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    Bonaventura…

    Un anno fa, oggi, Bonaventura se n’è andato.
    Questi sono due dei 21 capitoli di un libro, numero 13 e 14. Il libro, un romanzo, si chiama ‘Toda la muerte’ e lo scrisse una ventina di anni fa Horácio Verzi, scrittore, giornalista, uruguagio. Quasi tutto lì dentro succede nel Nicaragua dell’86. Horácio era lì a lavorare all’agenzia Nueva Nicaragua, quella dei sandinisti, dove da prima di lui lavorava Bonaventura. Divennero amici e lo sono rimasti fino all’ultimo. Anni fa, Horácio gli aveva chiesto, ritrovandolo dopo molto tempo, il permesso di esporre il suo nome in chiaro nel libro, dove già si parlava diffusamente di lui. Così, Bonaventura de Carolis è l’unico nome “vero” che compare in ‘Toda la muerte’.
    ‘Toda la muerte’ è un racconto di oltre 400 pagine, complesso, con vari piani narrativi e di lettura, come anche questi due capitoli lasciano intuire… Non ce la siamo sentita di farlo tradurre tutto. Questi due capitoli sì, però. Ci restituiscono un po’ di Bonaventura, nella percezione dell’autore e del suo avatar narrativo, e ci è parso bello proporveli, a tutti/e voi che lo avete in qualche sua vita conosciuto. 
    Nei due capitoli i compari sono 5, più gli incontri che faranno. Tutti giornalisti presso Nueva Nicaragua. Sono in viaggio, vi spiegheranno loro perché. Oltre a Bonaventura ci sono Vicente, uruguagio (come l’autore…), mattatore assoluto del racconto e di questo estratto; Alexandra, californiana, non sempre occupata a rendersi simpatica, e con cui Vicente ha lungo tutta la storia una tormentata relazione; Susan, che di Alexandra è più che amica, californiana come lei; e Beatrice, italiana, cui l’autore associa, altrove nel romanzo, soprattutto un fisico “bestiale”, alla Alba Parietti.
    La prima cosa che leggete è una lunga tirata di Alexandra: non odiatela troppo, o comunque non subito, e… buona lettura!

    13 – Collina 50

    – Non pretendo di darvi lezioni. Voi credete nel valore della rivoluzione e nell’idea di sacrificio. Prendete la vita come rischio e impegno. Io non voglio cambiare il mondo né mettere paura agli usurai. Così si va a finire sempre e comunque a destra. E i rivoluzionari, soprattutto i rivoluzionari professionali, finiscono col praticare un altro tipo di usura. Qualcosa deve cambiare, certo, ma questo si può fare senza rinunciare a bersi un po’ di vino buono. Davvero non voglio cambiare il mondo, né saprei come farlo. Quel che bisognerebbe cambiare è la mentalità di alcuni dei giornalisti dell’agenzia: ad esempio, qualcuno dovrebbe pur spiegargli che per non perdere definitivamente credibilità, soprattutto in Messico, Panama e negli Stati Uniti, che è dove attualmente ci comprano le corrispondenze, giacché quelle che vanno in Europa, per lo più in Svizzera, Francia, Spagna e Germania, ci tocca regalarle e hanno giusto un valore propagandistico, per non perdere credibilità qualcuno dovrebbe spiegargli che devono piantarla con quel tono catastrofico… o meglio, minaccioso, per cui se le cose non girano esattamente come le immaginano gli Ortega, o Tirado o Borge ci sarà qualche cataclisma. È infantile. Nessuno può avvertire Mayra (la caporedattrice nica dell’agenzia, ndt) che Caraballeda (una delle sessioni del Gruppo di Contadora, nell’86, per cercare un equilibrio pacifico in Centroamerica, ndt) non è un’ingiunzione agli Stati Uniti perché lascino il Centroamerica? Ma voi l’avete letto sul serio Marx? Io non l’ho letto, solo alcune cose minori, ma qui non si tratta di averlo letto o no: per avere un po’ di buon senso non c’è bisogno di aver letto Marx. Ma avete presente cos’è successo stanotte in agenzia? Credo che la grande disgrazia di Mayra è di essere nata in un anno bisestile, credo nel… nel 52… Nel 52? Dev’essere multiplo di 4, no? Di modo che dev’essere nel 48, o 52, o 56, però nel 56 non può essere, le rughe la tradiscono. È del 48 o del 52, senza dubbio. Sì, è intorno ai 35 anni. La sorella, che è più grande, però sembra più giovane. Trenta e tanti, ma il suo aspetto, quel suo visino, dicono che non li ha sentiti. Per lei nulla è più naturale, giusto e incantevole di noi tutti intorno a lei ad ascoltare le sue miserie e drammi familiari, e tutto quel piccolo inferno domestico che sembra vivere. E quella sua mania di spostarsi in taxi! È la Lady Taxi dell’agenzia! Non è la nipote di un famoso poeta nica? Perché in agenzia non le assegnano una jeep? Pare che non legga molto. Litighiamo in continuazione su qualche questione culturale, o quando viene a correggermi delle espressioni di un testo che mi chiede di tradurre. Chi ci sentisse direbbe che conosce l’inglese meglio di me. Sono così sciocchi! Mi fanno tristezza. Hanno la stupidità degli ignoranti, l’arroganza degli ignoranti, il risentimento degli ignoranti, e soprattutto hanno quell’atteggiamento scaltro di chi si sa ignorante, sempre sulla difensiva, sempre lì a fingere… I Somoza, non avrebbero preso il potere, e soprattutto non sarebbero riusciti a conservarlo per tanto tempo, senza quest’arte della simulazione. E pure il Frente, mica poteva vincere senza quest’arte dell’astuzia e della slealtà! Non puoi mai sapere cosa stanno pensando davvero. E vi posso assicurare che pensano sempre a qualcosa di diverso da quel che uno crede che pensino. Peggio degli asiatici! Hanno appreso da molto tempo che per sopravvivere devono dissimulare senza tregua, senza mai rilassarsi, i propri risentimenti. Per questo sono così pericolosi: dissimulare implica risolutezza. E Reagan è stato ben consigliato, non impegni truppe americane in Centroamerica, signor presidente, li stanchi, semplicemente li stanchi, e ci riprenderemo il Nicaragua con la stessa parola d’ordine con cui Lenin prese a calci nel culo gli zar: pace e pane, pane e pace. Perché lasciatemi dire che se negli ultimi anni abbiamo avuto un presidente con dei principi quello è Reagan, anche se non sembra così. Oh sì che lo è. Chi l’avrebbe detto, no? Fu un pessimo attore però questo tipo sarebbe capace di usare di nuovo la bomba se i suoi principi glielo imponessero. Le conseguenze non contano, contano solo i principi. Non lo sapevate? Sì. Lo devono trattenere in continuazione. Se ne infischia delle multinazionali, delle corporazioni, dell’industria, della crisi del dollaro e degli avvertimenti degli alti gradi del Pentagono, cui piace giocare a soldatini con le guerre di bassa intensità. Tutto questo che si fotta, se la faccenda ha a che vedere con i principi. Certo, un bel grattacapo. Però lo rispettano. E lo temono. E tutti preferiscono avere questa figura alla testa degli Stati Uniti, mentre muovono le loro pedine sulla scacchiera. Qualcuno disse che la minaccia dell’azione mina la volontà e la determinazione di un nemico più che l’azione stessa. Insomma, qualcosa del genere. Fu Clausewitz… o Capablanca? Fa lo stesso. Ah! La sapete quella delle minacce fra Reagan e Castro? Me l’ha detta l’altro giorno l’inviato di Prensa Latina. Quel che mi piace dei negri cubani è che sanno ridere di se stessi. Non so se è lo stesso con quelli del Sudafrica. Stava dicendomi di un suo parente che voleva emigrare negli Stati Uniti, e lui gli aveva detto che era pazzo se pensava di andarsene da Cuba, dall’unico posto al mondo dove i negri comandano. E allora me l’ha raccontata: un giorno nello studio di Castro entra il segretario e riferisce che sulla linea diretta con Washington c’è Reagan in persona che vuole parlare col Comandante. Castro prende l’apparecchio e fa, sì, Ronald, dimmi chico, e Reagan gli dice, stammi a sentire Fidel, guarda che mi hai stufato con la tua linguaccia, piantala coi tuoi bluff, piantala di starnazzare sennò ti tiro la bomba ai neutroni, e Castro gli chiede che roba è la bomba ai neutroni, e Reagan gli dice che è una nuova bomba che non fa nulla alle fabbriche, alle istallazioni militari, alle città o ai ponti, ma stermina uomini, donne e bambini, per cui stesse in campana. E allora Castro gli dice che se hanno il coraggio di tirargli la bomba ai neutroni loro gli tirano la bomba ai negroni proprio al centro di Manhattan. Reagan guarda sorpreso i suoi consiglieri militari e della Difesa, e chiede a Castro di che si tratta. E Castro gli dice che la bomba ai negroni non fa nulla ai bambini, alle donne, e neanche ai soldati, a nessuno, ma avrebbe scassato tutti i bus, le metro, le strade, le scuole, i palazzi, i supermercati… Sentite, non ho mai visto un negro ridere tanto dei propri guai.
