e questo è grave anche perché la richiesta di protezione internazionale è individuale, non certo di gruppo…e lasciamo perdere la dicitura “paese sicuro”che davvero è priva di senso. Non esistono paesi sicuri.
In quei giorni noi eravamo a Lampedusa. Paradossale che noi avevamo una certa libertà di movimento (era l’inizio del covid) mentre loro non potevano muoversi. Siamo arrivati sugli scogli dove arrivavano le navi quarantena a prendere le persone.
C’era un grande caldo nonostante fosse ottobre. Donne, madri, bambini, bambine, uomini con bottiglie d’acqua e le buste che ricevevano all’hotspot di Lampedusa, venivano messi in fila uno dietro l’altro, dieci alla volta in attesa delle navi. Aspettavano per ore senza poter aver contatto con nessuno, mentre nelle spiagge di fronte c’era chi faceva il bagno, c’era anche qualcuno che veniva a farsi il selfie!
Wissem era fra quelle persone e appena salito sulla nave comincia a denunciare, mandando video alla famiglia e ad alcuni siti tunisini. C’è un video che non dimenticherò mai, dove filma dall’oblò le luci a terra, e dice: “guardate, quelle sono le luci della terra ferma, di una città, noi non ci siamo mai arrivati, forse non ci torneremo più sulla terra ferma! Io qui non sono libero, ho bisogno di un avvocato, per far valere la mia volontà di chiedere la protezione internazionale”.
Fra il 12 e il 13 ottobre siamo stati contattati. Ci arrivano i nominativi con un codice che ricevevano sulle navi: codice di una stanza. Ho ancora in mente quella targhettina col codice e quel nome: Wissem Ben Abdel Latif. Impressionante. Era una fase di trasferimento, la più complicata, tutto sfugge, corre rapidamente, si perdono i contatti.
Wissem con i suoi compagni vengono portati al Cpr di Ponte Galeria e ne perdiamo completamente le tracce.
Il 3 dicembre mi chiama Majdi Kerbai. “E’ morto un uomo nel Cpr di Ponte Galeria”.
Questa è stata la prima notizia e come spesso accade le prime notizie sono estremamente confuse. Pronunciò il nome di Wissem, uno dei tanti che non aveva avuto accesso al sistema d’accoglienza ma soprattutto uno che non era riuscito ad essere libero, perché questo faceva la differenza. Fare o non fare in tempo la domanda di protezione internazionale significava essere libero o no, era tutto estremamente casuale, una casualità chirurgica…
Casualità chirurgica, quasi un ossimoro…
Già. E solo molto dopo veniamo a sapere che Wissem era morto non nel Cpr, ma nel reparto psichiatrico del san Camillo di Roma.
Veniamo contattati dalla famiglia, che cerca un avvocato, e piano piano siamo entrati in contatto con il padre, la madre, la sorella. Kamal, Rania, Heanda. Riusciamo a far nominare l’avvocato Francesco Romeo, che sta seguendo la vicenda.
Nel frattempo, chiediamo al senatore Gregorio De Falco di recarsi al Cpr insieme all’avvocato e a Majdi Karbai per sentire le voci di qualcuno, raccogliere testimonianze. Attenderanno 6 ore fuori il Cpr, di sera, senza poter entrare. Era un periodo in cui accadeva che non facessero accedere neanche a parlamentari, insistendo su questioni di sicurezza e lasciando ore al telefono in attesa di verifiche, nonostante il continuo richiamo a sentenze e normative. Succede ancora ma quello fu un periodo particolarmente aggressivo.
Poi scoppia il caso. Si viene a sapere che Wissem era già morto il 28 novembre e non nel Cpr…
Le testimonianze arrivano caotiche, arrivano video dove si dice che sia stato picchiato dalle forze dell’ordine, ma di questo non c’è nessuna evidenza. C’è la violenza pura e semplice del sistema. E sarebbe quanto basta per chiedere la chiusura dei Cpr.
Quello che veniamo anche a sapere è che Wissem aveva cominciato a stare molto male, perché non capiva perché non potesse chiedere la protezione internazionale, non sopportava le ingiustizie, venne anche fuori il nome di due avvocatesse, una delle quali l’aveva anche truffato perché anche dopo morto continuava a chiedere soldi alla famiglia. Storia agghiacciante.
