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    Me ne sazierò: ciecamente

    Una “annotazione” di Carlo Pucci. Le chiama così, semplicemente, come appunti distratti. Ma ancora sono parole fulminanti. Rimando a prigioni e vittime… Ascoltate

    “La nebbia rinchiude tutto; acceca e fa sparire. Sotto i portici guardiani, a quest’ora d’inverno non c’è più nessuno. Anche i piccioni sono scomparsi. Una luce fioca e fredda trapela da un ammezzato. Mi volto a guardare. Faccio domande. “Ci abitano gli sfollati di guerra” dice mia madre, che mi tiene per mano. Io non capisco. Non dice più altro.
    Via De’ Chiari. Il portico del mio dentista è buio, basso e stretto. Di fronte, di là dalla strada, c’è solo muro. I mattoni scrostati salgono in cima fino alla notte. Le finestre lassù hanno doppie inferiate. È tutto spento. Sento gridare. “Sono gli sfollati?” domando. “Sono carcerati” mi dice. “Perché, abitano là?”. “Quello è il carcere di San Giovanni in Monte”. “Chi sono i carcerati?”. Non dice nient’altro. Siamo arrivati e suona al portone.
    Il dentista è un giocherellone. I denti me li tira via bene. Non grido mai, io; da lui. Da lui non ho mai paura. A casa invece c’è l’Uomo Nero. Grande e grosso sotto il pastrano. La faccia nascosta da un largo cappello. La sera, se faccio i capricci, arriva dal buio per farmi sparire. All’improvviso fuori dal letto; rinchiuso nel fondo del suo pastrano. Nero più nero della notte nera.
    Così finiscono i bambini cattivi. Comportati bene e lui non arriva. Voglio sfollare in un ammezzato. Voglio sfuggire all’Uomo Nero. Portici indifferenti, accecati di nebbia. Nessuno grida dalle inferiate. Là per la strada soltanto un grigio silenzio. Anche i piccioni sono scappati in tempo. Corro in cucina. La luce al neon è forte e chiara. Mi nascondo e sparisco nel bianco: più bianco d’un giorno di nebbia.
    Con noi comportati bene e potrai restare. Comportati bene e ti porteremo a giocare. Domani: all’asilo.
    Unghie color rosso arancio. La signora del tavolo accanto mi sta pure simpatica. Non sono all’asilo. Non mi hanno portato a giocare. Ma me la passo bene ugualmente: a guardare.
    L’aragosta ha fatto i capricci: non poteva restare. Picchietta le antenne sul vetro dell’acquario. Appare e scompare. Sbiadisce in torbida acqua. Mediterraneo lugubre in grotta artificiale. Appeso al muro. Carcere di cristallo. Sospeso là in cima; sopra il carrello degli arrosti fumanti.
    In estate ad Alghero la tartaruga era enorme. I pescatori la sgrovigliano dalla rete zuppa di mare. La tengono forte sul molo. Si dimena. Me la fanno toccare. Io l’ho sentita gridare. Un colpo di pinne e se ne è scappata. Sfollata lontano; al riparo. Fino alle grotte del Bue Marino.
    Adesso qua siamo in inverno. Quant’è lunga l’attesa. Uffa, che noia. Dal cristallo sospeso, l’aragosta appare e scompare. Fisso le unghie color arancio. Picchiettano sulla tovaglia. Anche loro sono stufe d’aspettare. Dita bianche, ossute e ben levigate. Chele spezzate. Sbarre di legno arenate sul tavolo candido. L’anello vistoso riluccica tutto. Guscio incagliato che scintilla in un’onda. Gli scogli ad Alghero mi pungevano i piedi.
    Mi giro a guardare il Mediterraneo inchiodato al muro. La grotta è vuota. Dall’acqua torbida non compare più nulla. Il cameriere con grazia serve pesce fumante.
    “Non lo voglio”. “Non fare capricci” bisbiglia la nonna. “Non ho fame” mugugno. “Comportati bene. A casa facciamo i conti” sussurra mia madre. Il nero pastrano fa capolino dal guardaroba. Dal tavolo accanto: la signora aragosta mi sorride bonaria. Ma che mi sorridi? Pensa al tuo piatto! Mio padre ridacchia nel tovagliolo. Impossibile capire da che parte sta. Ho pochi anni, ma so già diffidare. Ma cosa ridacchi? Pensa al tuo piatto! Guardo sgomento l’aragosta squartata. Tutta fumante sotto i miei occhi. Preferirei un pezzetto d’arrosto: non si è mai mosso da sopra il carrello.
    Che la sofferenza sparisca dal mio sguardo e me ne sazierò: ciecamente.

    Carlo Pucci

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