    Salvo quei primi passaggi sul “sacrificio”, destinati esclusivamente a Vicente e a Bonaventura de Carolis, era stato tutto un monologo, terminato con la barzelletta della “bomba ai negroni”. Alexandra aveva parlato con voce monotona, rivolgendosi solo a Susan, come convinta che di quel che poteva pensare o sentire lei in fondo non importava nulla né a Vicente né a Beatrice, né tantomeno a Bonaventura, ma giusto all’unico essere con cui divideva i suoi segreti. In vari punti del suo discorso, le parole erano state coperte dal motore della jeep Toyota dell’agenzia, lasciando così l’impressione che stesse pensando a voce alta. La jeep correva in direzione della frontiera col Costa Rica, verso Peñas Blancas, sulla Carretera Sur, la Panamericana, a novanta chilometri l’ora fra i colli di Rivas e il lago Nicaragua. Guidava il fotografo italiano, di fianco era seduta la sua conterranea “bestiale”, e dietro Susan, Alexandra e Vicente. Le jeeps Toyota 4×4 avevano i sedili posteriori sui lati, contrapposti, e per coloro che dovevano farci lunghi tragitti erano assai scomode perché non consentivano di stendersi. Susan e Alexandra ne occupavano uno e di fronte stava Vicente, che aveva sistemato il suo zaino in un angolo per potersi stendere a metà, e stirare così un po’ le gambe.
    Anche se sapeva che la risposta sarebbe stata negativa, Alexandra chiese a Bonaventura e a Vicente se erano mai stati sulla Piazza Rossa. Lei sì, tre anni prima, e aveva visitato il “Mausoleum” (lo disse in inglese) di Lenin, che le aveva lasciato un’impressione devastante.
    – Tutta quella fila indiana interminabile, di persone che avanzano a passettini per più di un’ora per poi sfilare qualche secondo davanti a una mummia. Sul serio, non riesco a capirli. Vengono da tutte le parti, Siberia, Ukraine (pure quello lo disse in inglese), dall’Africa, dall’Asia, da ogni parte del mondo… Ma la cosa che mi impressionò di più, non ci crederete, furono le mura del Cremlino, dove stanno le tombe di tutti i capi bolscevichi, e dove curiosamente era stata inclusa anche la tomba di John Reed, in quanto intimo dei capi bolscevichi… Però, più ancora delle mura e delle tombe, tutte uguali, austere, senza un briciolo di polvere, più della gente che gli passa davanti, spiando le iscrizioni anche senza capire quel che c’è scritto, più di tutto questo quel che mi impressionò fu l’unica tomba dove c’è una rosa rossa: quella di Stalin. Domandai a una delle guide che c’erano in giro, e mi disse, in passabile inglese, che era un mistero: da che Stalin era sepolto lì, qualcuno veniva tutte le mattine e lasciava una rosa ai piedi della sua tomba.
    – Come su quella di Marilyn Monroe! – disse allegramente Susan.
    – Davvero? – disse Alexandra – Che cosa strana! Non lo sapevo.
    – Sì. – disse Susan – Un anonimo lascia ogni giorno una rosa rossa sulla tomba di Marilyn. Davvero non lo sapevi?
    – Ma tu guarda! Solo non so se a Stalin piacerebbe che qualcuno lasci una rosa rossa tutti i giorni su una tomba diversa dalla sua. Lui è l’unico fra tutti i capi, l’unica tomba che ogni giorno riceve una rosa rossa. Chiesi com’era possibile che dopo tanti anni non si sapeva chi era a portare la rosa. La guida mi disse che a lui e agli altri guardiani sapere chi era non importava tanto, importava il fatto stesso che tutte le mattine apparisse la rosa. Nemmeno alle autorità importava sapere chi era. Più di una volta lui aveva visto una vecchia, una vecchia russa col suo bravo fazzoletto a coprirle la testa, raccolta ai piedi della tomba, appena qualche secondo, e poi spariva nella bruma del mattino, e lui allora da lontano aveva visto la rosa rossa, un punto rosso che spiccava nettamente sul marmo scuro e umido. Altri colleghi avevano visto altre persone, in genere anziani, e anche di loro si supponeva che lasciassero la rosa. Poteva trattarsi di un gruppo o qualcosa del genere, gente che si dava il turno, ma la vecchia sì che l’avevano vista in più di un’occasione. Né Dzerzhinski né Reed, nessuno è oggetto di tale venerazione. Non bisogna essere matti per lasciare una rosa a Stalin tutti i giorni? E sarà vera la storia della vecchia? In ogni caso, non credo che la rosa arrivi dal governo. Ma vedi tu, una rosa per Marilyn, una per Stalin…! Uno che ne sa: magari Marilyn e Stalin si sarebbero presi a meraviglia, e forse lei avrebbe intenerito Stalin. Sì, sì, sono sicura che Marilyn avrebbe cambiato il carattere di Stalin. Stalin e Marilyn insieme, ai piedi delle mura del Cremlino… ma certo! La storia sarebbe stata diversa! Là è sempre pieno di bus turistici, guide e guardie, e se aveste visto come mi guardavano, perché andavo in giro sul selciato fra le tombe bevendo da una lattina di birra. Anche a uno di loro glielo dissi, che io non volevo cambiare il mondo, ma quello non parlava e non capiva l’inglese. Avessi saputo la storia di Marilyn ti posso assicurare che glielo avrei detto, che la vera tragedia è che non si siano conosciuti. Che ne dici, Vincent? Il fatto che Marilyn e Stalin non si siano conosciuti fu una vera tragedia, perché permise altre tragedie. Marilyn lo avrebbe trasformato totalmente, il vecchio. Fu un errore imperdonabile da parte del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Difesa! A nessuno, nessuno in tutto quel fantastico apparato di sicurezza nazionale che possediamo, riuscì di pensare a una cosa simile? Questo tipo di errori capitano perché là nelle alte sfere non c’è mai una donna, ma se alla testa del Dipartimento della Difesa ci fosse stata una donna avrebbe certamente predisposto un piano perché Stalin si incontrasse con Marilyn, e l’avrebbe addestrata, le avrebbe fatto un discorso patriottico spiegandole che il suo sacrificio sarebbe stato ricordato da tutti i popoli del mondo perché avrebbe evitato tutto il casino che invece abbiamo avuto, le avrebbe detto che di sicuro il vecchio, nell’intimità, aveva le sue attrattive… E sapete cosa? La sapete la cosa incredibile? Che Marilyn avrebbe accettato!
    Vicente, che non aveva mai smesso di fissare con aria assorta il paesaggio che si lasciavano dietro sulla Carretera Sur, scrutando i campi di caffè sulle alture, e nei momenti in cui la vegetazione lo permetteva fugaci scorci del grande lago e dei due vulcani dell’isola di Omepete, girò la testa verso Alexandra quando lei fece il suo nome in inglese. Fino a quel momento, mai lei aveva pronunciato il suo nome in inglese, e adesso lo aveva fatto con assoluta naturalezza; che avesse pronunciato il suo nome in inglese era una piega in più in tutte quelle idee sovraeccitate che le montavano con frivolezza e le accendevano le guance.
    – Beh… – disse Vicente a voce bassa – Non tutte le donne sono in grado di offrire sesso totale. Sarebbe stato un matrimonio clamoroso, molto più di quello fra Eduardo VIII e Sally. – aggiunse fissando lo sguardo sulle labbra di Alexandra, sulla bocca che si apriva sensuale e spregiudicata – Sally? Sally o Wally? Wally Simpson o Sally Simpson? Simpson? Bah, non importa.
    – A me piace di più Sally che Wally – disse Alexandra.
    – Uh, sì! – disse Susan – Wally suona a balena.
    – Sapete… – disse Vicente – A Eduardo quello che lo attraeva di Sally era la bocca.
    – La bocca? – Susan guardò Vicente con diffidenza.
    – Sì, pare che la bocca di Sally avesse qualcosa… qualcosa…
    Alexandra e Susan guardarono Vicente in silenzio. Lui allora fece dei gesti difficili da descrivere. Mosse la bocca come fanno i pesci, poi come se si trattasse di succhiare un oggetto invisibile, certamente cilindrico, e alla fine la punta della lingua spuntò fuori arrotolata a occhiello.
    – Quanto sei volgare! – disse Susan.
    – Che sta dicendo adesso? – chiese l’italiana dal sedile davanti. Aveva sentito il commento di Susan, e sospettando che Vicente se ne fosse uscito con qualcuna delle sue “stranezze” si girò e colse l’espressione delle sue amiche. In fondo a Beatrice la divertivano le “uscite” di Vicente con le due nordamericane, c’era in lui qualcosa del sudamericano indecifrabile, qualcosa di innocentemente animale, tratti che non somigliavano per nulla a quelli cui era abituata in Europa. A lei, quella condotta che si manifestava in genere senza preavviso appariva come una sorta di attrazione allo stato grezzo, qualcosa che non aveva mai visto in Bonaventura, ad esempio, o che comunque le era stato appena suggerito. Era come un complesso sconosciuto, che però come tutti i complessi condizionava la personalità e produceva reazioni indipendenti dalla volontà. Ed era, soprattutto, un senso dell’humour per lei esotico e di singolare violenza.
    – Che sta dicendo adesso? – aveva detto, e naturalmente, come prova la costruzione sintattica, si stava rivolgendo alle sue due amiche, non a Vicente, che era dietro di lei e a cui poteva con una mano toccare le ginocchia. E tuttavia aveva preferito porre una distanza emozionale, come se le fosse necessario adesso trattenere Vicente su quel terreno sconosciuto.
    Avevano attraversato la città di Rivas senza fermarsi neanche a bere un succo. Susan aveva protestato, e compreso che il suo disappunto non sarebbe stato corrisposto propose che al ritorno passassero per San Jorge, il porto sul lago dove ci si poteva imbarcare per l’isola di Ometepe. Voleva visitare la chiesa di Altagracia e vedere da vicino i vulcani. Bonaventura le disse che realizzare “quel programma” avrebbe richiesto da uno a due giorni interi e non era questa l’idea di quel viaggio. Susan chiese allora qual era l’idea di quel viaggio, perché nessuno le aveva detto che quel viaggio era l’esito di un’idea. Cercando di nascondere il fastidio, Bonaventura chiese a Vicente se per favore si scomodava a spiegarle “l’idea”, e in italiano disse alla sua conterranea che non capiva cos’aveva Susan da lagnarsi, lei non era stata invitata ed era riuscita a infilarsi nel gruppo solo su suggerimento di Alexandra, che nessuno se l’era sentita di rifiutare. Poi chiese all’italiana di accendergli una sigaretta e schiacciò l’acceleratore più a fondo.