Wissem era riuscito a usare un telefono, a sottrarlo ai controlli. La prima cosa che si fa nei Cpr è sottrarre i telefoni o romperne le videocamere, per evitare che escano notizie e limitando le possibilità di comunicazione, lasciate a semplici telefonini basici a modulo che vengono utilizzati da tutti. Attualmente i telefonini con possibilità di fare video sono presenti a Gradisca e Milano.
Wissem era riuscito a filmare il Cpr di Ponte Galeria mostrandone la situazione: il cibo che non andava, i letti in cemento, le coperte insufficienti, le reti d’acciaio, la perdita della libertà personale, la paura. Continuamente dichiarava il malessere: “io ho fatto richiesta di protezione, perché sono qui dentro?”.
E questo è quello che accade, nessuna delle persone che arrivano capisce perché ci si ritrova lì. Una pena sentita così ingiusta, perché dovuta al fatto che hai attraversato un confine. E per il nostro paese è un crimine, attraversare un confine deciso dall’Europa, che divide poveri e ricchi, completamente fittizio. Un confine che cambia continuamente. Oppure il tuo reato è non avere un permesso di soggiorno. Ma che significa? Significa che io Stato ti metto in tale situazione di difficoltà per averlo questo permesso di soggiorno (e le leggi sono inique e violente), ma è colpa tua se non riesci ad averlo, come dire colpevole di non riuscire a contrastare la violenza dello Stato, perché è violenza.
Noi ci chiediamo, e si chiedono i familiari, come deve essersi sentito un giovane di 26 anni, sano, che ha avuto difficoltà, al quale dopo essere stato visitato una volta è stata diagnosticata una “sindrome psicoaffettiva” (?!), cosa che ha giustificato una cospicua somministrazione di psicofarmaci.
Una storia assurda soprattutto se si pensa che mentre Wissem era legato a un letto di contenzione veniva sospesa l’esecutività del decreto di respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il Cpr di Ponte Galeria. Insomma, doveva essere libero, e neppure l’ha mai saputo…
Sì, Wissem è morto il 28 novembre e il 26 il giudice di pace di Siracusa aveva disposto la liberazione, cosa che nessuno aveva comunicato al ragazzo, che si trovava sedato e legato ad un letto di contenzione del reparto psichiatrico del San Camillo.
L’avvocato ha provato a portare avanti la denuncia di sequestro di persona e, fatto ancora più grave, il giorno prima dell’udienza preliminare è venuto a sapere che c’era stata un’archiviazione, sia in merito all’accusa di sequestro di persona, che all’accusa relativa al direttore del reparto psichiatrico del san Camillo, il dottor Petrini (nel frattempo promosso a direttore dell’Asl Roma3). Ma siccome non ne era stata fatta notifica alla parte offesa, così come richiesto, l’avvocato ha presentato ricorso, richiedendo di aprire indagine di investigazione sull’intera Asl Roma3, che è l’Asl competente sul Cpr di Ponte Galeria.
Infatti, sembra un paradosso, ma ad oggi unico imputato al processo per la morte di Wissem è un infermiere accusato di “omicidio colposo nell’esercizio della professione sanitaria e falso in atto pubblico”. Come svanita la catena di responsabilità che ha portato a quella morte.
Il mese scorso è venuta in Italia la famiglia …
Li abbiamo incontrati adesso per la prima volta, per l’udienza preliminare del processo. Finora ci eravamo sentiti al telefono, in mediazioni e momenti informativi sullo stato dell’arte del procedimento. Vista da loro, questa situazione è assolutamente incomprensibile. La famiglia lo ripete continuamente. Kamal dice: “mio figlio faceva il calciatore, era un lavoratore, è venuto in Italia per aiutare la famiglia… un bravo ragazzo, si è trovato in una situazione di ingiustizia, ha provato a denunciare e per questo gli è successo quello che è successo. Perché Wissem è stato rinchiuso?” Insopportabile sapere poi che è stato “reso pazzo” solo perché protestava e chiedeva diritti, che si è trovato in condizione di sedazione continua, farmacologica e fisica. Wissem è stato legato per 100 ore (fra l’ospedale Grassi, il primo ospedale in cui è stato portato e poi il San Camillo, dove è stato trasferito per questioni di competenza territoriale), l’unico momento di respiro sull’ambulanza, slegato per il tempo del trasferimento. Non ha mai potuto parlare, non ha mai potuto esprimersi. Hanno sentito delle urla, ma non c’è stato mediatore e si sfida chiunque a stare 100 ore legato e non urlare!