    – Vogliamo arrivare a un ruscello che si chiama Ostayo a vedere certe colline che ci sono da quelle parti. – disse Vicente – Resta un paio di chilometri prima dell’abitato di Sapoá – aggiunse.
    – E cosa c’è in quel ruscello? – domandò l’italiana.
    – Niente, – disse Vicente – non c’è niente di speciale.
    Susan guardò Alexandra, che si strinse nelle spalle, e poi Vicente.
    – Lì vicino c’è la Collina 50. – spiegò Vicente – Hai mai sentito parlare della Collina 50?
    Bonaventura disse a Vicente che se vedeva qualcuno sulla strada si sarebbe fermato a chiedere “dov’era l’entrata”, perché pensava che ormai erano vicini. Ma dopo un paio di chilometri di marcia senza incontrare nessuno del luogo che poteva indirizzarli, l’italiano propose di aprirsi uno dei cancelli sul lato destro della strada, e prendere il sentiero corrispondente fino a qualche casa dove chiedere informazioni.
    – Ma cos’è che cercate? – chiese Susan, però non le risposero.
    Lasciata la Panamericana, la jeep procedeva ora a scossoni come uno shaker, fra le buche, le irregolarità e le profonde cunette del sentiero, e Susan e Alexandra insistevano con Bonaventura perché guidasse con attenzione, che ogni momento rischiavano di cappottare. Gli arbusti fitti, alti e spinosi fra cui il sentiero era incassato avrebbero in realtà impedito che la jeep uscisse di strada e si ribaltasse. Bonaventura però sapeva che, anche così, in caso di incidente il veicolo sarebbe rimasto inclinato, addossato alla sterpaglia folta, e a loro sarebbe stato molto difficile rimetterlo in strada senza l’ausilio di un trattore o di un paio di buoi. Dimodoché ridusse la marcia e le manovre brusche.
    Non avevano fatto mille metri che a un tratto, dietro una curva del sentiero, apparve un contadino che camminava nella stessa direzione; portava un sacco in spalla, di sicuro con degli ortaggi. Il contadino si voltò e stette, in attesa che la jeep lo raggiungesse. Senza scendere dal mezzo Bonaventura gli chiese della “tomba dell’uruguagio”.
    – Ah! – disse l’uomo – il posto dell’uruguagio… Non si va di qua. Il sentiero è quell’altro. Dovete uscire di nuovo sulla strada e poi entrate al prossimo varco. Trovate un cartello che ve lo dice.
    – Stiamo andando a un cimitero? – chiese Alexandra.
    – No, non è un cimitero – disse Vicente.
    Il contadino spiegò che lì dove stavano non sarebbero riusciti a girare la jeep. Dovevano continuare per un chilometro circa, fin dove il sentiero si allargava. Ma di fronte alle proteste di Susan disattesero il consiglio del contadino e Vicente scese per guidare la manovra a Bonaventura in quel punto stretto e incassato. La trazione integrale della jeep sopportò alla grande il gioco di prime e retromarce, e i graffi e le frustate dei rami degli arbusti, e il veicolo uscì dall’ultima cunetta rivolto di nuovo verso la strada. Ringraziarono con sorrisi “paterni”, come amava dire Vicente, e si allontanarono dal contadino.
    Susan insisté: qual era l’idea del viaggio? Non è che si poteva arrivare a Peñas Blancas, magari sconfinare in Costa Rica, e poi tornarsene per Rivas, San Jorge, Granada e Masaya? Solo Alexandra si diede la pena di dirle che non sapeva se si poteva “fare tutto questo”, perché prima di tutto Vicente e Bonaventura volevano passare da “quel posto”.
    Al varco successivo trovarono una tavola fissata a un palo, sulla quale erano dipinte una freccia e una scritta: “il posto di Pedro l’uruguagio”. Vicente scese e spostò il filo spinato che fungeva da cancello. La pista era simile alla precedente, e saltellando in continuazione la jeep si inoltrò per un paio di chilometri, finché Vicente disse all’italiano di fermarsi perché “doveva essere lì intorno”.
    Il sentiero si era intanto parecchio allargato, le siepi di arbusti non erano più così folte, e la visuale ora si estendeva fino ai leggeri rilievi del paesaggio. Infine gli arbusti cessarono e davanti a loro si aprì un paesaggio desolato. Gli alberi sulle colline erano stati tagliati tempo addietro, e i pendii erano coperti da un manto di foglie morte e marcite e di alberi segati a metà.
    La jeep si fermò col motore acceso, e Vicente di nuovo scese, attraversò la cunetta di destra e camminò sulle foglie e sui rami caduti, rimuovendoli a tratti, in cerca di qualcosa che doveva trovarsi sotto quel tappeto. La jeep ricominciò a muoversi parallela a Vicente, che ogni qualche passo si fermava e gettava uno sguardo tutt’intorno, cercando punti di riferimento che non esistevano più. A tratti si immobilizzava, dando a chi lo seguiva nella jeep l’impressione di essere colto da un dubbio, o da una preoccupazione; con lo sguardo teso verso le alture del paesaggio, avanzava qualche altro metro e ripeteva la sequenza. Improvvisamente alzò un braccio senza voltarsi, e Bonaventura capì: aveva trovato “qualcosa”. Il motore della jeep si spense e tutti scesero. Da circa quindici metri di distanza le tre donne e Bonaventura videro che Vicente, chino su una lieve inclinazione del pendio, aveva cominciato a rimuovere rami e a strappare erbacce. Si avvicinarono a lui lentamente, con difficoltà, ma Vicente badava solo al suo lavoro. Un po’ alla volta, in mezzo all’erba che strappava a ciuffi, si poté vedere una piccola lapide di cemento di circa quaranta centimetri, con incastonata una placca di bronzo. Tutti, attorno a Vicente, a circa tre metri, videro la lapide, su cui c’era un’iscrizione:

    PEDRO L’URUGUAGIO
    CADUTO EROICAMENTE
    IL 16 GIUGNO 1979
    F.S.L.N. – P.C.U.
    PATRIA LIBERA O MORTE

    Bonaventura scattò delle foto: Vicente chino che strappava l’erba che nascondeva la targa, la targa in primo piano, che sembrava in ottimo stato di conservazione, come se qualcuno si preoccupasse di ridarle lustro di tanto in tanto, Vicente che coglieva un mazzetto di fiori di campo gialli e li metteva ai piedi della lapide, Vicente in piedi che guardava le alture coperte di rami e foglie morte…
    Il silenzio e la quiete del luogo li avvolsero e li vinsero e tutti provarono una grande tristezza. Non c’erano uccelli, non c’era vento, non c’era sole, nemmeno insetti c’erano…
    Alexandra si avvicinò a Vicente.
    – Non sapevo che fossi comunista – gli disse.
    Vicente non rispose subito.
    – Non sono comunista.
    – Lo eri.
    – Non sono mai stato comunista.
    Susan e Beatrice si unirono a loro.
    – Partito Comunista, eh? – disse Susan.
    – Dice che non era comunista – disse Alexandra.
    – P.C.U. non vuol dire Partito Comunista Uruguaiano? – disse Susan.
    – Sì, – disse Vicente – sembra che lui lo fosse, no?
    – Ed è venuto a morire qui per il comunismo? – disse Susan guardandosi intorno. – È sepolto qui?
    – No, non è una tomba – disse Vicente.
    Lì era stato ucciso, con un proiettile in testa. Lo avevano seppellito a Peñas Blancas; dopo la vittoria lo esumarono e i suoi resti furono traslati a Managua, e infine a Montevideo. Poi, sicuramente, dopo la vittoria i suoi compagni hanno messo la lapide.
    – Un cadavere itinerante – disse Susan ma senza sarcasmo.
    Bonaventura e Beatrice tacevano.
    – Che stai pensando? – disse Alexandra a Vicente, che non smetteva di scrutare l’ambiente circostante.
    – Sto cercando di immaginarmi come l’hanno ammazzato, da dove può essere partito il colpo… So solo che i compagni venivano avanti strisciando, verso la “vetta”… Quanto ci sarà…? Non più di venti metri, l’altura non supera gli otto… Quanti ne avrà? – chiese a Bonaventura.
    Bonaventura interruppe i suoi scatti, gettò un’occhiata e disse, riprendendo a inquadrare:
    – Sì, otto-dieci metri…
    – Tu eri già stato qui – gli disse Alexandra. – Come sapevi dov’era la lapide?
    – Qui sul Fronte Sud combatté gente di tutte le parti – disse Susan. – Cileni, uruguagi, argentini, colombiani, da non credere, e brasiliani, tedeschi, spagnoli… E so di almeno un venezuelano, ho letto le sue memorie…
    – E non c’erano nicas? – domandò Beatrice.
    – Certo che sì – disse Susan. – C’era pure il Comandante Zero, che su queste colline non lo videro manco in fotografia, però era il capo di tutto questo fronte. Tu lo sai – aggiunse rivolgendosi a Vicente. – Tu sei stato qui allora, o come corrispondente o come combattente. Non so perché lo nascondi, lo sanno tutti.
    – Solo che non ci sono stato.
    Susan gli girò le spalle e scosse la testa. Le sembrava stupido negare. Alexandra e Vicente rimasero un po’ staccati dagli altri.
    – Davvero tu eri qui e non vuoi dirlo?
    Intanto, Susan stava dicendo a Beatrice che adesso capiva “l’idea” di quel viaggio: non si trattava d’altro che di “tornare a ricordare i vecchi tempi”.
    – Ci ha fatti venire tutti fino a qui – lanciò uno sguardo a quel che c’era intorno, a quel luogo inospitale e infelice – e non vuole condividere con noi le sue sensazioni… – si interruppe inciampando in dei rami.
    – Ascolta, Vicente, – Beatrice alzò la voce, – veramente tu eri stato qui prima di adesso? – guardò il suo compaesano – E a te cos’ha detto perché venissimo fino a qui? Tu pure devi sapere qualcosa e non vuoi dirlo.
    Bonaventura aveva scattato non più di una dozzina di foto e ripose la macchina in tasca perché non c’era più niente da fotografare, a parte loro stessi intorno alla lapide. Si trovavano su un leggero declivio, là dove nascevano le pendici dei colli che si aprivano in direzione dei quattro punti cardinali. Non era possibile farsi un’idea chiara della geografia della zona, ma era facile intuire che al di là di quelli a vista altri ne seguivano, e così via. Vicente cominciò a risalire il pendio, con difficoltà, in mezzo ai rami spezzati, e raggiunse la cima. Effettivamente, il paesaggio era simile; lontano, verso nord, era visibile una collina un po’ più alta delle altre, che dominava tutto il territorio fin dove la vista poteva spingersi. Anche Alexandra salì e senza che Vicente se ne rendesse conto gli si mise al fianco, guardando nella stessa sua direzione.
    – Ne valse la pena? – la voce di Alexandra strappò Vicente allo stato di raccoglimento in cui si trovava. La guardò per qualche secondo. – Venire a morire qui…
    Distolse la vista dalla donna e tornò a guardare le colline.
    – Quelli che morirono qui lo scelsero di morire qui – disse seccamente. – Non è poca cosa, sai?
    – Frankly, non credo che nessuno scelga quando e dove morire – disse Alexandra con un certo tono insofferente.
    – Allora sei in errore. Qualcuno ce l’ha, la fortuna di scegliere.
    – È un’illusione – Alexandra sorrise. – La conosco questa sensazione. È sempre esistita. Schiavi dei nostri principi, succubi di un’ideologia, quando le circostanze ci mettono di fronte alla possibilità concreta della morte la mente si vale di un inganno, trasforma in sublime un momento disgraziato, è come una droga, sostituisce una realtà con un’altra… e non ti rendi conto che muori. Ne ho parlato con dei reduci dal Vietnam, di quelli che sono rimasti mutilati per sempre, ciechi, senza braccia, senza gambe, o castrati… Ma non solo con chi è riuscito a tornare dal Vietnam. Fai la prova con qualcuno che è rimasto invalido dopo uno scontro con la “contra”, indaga il suo modo di guardare al futuro, di rinvangare il passato… Vai fino alla sua povera casa, guarda come si comportano i suoi… – alzò lo sguardo al cielo – Oh! – accese una sigaretta.
    Vicente guardò per qualche secondo il modo in cui Alexandra dava i primi tiri.
    – Una volta mi hai detto che non sapevi cosa pensare di me.
    – Ah, sì?
    – Sì.
    – Beh allora, ad essere sincera, in momenti come questi, la cosa si ripete.
    – Succede lo stesso anche a me.
    – A te succede che non riesci ad ammettere che sia io a dirti delle verità. Se questo che ti dico io te lo sentissi dire da un altro uomo, e soprattutto da un altro uomo che sia stato tuo amico, o magari tuo compagno, allora… – si coprì le braccia con le mani. – Fa freddo qui. Ci fermiamo ancora molto?
    Vicente si voltò e fece dei segni a Bonaventura, che con Susan e Beatrice era rimasto presso la lapide. L’italiano capì, e i tre si avviarono verso la jeep.
    – Sai, Vicente? Mi dispiace dirtelo, ma tu mi costringi. Penso che tutte quelle esperienze dei gruppi rivoluzionari che furono smantellati in Europa, a Cuba, in Messico, minarono la fiducia reciproca, in tutti e in ciascuno, e gliene rimase il marchio di un indirizzo erratico delle proposte politiche, come se in fin dei conti queste avessero la possibilità, chissà, di realizzarsi in queste circostanze… E così andarono a bussare alle porte dei comitati del Frente Sandinista per venire a combattere contro il somozismo… Però non lo facevano in nome delle idee sandiniste, no, fu per vanità, per continuare la propria avventura individuale, che ciascuno aveva scelto per la propria vita. Entrare illegalmente nel sud della Svezia, o nel sud del Nicaragua, erano esperienze in fondo simili… E tu, immagino io, finisti qui… credendo di lottare per la libertà… E guarda adesso, guarda dove si sta avviando questa rivoluzione. È terribile! Oh Dio, è terribile! Perché credo di amarti, e mi fa male vederti con quest’animo lacerato. Tutti questi uomini come te… che credevano di raggiungere la gloria… Nessuno seppe spiegargli che la povertà basta appena a comprare il bacio del lebbroso… Sì, anche se non lo sospettavi io so di tutto questo… Tutti lo sanno!
    Adesso erano Bonaventura, Susan e Beatrice che facevano segno ai due di scendere.
    – Sì – disse Vicente cominciando a scendere, – pare proprio che tu sia ben informata.
    – Non te la prendere. Non te l’ho detto per litigare.
    – No, no, lo so: è che sei curiosa!
    – No, non è nemmeno questo. Non è questo. Credi che potrei parlare di queste cose con Susan, parlarne con la speranza di arrivare a qualcosa?
    – Non sapevo che tu volessi arrivare a qualcosa.
    – Sì, voglio arrivare a essere parte del tuo cuore.
    Si fermarono a una decina di metri dalla jeep. Gli altri erano già risaliti, col motore acceso che rombava basso.
    – Per concludere – disse Vicente, – se uno dei due non sa cosa pensare dell’altro, quello sono io.
    – Tu mi temi! O meglio, ti dà un’intima vergogna che sia io la persona che sa toccare i tuoi punti deboli, e non una latina, una vecchia compagna di lotta, una donna così. Non è questo? – fece una pausa. Entrambi si guardavano ora senza sapere cosa dirsi. – Vicente – riprese allora con dolcezza, – davvero credi che alcuni hanno il dono, la possibilità… la forza di scegliersi dove morire, quando, come…? Questa è un’idea romantica e tu hai l’apparenza di un romantico, ma io so che non sei un romantico, sembri un sentimentale ma sei un materialista incallito… come ha da essere un buon giornalista… –. Mosse qualche passo come invitando Vicente a seguirla; poi quando erano già vicini alla jeep sussurrò, perché Susan non la udisse: – Restiamo qua io e te, a Peñas Blancas o a San Jorge, cerca una scusa…
    La jeep si rimise in direzione nord lungo la Panamericana. Chi sapeva cosa aveva rappresentato la Collina 50 là sul Fronte Sud era Susan, e cominciò a dirlo, però le sue informazioni erano parziali, erano quelle divulgate dal governo sandinista dopo la vittoria, in qualche documento storico o attraverso i paginoni che ogni tanto comparivano sul Nuevo Diario o su Barricada. Quando la caduta di Somoza parve inevitabile ed era imminente la sua sconfitta, i sandinisti aprirono il cosiddetto Fronte Sud per distrarre da Managua importanti contingenti della Guardia Somozista, indebolendola in vista dell’assalto finale. Il fin troppo reclamizzato comandante Zero radunò allora un numero considerevole di cosiddetti “volontari internazionalisti”.
    – Come avvenne in Spagna – disse Susan.
    Latinoamericani che vivevano a Cuba, panamensi, colombiani, cileni, argentini, uruguagi, venezuelani, brasiliani, costaricensi, salvadoregni, qualche tedesco, spagnolo e canadese, e nicas ovviamente, provenienti da diversi fronti, furono concentrati in una fattoria al Nord del Costa Rica; non quella dove anni dopo avrebbero attentato a Zero, divenuto nel frattempo uno dei capi di una “contra moderata”, ma una sul Pacifico, presso Liberia, che da paesino anonimo si convertì in scalo internazionale di rifornimenti, reclutamento e addestramento delle brigate internazionali. Fino a quel momento, i sandinisti basati in Costa Rica avevano impegnato la guardia somozista soltanto con attacchi alla frontiera, e occupato alcune alture a El Naranjo, ma approfittando dello sbandamento delle forze nemiche seguito alla presa di Jinotega, al nord, con una manovra presero Peñas Blancas e Sapoá, le principali basi militari della Guardia all’estremo sud dell’istmo. Mentre il battaglione internazionalista Gaspar García Laviana si organizzava per continuare l’avanzata verso Rivas, cominciò il disimpegno delle forze sandiniste da Jinotega, e la guardia ebbe il tempo di concentrare rinforzi nel sud ormai instabile e minaccioso: la collina 50 si rivelò alla fine il bastione che frenò l’avanzata. Dopo un fallito attacco a questa collina e dopo varie scaramucce registrate da La Calera a El Naranjo, il Fronte Sud si stabilizzò intorno ai perni di Peñas Blancas, Sapoá, La Calera, e poi lungo una linea irregolare che da quest’ultima località andava fino al porto di frontiera di El Naranjo. L’aviazione somozista, all’epoca molto impegnata sulle città del nord, apparve sporadicamente sulle trincee del sud del Fronte Sandinista. Circa cinquecento uomini avanzarono sulla strada, senza incontrare resistenza, fino alla Collina 50. Lì, la Guardia aveva montato un forte dispositivo di difesa, da dove dominava fra i settecento e i mille metri della Panamericana a sud, e tutte le colline circostanti occupate dai sandinisti. Lì allora, da giugno fino al 18 luglio del 1979, quando la guardia abbandonò di notte la collina e si ritirò verso Nord, una volta ristabilito un equilibrio al Sud, vi fu solo guerra di posizione “tipo la guerra di trincea nella Great War”. Susan raccontò rapidamente tutto ciò mentre si avvicinavano alla storica collina. Lo fece guardando soprattutto verso Vicente, aspettandosi che la correggesse. Ma lui taceva.