La madre continua a chiedere: “come? mi dicono che mio figlio è stato male e deve esser curato, poi vengo a sapere che si è ritrovato legato in un corridoio dove invece di essere curato è stato ammazzato”.
C’è stato un momento molto forte quando sono arrivati in tribunale. Non si aspettavano di trovarvi l’imputato. Tra l’altro pensavano che avrebbero potuto avere la possibilità di parlare. E’ vero che si fanno le mediazioni, si discute dei passaggi necessari e dei tempi, ma non è immaginabile un sistema così farraginoso nei tempi e nelle procedure. “E’ così evidente che è stato ammazzato, perché dobbiamo aspettare tanto? Lui era sano quando è arrivato in Italia!” si chiedono i genitori di Wissem.
La famiglia di Wissem è stata in Italia una settimana…
Sì, nel percorso abbiamo avuto molti incontri, con le associazioni (a Roma Rete dei Numeri Pari, Baobab Experience e la comunità tunisina legata al locale Kif Kif al Pigneto) e con alcuni giornalisti (Annalisa Camilli e giornalisti di Repubblica), al festival di antropologia dell’Università di Bologna dove è intervenuta anche la senatrice Ilaria Cucchi, con un mare di ragazzi, l’associazione la Casa del Mondo, Bolognina Antirazzista, i ragazzi di Mediterranea Bologna, Mezz’ora d’aria, Contro confine. La famiglia di Wissem ha sentito il forte abbraccio di tutti, e questo li ha fatti stare un po’ meglio, sentire di non essere soli, che la storia di Wissem continua a parlare e pretendere giustizia. Non sarà una battaglia breve ma per ogni passo che si aggiunge Wissem resta vivo.
Ricordo fra l’altro che quando è stata fatta l’autopsia la famiglia non è stata avvisata, e questa è un’altra cosa che accade con frequenza inaudita ogni volta che ci sono “corpi dei migranti”. Come quando si trova una persona senza dimora, come si faceva nel medioevo… si fanno autopsie come fossero persone senza una storia, senza una famiglia che possa quantomeno reclamare un corpo. Considerati molto meno che corpi, oggetti, continuamente violentati e cancellati dalla memoria.
Kamal, il padre, continua a dire: ma mio figlio era sano! L’ho sentito quando è arrivato a Lampedusa…
Altra considerazione, sui tempi. Tutto si è consumato fra il 2 ottobre e il 28 novembre. Morire, e in quel modo e con quel percorso, in meno di due mesi, e morire nelle mani dello Stato.
Sembra una storia estrema, ma non lo è, e le rappresenta tutte…
Sì, fra l’altro, altra cosa emblematica per i tunisini e gli egiziani in particolare, è che quando si aprivano i portelloni per scendere dalle navi quarantena non sapevano se sarebbero finiti in Cpr o in accoglienza, non lo sapevano finché la polizia non li metteva sull’autobus o sui loro pulmanini, finché non si vedevano sottrare i telefoni. Un’ansia continua, una violenza che si aggiunge a violenza. “Ora che esco di qua, cosa succederà?”. Tutto questo era e continua a essere casuale (anche ora che non vi sono le navi quarantena e le persone attendono in hotspot), senza una ratio.
La discrezionalità delle forze dell’ordine, del sistema che decide chi mettere in libertà e chi no, la totale assenza di tutela delle persone che arrivano, l’impossibilità di comunicare. L’unica cosa che si comunica è nome e data di nascita, ma di quel nome non resta niente, alla fine hai un codice: la volontà di ciascuno come persona non viene considerata. Wissem non è mai stato persona in questo paese, solo un nome con un codice, come tutte le persone che arrivano…
C’è una cosa che mi ha impressionato. Quando, finita la parte iniziale delle investigazioni, la famiglia ha potuto chiedere di riavere i vestiti di Wissem, sono andata su loro delega al Cpr di Ponte Galeria e lì mi sono state date queste maglie, con i cappucci, le tute (il telefono ce lo hanno dato in un secondo momento perché sotto sequestro per le indagini), uno scatolone con dentro solo due cose di Wissem, la felpa rossa con cui è venuto e i pantaloni, e c’erano i vestiti della detenzione, nulla che si fosse scelto. In Italia ha indossato solo il vestito della detenzione. E’ il riflesso della libertà di parola che non ha avuto e ogni volta che ha tentato di parlare è stato imprigionato. Prima il Cpr, poi la sedazione, le sue proteste, poi la sedazione definitiva, la contenzione, la morte.