    Bonaventura oltrepassò il ruscello e fermò la jeep sul bordo della Panamericana, col muso a nord, e tutti scesero e attraversarono la strada, fermandosi davanti a un filo spinato. A quattrocento metri, forse un po’ di più, si alzava una collina, coperta di erba alta e di arbusti e punteggiata da alberi tozzi, non più alta della piramide di Teotihuacán. Senza doverselo dire, tutti capirono: si trovavano davanti alla Collina 50, e per qualche minuto, mentre affondavano fin quasi alle ginocchia nell’erba ancora umida andando verso la recinzione, nessuno disse nulla, come se un’imprevista pesantezza li inibisse di nuovo. La brezza costante da nordest, che portava fin lì la frescura del grande lago, il cielo plumbeo, la solitudine dello stradone deserto, l’assenza di animali e di costruzioni umane, una vegetazione povera, per nulla invitante, conferivano al paesaggio un’atmosfera di turbamento, come se la terra fosse stata abbandonata da poco da coloro che la abitavano.
    Bonaventura prese qualche foto della collina.
    – E questo ha potuto fermare più di mille uomini armati? – disse Beatrice dopo qualche minuto.
    Susan sostenne l’osservazione dell’italiana. Ma vedendo che Vicente continuava a tacere e pareva triste, una smorfia di compassione la attraversò rapidamente.
    – Sembra che fosse tutta piena di trincee e batterie di mitragliatrici e cannoni… – disse allora. – Si dice che lassù la Guardia seppellì un tesoro prima di andarsene, – continuò – e che per questo ci lasciarono mine attivate – concluse.
    – Davvero? Un tesoro? – disse Beatrice.
    – Dollari, lingotti, armi.
    – Come sei informata! – disse Beatrice.
    – Andiamoci – propose Alexandra, – devono esserci ancora i resti delle trincee e delle fosse di tiro…
    – Io non lo farei – disse Susan. – Dicono che ci sono ancora granate inesplose, e mine.
    Vicente si avvicinò alla recinzione di filo spinato, sostenuta solo da alcuni pali corrosi dall’umidità, e scorse il lato destro dell’area, dove correva un’altra recinzione, e oltre ancora un terreno quasi piano fino ai piedi della collina.
    – Se si taglia in linea retta da qui – disse, alzando il braccio e tracciando con l’indice una ipotenusa immaginaria – non c’è pericolo. Le mine, se qualcuna ne è rimasta, devono essere più in là.
    – Lui sa quello che dice – disse Susan. – Tu eri qui.
    – Andiamo, – li incitò Vicente – nessuno se la sente?
    – No, – disse Alexandra – nessuno se la sente, e neanche tu –. Lo prese per un braccio, amorevole e protettiva. – Quel che dice Susan può essere vero.
    Vicente guardò Bonaventura.
    – E noi che siamo? – gli disse. – Non siamo corridori dei cento metri piani in campi minati? (appellativo lì condiviso fra i corrispondenti di guerra… e probabilmente fra i combattenti, ndt)
    – Sì, però qua sono cinquecento – disse Bonaventura, calcolando con una rapida occhiata la distanza che obliquamente alla recinzione sulla strada c’era da percorrere.
    – Andiamo! – disse Vicente. – Per la vecchia Brancaleone (così, autoironicamente, alcuni dei protagonisti chiamavano la loro consorteria, ndt). Non lo vuoi il tesoro della Guardia?
    Bonaventura sorrise.
    – Sono cinquecento metri, Vicente. Il terreno è recintato.
    – Si, ma non c’è nessun avviso. Se ci fosse pericolo un cartello lo direbbe.
    – Non dire scemenze – disse Alexandra, e strattonò un po’ Vicente dal braccio per allontanarlo dal recinto.
    – E se il cartello se lo sono preso? – ammonì Bonaventura.
    – Nessuno va da nessuna parte – disse Susan.
    Vicente si staccò da Alexandra.
    – Nessuno viene con me?
    – Vicente! – Alexandra alzò la voce.
    – Tu non mi accompagni? – disse Vicente a Bonaventura. – E tu? – disse ad Alexandra visto il silenzio dell’italiano. – Tu ci volevi andare fino a lì.
    Alexandra lo guardò negli occhi.
    – Quello che dicono Bonaventura e Susan può essere vero.
    – Quella recinzione non l’hanno messa per niente, Vicente – disse Bonaventura, indicando la più lontana.
    – Avrebbero messo un cartello.
    – Lo sai che tante volte li hanno fatti sparire – disse Alexandra.
    – Ci andrò – le disse Vicente a voce bassa.
    – Tu vuoi che ti accompagni?
    – Ma siete pazzi? – disse Beatrice, sembrava alterata. Si girò verso Bonaventura: – Diglielo tu di non andare.
    – E tu? – disse Vicente a Susan. – Tu vieni?
    Alexandra guardò di nuovo negli occhi di Vicente. Poi guardò Susan.
    – Tu non vai da nessuna parte – disse Susan a Vicente.
    – Vuoi dire che non ho il coraggio di attraversare?
    Vicente fece alcuni passi in direzione del filo spinato, fece segno con l’indice verso la collina. E Bonaventura gli scattò un’istantanea, e così appare nella foto che si conservò in agenzia fino alla sua dissoluzione ufficiale: in piedi presso il recinto, i suoi pochi capelli scompigliati dal vento, le lenti scure a nascondergli gli occhi, l’erba che gli copre fin quasi alle ginocchia i jeans logori, il braccio sinistro rilasciato con l’orologio al polso, la maglietta rossa, logora anche quella, il braccio destro teso con l’indice a tracciare un’immaginaria linea diagonale in direzione di una collina che, là in fondo, pareva un tumulo preistorico nelle cui viscere riposassero i resti di una qualche popolazione mitica. Qualche settimana dopo Alexandra avrebbe fatto a Susan la seguente considerazione: se la Collina 50 si trovasse sulle rive dello Scamandro o dell’Eufrate, e non presso l’Ostayo, uno non penserebbe che la sua forma ondulata possa nascondere una città neolitica? Da allora, nessuno sa che fine ha fatto quella foto, così come tante altre. Forse le ha con sé l’italiano, ma non si sa dove sia, anche se qualcuno disse una volta che si era sposato con una donna di Jinotega e viveva a Managua.
    – Vado fino alla collina, in linea retta da qui – disse Vicente.
    – Scommetto che no.
    – Tu che fai? – disse Beatrice a Susan.
    – Se attraversa è perché sa la strada.
    Alexandra si rivolse a Susan:
    – Tu lo sai che Vicente non è mai stato qui – si girò verso Vicente. – Non farlo.
    – Attraverso dritto fino alla collina.
    Alexandra e Vicente si guardarono.
    – Tu vuoi che venga con te? – gli ripeté Alexandra.
    – Non lo vuoi il tesoro della Guardia?
    – Non essere sciocco, Vicente. Laggiù non c’è nessun tesoro.
    – Questo uno non lo sa finché non lo trova.
    – Lo sai che è impossibile che troviamo un tesoro. Dovevamo venire con le pale…
    Vicente spostò lo sguardo e lo rivolse a Bonaventura. Si fece un silenzio.
    – Veramente pensi di andare? – gli disse Bonaventura.
    Tornò il silenzio. Allora Bonaventura cominciò a ridere; fu un riso forte, prolungato. Si fermò, e di nuovo vi fu silenzio, resse lo sguardo di Vicente e riprese a ridere.
    – Cos’hai da ridere? – gli chiese Beatrice.
    – Non lo fare – supplicò ancora Alexandra, ma fu una supplica aspra la sua, la supplica che si fa a colui che si sa capace di fare ciò che dice senza dover dimostrare nulla.
    Con movimento assai agile, Vicente si appoggiò su due dei paletti e saltò il filo spinato, sorprendendo tutti e più di tutti Alexandra, e cominciò a correre seguendo una immaginaria linea diagonale verso il centro della collina.
    Beatrice gli gridò di fermarsi.
    – Ehi, Vicente! – gli gridò anche Bonaventura. – Sei impazzito?
    – No, non è impazzito – disse Susan muovendo qualche passo inutile verso la recinzione, come per vedere meglio, – lui lo sa che non gli succederà niente.
    Alexandra la guardò con odio.
    Bonaventura mise a fuoco la macchina per riprendere Vicente che correva verso la collina, però si accorse che il rullino era finito e non aveva il tempo di andare fino alla jeep e tornare.
    In un attimo, Alexandra fu a ridosso del filo spinato e lo superò con difficoltà, passando fra un filo e un altro, strappandosi i calzoni e ferendosi alla coscia, e poi si lanciò sulle orme di Vicente, seguendo la linea che lui tracciava nella sua corsa.
    – No! – gridò allora Susan. – No! Oh, no!
    Vicente passò il secondo sbarramento gettandosi a terra e facendo ruotare il corpo sotto il filo più basso; Alexandra, che aveva guadagnato terreno, lo imitò, però alzandosi per continuare la corsa una mano cercò appoggio con tanta malasorte che affondò in una merda fresca di mucca. Imprecò guardandosi con schifo la mano impiastrata di sterco fino al polso però non interruppe la corsa.
    Lo stato di forma di Alexandra era migliore di quello di Vicente: i due giunsero insieme all’ombra di un grande albero, presso il quale c’erano delle buche le cui dimensioni e forma svelavano che in passato erano stati nidi di mitragliatrice, e ora sgretolate e quasi del tutto ricoperte di erbe, di arbusti infestanti e di formicai.
    Si trovavano ai piedi della collina, senza fiato, ansimanti, col cuore prossimo a scoppiare. Per lunghi istanti, uno di fronte all’altra, si guardarono respirare affannosamente. Vicente vide le lacrime negli occhi di Alexandra, vide gli strappi nei jeans, sporchi di merda e di sangue, come le mani. Poggiò in terra un ginocchio, per valutare la gravità della ferita alla coscia.
    – Non è niente – disse lei. – Vorrei solo pulirmi le mani.
    Vicente si alzò e quando si guardarono di nuovo scoppiarono a ridere. Alexandra teneva le mani tese in avanti, come fossero due oggetti immondi da cui tuttavia non poteva separarsi e di cui non sapeva cosa fare. Vicente strappò qualche ciuffo d’erba e cominciò a pulirgliele, sporcandosi le sue. Con un fazzoletto completò alla meglio l’operazione. Tornarono a guardarsi negli occhi. Fu uno sguardo indefinibile, uno sguardo che mutò di espressione più volte in pochi istanti: compassione o pietà, amore o pietà, ammirazione o pietà, commiserazione o pietà, curiosità o pietà, in loro due, tutto quanto è possibile in un sudamericano del Cono Sud e in una nordamericana, cosa ne avrebbe pensato ciascuno di loro in seguito, a modo suo, nella sua solitudine? Quasi nove anni dopo se lo sarebbero confessati l’uno all’altro, e sarebbero tornati a guardarsi come fecero quel pomeriggio ai piedi di una collina dimenticata nell’istmo del Centroamerica. E se qualcosa nessuno dei due riuscì a rimuovere o a dimenticare dell’altro fu quel modo di guardarsi che avevano a volte, un modo intenso, ma ambiguo, e si domandavano e si domandarono: perché ti ho guardato così, guarderemo così quando guardiamo la morte, guarderemo così la Morte in faccia o sarà questa l’espressione dei nostri occhi quando giungerà la nostra ora, o guardiamo così perché vediamo la morte nell’altro? E per anni, intimamente, si fecero queste domande fino al giorno in cui se le fecero uno di fronte all’altra, e guardandosi. Però quel pomeriggio ai piedi della Collina 50 non lo sapevano e si guardarono felici per non dimenticare mai più quello sguardo.
    Lanciarono un’occhiata panoramica alla vallata e verso la cima.
    Vicente pareva volesse stabilire la posizione dei vecchi ripari e trincee, ma non si mosse. Scrutò anche le colline più basse, di fronte alla 50, là dove erano state le forze sandiniste, anche quelle nelle loro fosse di tiro. Poi entrambi guardarono verso la strada, dov’erano rimaste, inorridite, Susan e Beatrice.
    – Dovremo tornare per lo stesso percorso? – disse Alexandra.
    – Non ci sono mine – disse Vicente. – La gente di qui non manderebbe le bestie su questo campo se ci fosse pericolo. Andiamo.
    – Questo l’hai capito adesso o lo sapevi prima di cominciare a correre?
    Vicente le sorrise; desiderò passarle un braccio sulle spalle, ma degli uccelli che passarono strillando monopolizzarono l’attenzione di Alexandra, che fece qualche passo. Non erano strilli di gioia o di qualche estro focoso, e ad Alexandra parvero disperati e pieni di rabbia contro tutto. Forse nella corsa lei o Vicente avevano distrutto i loro nidi e uova, e loro allora si erano alzati in volo a gridare la loro furia. Alexandra si avviò separandosi da Vicente e andò a sedersi su un tronco. Si guardò la ferita alla coscia.
    – Com’è difficile spremere bellezza dalla vita! – disse alzando lo sguardo verso la cima della collina, o forse cercando gli uccelli che erano passati strillando. – Non credi, Vicente? Sempre a lottare per trasformare i fallimenti in vittorie… cercando di fare qualcosa di bello perché non si riesce a far bella la vita…
    Vicente la prese per un braccio per farla alzare.
    – Per favore – disse.
    Cominciarono ad allontanarsi dalla collina, perpendicolarmente alla recinzione, di modo che la distanza da coprire fino alla strada era considerevolmente minore.
    – Sei ancora dell’idea di fermarci da queste parti? – le domandò Vicente; lei disse che sì, certo, che voleva restare sola con lui: – Che te ne pare di andarcene a Liberia?
    – Dove?
    – È un paese dall’altro lato della frontiera, in Costa Rica.
    – E perché fino a lì?
    – Passiamo da Peñas Blancas… verso la Baia di Salinas ci sono delle spiagge favolose…
    – Non so – disse lei. – Perché non andiamo a Moyogalpa? Ci sei mai stato? – si riferiva al principale porto dell’isola di Ometepe, nel Gran Lago. – Ci fermiamo a San Jorge e di là ci porta il battello.
    Man mano che si avvicinavano, Susan e Beatrice gli venivano incontro lungo la recinzione, mentre Bonaventura aveva avviato la jeep per raggiungerli tutti e quattro.
    – Hai un cattivo odore – disse Susan sistemandosi a fianco di Alexandra.
    – Cattivo? Puzzo di merda! – disse Alexandra.
    – Guarda come sei ridotta. Questo significa che se c’erano vacche non potevano esserci mine. E il tesoro della Guardia? Perché non avete cercato il tesoro della Guardia? Guardatevi, invece di essere coperti d’oro siete coperti di merda.
    – Non siamo coperti solo di merda – le fece notare Vicente. – Abbiamo addosso anche un po’ di sangue.

    14 – Morir soñando

    Con molta determinazione Alexandra avvisò Susan che lei e Vicente non rientravano a Managua, se ne andavano a passare qualche giorno da soli a Ometepe, e perciò da Rivas avrebbero fatto una deviazione per San Jorge. Non c’era bisogno che restassero con loro finché prendevano il battello, ma Bonaventura insisté: non li lasciava se non s’imbarcavano.
    – Oh sì – disse Beatrice, – non possiamo andarcene a Managua se prima Alexandra non si fa una doccia e si ripulisce.
    Benché avessero tutti i finestrini aperti, l’odore di sterco dentro la jeep rendeva il viaggio sgradevole.
    Alexandra disse che non era solo questione di farsi una doccia: con Vicente aveva deciso di andarsene qualche giorno a Ometepe, loro due avevano bisogno di riposare un po’.
    – Non hai con te manco un cambio – disse Susan, – come fai a passare giorni interi su un’isola?
    A Rivas o a San Jorge potevano comprare degli indumenti per pochi córdobas… nulla avrebbe scalfito la decisione di Alexandra e Vicente.
    – Cos’è, – si chiese Beatrice – una luna di miele schizofrenica, con corse folli su campi minati?
    – Non c’erano mine – disse Susan.
    – Ma poteva essercene ancora qualcuna – disse Beatrice.
    – Non c’erano mine! – ripeté Susan alzando un po’ la voce. – E Vicente lo sapeva, lo ha sempre saputo.
    Beatrice si voltò a metà sul sedile:
    – Nessuno può sapere se ci sono o non ci sono mine. Ce ne sono state. Chi può assicurare che non ne è rimasta qualcuna?
    A Rivas tentarono una volta di più di convincere Alexandra a tornare tutti insieme a Managua, ma non riuscirono nemmeno a farla scendere dalla jeep per darsi una ripulita in un hotelito. Vicente disse che da San Jorge a Moyogalpa il battello partiva solo due volte al giorno, e se non arrivavano prima del tramonto sicuramente lo perdevano. Chiese a Bonaventura di spingere a fondo. Cosicché, amore mio, quando si accorsero di respirare l’aroma dei campi di caffè, degli agrumeti e di altri alberi da frutto che non seppero riconoscere, neanche i passati spiriti che dimorano nello stretto istmo ebbero modo di inquietarsi al passaggio di questi nuovi estranei, che correvano senza tempo per poi fermarsi dove c’è il monumento della “Cruz de España”, che nessuno di loro conosceva né arrivò mai a conoscere, luogo dove, si dice, Nicarao si fece cattolico insieme a quindicimila dei suoi uomini, e dove quel pazzo di Gil González Dávila credette di aver scoperto un passaggio verso l’Atlantico, luogo dove i due s’incontrarono per la prima volta e scambiarono armi, alimenti, liquori e donne, e da dove gli spagnoli riportarono a Panama certi noccioli che svegliavano le gonadi, offerti dai dignitari di Nicarao, e un certo numero di giovani indie che acquistarono in cambio di anelli, benché i nativi puntassero ai guanti di ferro, smaniosi di possederli appena intesero a cosa servivano, dato che loro, chi più chi meno, un paio di dita ce le avevano maciullate a ricordo di guerre che dei fiori non avevano manco il colore (“Guerra dei fiori” si chiamò quella combattuta fra atzechi e le città-stato loro rivali, in epoca immediatamente “precolombiana”, e con un forte contenuto rituale, ndt), e da cui gli spagnoli non si separarono per una questione di principio, e così Vicente e Alexandra tantomeno assaggiarono manghi e jocotes, né fritanga né baho né vigorón (frutti o piatti nica, ndt) che all’uscita da Rivas delle donne vendevano in foglie di platano e sono assai pratici in viaggio, e le tre, Beatrice, Susan e Alexandra, persero l’opportunità di fissare alle loro capigliature un fiore di sacuanjoche, che una bambina offriva per pochi spiccioli nei dintorni di San Jorge.