Per Wissem, sottolinei, è accaduto tutto in due mesi, ma è una trafila emblematica che in realtà normalmente prende anni delle persone.
Le persone che arrivano da noi in accoglienza, soprattutto ora, (se ne parla molto poco, ma l’accoglienza è così inqualificabile che a stento possiamo considerarla “dormitori” nella migliore delle ipotesi) con estrema facilità finiscono in strada. Non riescono ad avere permessi di soggiorno, le procedure sono negli anni diventate sempre più difficili, “strette”, impossibili, cadono facilmente nello sfruttamento, e le prassi del rinnovo dei permessi sono talmente folli che per molti si passa dal disagio di tipo psichico al disagio psichiatrico. Normalmente questa parabola di “regolarizzazione senza regolarizzazione” la si vive in 4/5 anni: il permesso diventa l’utopia irraggiungibile, l’unico pensiero, l’ossessione. Una sorta di demone di carta che ti succhia la vita dentro stanze, uffici, attese in file interminabili, avvocati. Sfido chiunque a trovarsi in un’accoglienza che non riconosce diritti, alle prese con un ufficio immigrazione che ti dà appuntamento a 8 mesi, una commissione che ti dà un diniego, che non ascolta la tua storia perché vieni da un “paese sicuro”, gli avvocati che non si trovano, quelli che si trovano che si fanno pagare, i tempi lunghissimi delle decisioni dei tribunali, gli uffici anagrafici che non ti danno la residenza, mentre senza un permesso di soggiorno non riesci ad avere un conto postale, non sai come iscriverti alla Asl… e molti finiscono nel degrado.
E’ un sistema che non cambia, per quanto si possa arginare qualcosa con denunce e proteste. Ne sono state fatte e ce ne sono tante, sono stati chiesti miglioramenti, alcuni centri sono stati chiusi, ma nulla è cambiato e tutto continua a peggiorare.
Mentre i Cpr continuano a esistere e oggi se ne preparano altri (sono 10 al momento, senza contare il Cpr albanese, una colonia penale veramente vergognosa contraria ad ogni norma) e le ultime norme hanno portato il trattenimento possibile a 18 mesi! Un tempo che è esso stesso assassinio.
Intanto i morti di Cpr sono ad oggi 48, quelli di cui abbiamo notizia. L’ultimo, un nigeriano di 35 anni, morto la notte fra il primo maggio e il 2 nel Cpr di Brindisi. Probabilmente non avremmo saputo nulla se alcuni suoi compagni trasferiti al Cpr di Torino non avessero iniziato una protesta, avvisandoci della sua morte. Che non è stata comunicata neanche al parlamentare che la mattina dopo era nel Cpr per un’ispezione. Pare sia morto a seguito di un malore, forse infarto, dopo aver inutilmente chiesto assistenza.
Quello di Wissem non è l’unico caso di psichiatrizzazione e morte. L’uso degli psicofarmaci è sempre stato denunciato, fin dagli inizi (ricordo le inchieste della rete siciliana risalenti al 2001 ad esempio e quelle succedutesi a più riprese negli anni successivi). Poi ce ne dimentichiamo e crediamo che si tratti di cose nuove. Non lo sono affatto. Proprio questo è il problema, se la memoria è lotta, l’oblio è complicità.
Come accade per il carcere…
Sì, come per il carcere. Ma Wissem non aveva commesso reati e doveva essere libero. Per i paesi del lato ricco è reato essere poveri, sognatori, combattenti, desiderare è reato. Wissem era un combattente di frontiera, per questo è stato punito e ucciso. In questi giorni di cammino della sua famiglia, la cosa più forte e potente è stata il loro trasformare la sofferenza in lotta e commuoversi di fronte a centinaia di ragazzi all’università di Bologna: “mio figlio era come voi, aveva la vostra stessa età, ma qui lui è morto, non ha potuto essere Wissem”.
Wissem è morto nel 2021. Siamo nel 2025 e siamo solo all’udienza preliminare. La prossima udienza ci sarà il 10 settembre.
Sarà difficile spiegare a Kamel, Heanda, a Rania che ci vorrà ancora tanto tempo.
Ed è un peso enorme per una famiglia che da questa vicenda è stata distrutta. Ma almeno sanno che non saranno soli, che in tanti, per avere verità e giustizia, saremo al loro fianco, che il passo delle genti in cammino insieme a loro segnerà il solco che si opporrà a muri e frontiere abbattendole per verità e giustizia.
scritto per Voci di dentro