    Quando si accorsero di essere arrivati tardi per l’ultimo traghetto, Alexandra si sentì prendere dallo sconforto, perché aveva cullato l’idea di passare quella notte da sola con Vicente a Moyogalpa. Toccava aspettare fino alle sette del mattino dopo per prendere il primo. Dal modesto imbarcadero l’italiano cominciò con la jeep a fare il giro dell’abitato. Le acque del lago sembravano annerite, mentre i vulcani sull’isola erano ancora illuminati dall’ultima luce del tramonto. Dopo neanche quattro isolati Bonaventura scorse assembramenti di contadini che andavano su e giù davanti a un grande capannone esagonale fatto di pali di legno duro e lastre di cartone catramato. La gente si accalcava davanti agli ingressi ed entrava e usciva dal locale, da dove provenivano voci animate e grida furiose. Di fianco al fabbricato c’era un bancone dove vendevano birra e rum.
    Bonaventura fermò la jeep presso la cunetta sul bordo della via di fronte, e quasi tutti coloro che erano all’esterno a bere birra interruppero per un attimo quel che stavano dicendo o facendo per vedere scendere “i gringos” (termine lì riferito per estensione a tutti gli stranieri, ndt), dato che a parte Alexandra tutti gli altri ne avevano l’aspetto. I cinque si sentirono trafitti dagli sguardi. Bonaventura e Vicente si ripresero rapidamente dal leggero senso di intimidazione provato a causa del breve silenzio che si era prodotto e dissero alle donne che non sarebbe stato male bere una birra intanto che pensavano al da farsi. I locali che li osservavano, notando gli apparecchi che Bonaventura portava con sé, compresero che erano giornalisti e tornarono agli affari loro. I cinque si avvicinarono al bancone e chiesero delle birre.
    Il capannone era di quelli dove si tengono lotte di galli, e gli ultimi arrivati vennero a sapere che la sessione andava avanti dalle dieci della mattina, e che erano in corso gli ultimi incontri. Quello che gli serviva la birra, pelle ramata, basso di statura, con un cappello di paglia stinto dal sudore calcato fin sulle sopracciglia, disse loro che potevano entrare nell’arena, non c’era da pagare l’ingresso ed erano ancora in tempo per fare qualche scommessa e tentare la sorte. Gli raccomandò un galletto colorato, secco, di nome Sultan, per il penultimo incontro. Fra l’entrata e l’arena correva una galleria circolare, simile ai corridoi che ci sono dietro ai palchi dei teatri. In quel corridoio stavano le gabbiette con cui trasportavano i galli, ed era lì che i proprietari dei piccoli gladiatori combinavano gli incontri, e Bonaventura e Vicente non riuscirono a capire cos’è che stavano facendo, mostrandosi a vicenda le piccole scatole foderate di velluto che contenevano le punte e gli speroni per i combattimenti, però videro circolare molto denaro. Tutta quella gente pareva agitata, accaldata, accesa in volto, tutti in preda a una violenza contenuta, e di sicuro il denaro in gioco era veramente tanto. Le tre donne rimasero presso lo spaccio di birra, e l’uomo che serviva la birra disse a Vicente e Bonaventura che potevano portare con sé le signore perché assistessero allo spettacolo, che non si sentissero come “galline nel cortile altrui”, che non gli sarebbe successo nulla, che la gente che stava lì era tutta brava gente.
    Le grida d’incitamento di chi gestiva i combattimenti, come se i volatili potessero capirle, le bestemmie a viva voce degli scommettitori da dietro le grate, i brontolii dei perdenti, il fumo delle sigarette, il traffico dei biglietti che passavano di mano in mano, l’atmosfera densa di aliti grevi di birra e rum, la vasta gamma di sudori e di vapori, le camicie stinte, le braccia brandite come armi minacciose e più giù, nell’arena insanguinata, fra le piume che volavano per aria, i galli che si beccavano e si ferivano con gli speroni d’acciaio fino a morirne, se il proprietario del gallo perdente decideva che morisse in quanto vecchio o in quanto codardo, o anche solo per la stupida rabbia di perdere, con la sconfitta, una grossa scommessa e il prestigio, lasciarono quasi stupefatti i nuovi arrivati. I cinque osservavano stupiti, come storditi, ma con gli occhi ben spalancati su quel mondo in cui si erano ritrovati immersi, come cercando di abbracciarlo tutto con un solo sguardo per non dimenticarselo più. Nell’arena il gallo colorato stava vincendo contro uno con le piume del collo e le ali giallastre, mentre dagli scommettitori veniva un unico grido sguaiato: “Scappi eh, giallo; scappi, giallo!”. Bonaventura voleva preparare la macchina fotografica per prendere delle foto, ma Vicente gli disse che forse era meglio di no, facesse caso piuttosto a certi tipi che li stavano osservando con evidente ostilità. In quell’ambiente era probabile che vi fossero dei “contras”, qualcuno di sicuro operativo, ed essendo un fine settimana non era assurdo supporre che molti fossero venuti dalle provincie di Chontales o di Boaco, via terra o attraversando il lago, magari per vedere la madre anche solo per poche ore, contare a un fratello le proprie miserie, sondare l’atmosfera politica con i vecchi amici… I “contras”, come prima avevano fatto i sandinisti insorti, erano capaci di percorrere molti chilometri in un fine settimana per poi tornare, di notte, ai loro accampamenti. Alcuni di loro, rischiando parecchio, arrivavano a portare con sé, sotto la camicia, le loro Calibro 9 o la baionetta. L’italiano seguì il consiglio di Vicente, però di nascosto, con la macchina all’altezza del ginocchio, in qualche modo si arrischiò a fare qualche scatto, purché l’angolazione lo permettesse.
    Alexandra disse a Vicente che “tutta quella roba” le faceva ribrezzo, che lei usciva fuori con Susan, che non si preoccupasse per loro, li aspettavano fuori. Un uomo finalmente fece risuonare una campanella e sollevò il gallo colorato in segno di vittoria.
    – Alla fine, hai scommesso? – chiese Vicente all’italiano.
    Ma nel momento in cui Bonaventura e Vicente smisero di preoccuparsi delle tre donne uno dei locali, un giovane scuro di pelle con un berretto a visiera rosso bordato di giallo, alto e di costituzione robusta, le abbordò e chiese loro se poteva invitarle “a bere un sorso”, se c’era qualcosa che non capivano e che lui poteva spiegargli, e di dov’erano, perché si vedeva che non erano nicas. Il tipo non fece nessun gesto violento né ebbe modi intimidatori, ma il suo aspetto, il tono della sua voce, fra melliflua e falsa, o qualcosa nel suo sguardo, le paralizzarono. Le tre si erano già allontanate cinque o sei metri da Bonaventura e Vicente, e malgrado Alexandra provasse curiosità e perfino una certa attrazione per la sfrontatezza dello sconosciuto, il suo sguardo li cercò per avere conferma che si erano resi conto della nuova situazione.
    – Andiamo solo a farci una birra là fuori – disse l’italiana, e fece un passo a lato per proseguire verso l’uscita.
    Alexandra e Susan gli sorrisero come se si trovassero in polite society (in inglese nel testo, ndt) e lo dribblarono insieme a Beatrice.
    Lo sconosciuto non era ubriaco ma aveva un forte alito di alcol. Le seguì fra le gabbie e i gruppetti di proprietari e scommettitori fino al bancone e giunti lì disse loro che pagava la birra che volevano bere, che gli concedessero di avere questa “cortesia” con le “compagne cooperanti”.
    – Non siamo cooperanti – precisò Alexandra, senza aggiungere che erano giornaliste.
    Il nica disse che avrebbe giurato che erano infermiere tedesche; le domandò se erano tedesche.
    Alexandra disse di no, ma Beatrice lo aggiornò sulle loro nazionalità e gli disse pure che erano giornaliste, lei freelance mentre le sue compagne lavoravano per una catena di radio nordamericana. Il nica mostrò un interesse particolare sentendo che due di loro erano nordamericane: che tipo di lavoro stavano portando avanti, che zone del Nicaragua conoscevano? Erano arrivate da molto? Ma prima che di tutto ciò loro e lo sconosciuto potessero chiarire alcunché, Vicente si unì a loro. Si avvicinò guardando il nica negli occhi e lo salutò con un “hola”. Il nica sopravanzava Vicente perlomeno di una testa ed era più corpulento, ciò che era poco frequente fra loro. Il berretto calzato non consentiva di avere una chiara visione di fronte e tempie, e in qualche modo rendeva difficili osservazioni ulteriori. Il nica volle sapere se anche lui era giornalista e nordamericano, guardò al di sopra della sua testa cercando Bonaventura e gli chiese del suo amico, se era rimasto a vedere gli incontri. Vicente gli lanciò un’occhiata sorniona: e lui che stava facendo lì?, qualcosa gli diceva che non era di San Jorge. Disse di essere di Camoapa, un piccolo abitato della provincia di Boaco, dove le mucche e i muli ancora vanno in giro mansueti per le ripide vie non asfaltate, ma che da vent’anni lavorava a Managua ed ora era venuto a Rivas a passare qualche giorno con la famiglia. Tutto questo lo disse fra una pausa e l’altra, bevendo birra. A bruciapelo Vicente gli chiese se aveva fatto il servizio militare. Lo sconosciuto disse di no: faceva il tecnico in una fabbrica di medicinali a Masaya, sulla strada per Masaya, e per questo non lo avevano ancora richiamato, ma prima o poi sarebbe venuto il momento. Vi fu silenzio e il nica e Vicente si guardarono fisso. Vicente abbassò lo sguardo alla cintura, dove forse poteva esserci un’arma sotto la camicia, consapevole che l’altro seguiva gli spostamenti del suo sguardo, e tuttavia di nuovo lo guardò dritto negli occhi. Quel che Vicente aveva fatto era un azzardo, perché l’altro comprendesse che lui poteva avere dei sospetti. Allora il nica si scolò il resto della birra dalla bottiglia. Si fece di nuovo silenzio, mentre le tre donne e Vicente gli guardavano il pomo della laringe che saliva e scendeva a ogni sorso. Bonaventura li raggiunse quando il nica stava finendo di bere e rivolto di nuovo a Vicente gli stava dicendo:
    – Sei coraggioso. Scommetto che da qualche parte torneremo a incontrarci, allora.
    – Da qualche parte, sì… Anche tu sei coraggioso – disse Vicente.
    Chi adesso sorrise cortesemente fu il nica.
    – E adesso ci facciamo un’altra birra.
    – Birra o quello che sia, allora – disse Vicente, con quella sua mania di imitare il parlato del luogo.
    – Certo! – disse il nica, e li squadrò tutti.
    Il nica aveva una specie di borraccia a tracolla, fatta con due corna di toro unite per la base, e Vicente gli domandò cos’era. – Il cacho – rispose l’uomo di Camoapa impugnando lo strano recipiente. – Qua dentro c’è del vero Morir Soñando.
    Lo invitò a bere un po’ di Morir Soñando con lui. Aveva il sapore di un liquore inoffensivo. Lui spiegò che era fatto con mais fermentato, prugne, chiodi di garofano, cannella e miele, ed era in grado di sopraffare il bevitore incauto, ciò che si vedeva chiaramente che non era il caso di Vicente, al punto da poterlo fare morire sognando.
    Vicente disse che la bevanda era buona e che gli sarebbe piaciuto conoscere Camoapa. E il nica, che verranno giorni migliori per visitare il suo paese, sorrise ai cinque; poi fece un gesto vago, come un vago messaggio, e si allontanò.
    – Era un contra? – chiese Alexandra.
    Vicente le disse che non sapeva, in compenso trovava che nel gestire la situazione lei avesse agito molto al di sotto dei suoi mezzi. Infastidita Alexandra rispose che aveva solo voluto evitare uno scontro fra lui e il nica. Vicente chiese altra birra per tutti e a quello che la serviva domandò di qualche posto per passarci la notte fino all’ora della partenza del primo battello per Ometepe. L’uomo disse che in paese ancora non c’erano hotel, però propose la locanda che aveva lui quattro isolati più su, benché non avesse stanze né letti, ma in cambio comode sedie a dondolo di giunco, e birra e rum in abbondanza, e “un jukebox con la migliore musica della regione”, per passare la notte molto meglio che in una stanza senza ventilatore come in un hotel di Rivas, e se le “signore” lo desideravano era possibile farsi una doccia e rimettersi in sesto. Gli costava “molto poca grana”, molto più economico che tornare a Rivas a piazzarsi per poche ore in un hotel noioso. E poi aveva qualcosa di speciale per loro: la soluzione perché “i compagni” non aspettassero fino alle otto, ora in cui partiva il traghetto di linea, dato che “zi’ Luis Alfonso” partiva dal suo molo per Moyogalpa in genere intorno alle cinque, quando le acque sono più calme. La notte sarebbe trascorsa molto più rapidamente nel suo locale che altrove. O pensavano di tornare a Rivas?
    Vicente e Alexandra erano d’accordo, e Bonaventura, Beatrice e Susan dissero che non sarebbero tornati a Managua se prima loro non prendevano il traghetto: avrebbero passato la notte insieme nel “locale del signore”.
    – … del signore? – ripeté ironicamente il tipo della birra, facendo segno al cielo con l’indice – Qui mi conoscono tutti come El Kilambé – e gli tese la mano scura e dura come il mogano a mo’ di saluto e di presentazione.

    Barilotto stava sempre insieme al Capibara e si scontravano con i Barilotto dell’altro isolato. Il Capibara aveva un fratello, Ariel, e tutti e due erano suoi amici fraterni. Poi Ariel diventa tornitore e il Capibara “guardia”, in tanti “si facevano poliziotti”, era un modo di “sopportare la miseria”; il Capibara arriva ad essere fuciliere di marina e suo fratello tupamaro. – Sapete chi furono i tupamaros? bene, meglio così allora – Un giorno il Capibara passa con un camion della caserma, diretto a Montevideo, veniva da Colonia de Sacramento e passa per Playa Pascual, dove vivevano Ariel e la madre, vede il fratello che aspetta l’autobus sulla strada e si ferma. Poi riprende la strada, stavolta in compagnia del fratello che non vedeva da più di un anno. Chiacchierano. Le “cose della vita” avevano fatto sì che fra loro non ci fosse grande comunicazione. Il Capibara gli racconta che “stanno solo aspettando che i tupas scendano in strada per dargliele “de mango revoleao”. – “de mango revoleao” voleva dire qualcosa come “senza quartiere”, “senza misericordia”, “no mercy”, “senza pietà” (in italiano nel testo, ndt), capite adesso?, bene! – Erano “gli anni tosti”, quando i tupamaros smettono di fare i Robin Hood e inaspriscono “la cosa”, e “il gioco diventa mortale”, con esecuzioni e tutta “quella roba brutta che portano con sé le guerre quando si infiammano”, e Ariel, che era già un tupamaro senza che suo fratello lo sapesse, gli domanda cosa gli hanno fatto i tupas perché lui li odi in quella maniera. Era un modo di “sondare” il fratello per potergli parlare con franchezza. Magari poteva arrivare a reclutarlo, visto che i tupamaros erano riusciti a incorporare molti militari nella loro organizzazione clandestina, e disponevano di una rete non trascurabile di intelligence e di infiltrati. Per il Capibara i tupamaros erano “dei figli di puttana”, e Ariel gli domanda perché pensa questo, e d’improvviso gli fa: “E se io fossi un tupa?”. Il Capibara resta di sasso, non reagisce. “Metti che io sia un tupa, e ti pianto un coltello fra le costole e ti lascio dissanguare e poi ti butto fuori e mi porto via il camion”. E il Capibara, triste e sconcertato perché la conversazione era giunta a quel punto, e perché suo fratello potesse pensare quelle cose: “Ma tu non lo sei, Ariel, come puoi dire questo?”. “Sì, non lo sono, ma… e se lo fossi?”. “No, ma tu non lo sei”. “A te ti pare che potrei accoltellarti, che sono un assassino?”; e il Capibara sempre con la stessa battuta: “Ma tu non lo sei”. E continuando a parlare arrivarono a Montevideo, e Ariel scende, si congeda dal fratello e il Capibara prosegue fino alla caserma dei fucilieri. Tempo dopo Ariel viene catturato, e il Capibara, pensate!, lui non aveva manco lontanamente immaginato che suo fratello potesse essere un tupa, era qualcosa di impossibile da immaginare in suo fratello, credere che un soggetto che uno conosceva così bene potesse essere un sedizioso. Dopo tre anni e spiccioli, erano gli anni che un sovversivo ancora poteva uscire dal carcere, alcuni uscivano ma passavano subito alla clandestinità, Ariel esce e torna al paese a vivere con la madre. Quando il Capibara viene a sapere che suo fratello è libero, esce dalla caserma e si dirige al paese, ma non lo trova. Quando Ariel torna a casa, la madre gli dice che il fratello era venuto a cercarlo. Ricorda allora tutte le cose dette e vissute insieme, e si spaventa, anche perché erano tutti e due tipi conseguenti, coraggiosi, decisi, e il Capibara era uno tosto, si batteva con chiunque, buon fisico, picchiatore, e soprattutto determinato, a parole e coi fatti. Ariel pensa che forse suo fratello è venuto per menarlo, per fare i conti. Abbastanza preoccupato pensa: “cosa è venuto a fare ‘sto matto, con che se ne uscirà, forse è venuto a salutarmi, forse per litigare…”. E siccome pure Ariel era uno che non aveva mai tirato via il culo davanti alla siringa, va a Montevideo per vedere il fratello, che viveva con una donna nei sobborghi della città, ma anche lui non lo trova a casa, e quando il Capibara rientra la donna gli dice che suo fratello era venuto a cercarlo e che non aveva lasciato detto il perché. Stettero così tre settimane a cercarsi e a mancarsi: Ariel cercava il Capibara e non lo trovava e il Capibara andava a casa della madre e non trovava Ariel. E adesso ascoltate bene: più o meno un mese dopo il Capibara si uccide, si avvelena. In seguito dissero che si era ucciso perché aveva un braccio infermo, sempre più “rinsecchito”, dissero questo genere di cose, gente di paese, sapete, però tutti lo sapevano che non fu per questo, né perché avesse paura del fratello. E fu così che Ariel andò a vederlo e in capo a qualche settimana si suicidò.
    Con quei due matti usciva Vicente “Barilotto”, e Ariel era stato il primo amico che cominciò a parlargli della “questione sociale”, molto prima dell’epoca dei tupamaros… La prima volta che sentì parlare di Sandino fu con Ariel, la volta che sentì parlare di un “piccolo esercito folle” fu perché Ariel gliene parlò e gli regalò un libro di Gregorio Selser; Ariel fu colui che gli spiegò cos’era il plusvalore e che gli prestò Lavoro salariato e Capitale e L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. E gli fu sempre riconoscente per avergli fatto conoscere L’origine della famiglia… Lo avevano letto L’origine della famiglia…? Non sapevano cosa perdevano… Col tempo, sempre Ariel gli regalò l’Anti-Dühring. Lui non l’aveva letto tutto l’Anti-Dühring, e quello che aveva letto l’aveva capito a metà, in quegli anni… Una delle cose che più gli erano piaciute in quel libro era dove si faceva l’esempio della cavalleria di Napoleone per spiegare la legge del trapasso dei cambiamenti quantitativi in qualitativi, “il passaggio dalla quantità alla qualità”, sintetizzò. Sapete come stava la questione? Pare che Napoleone fosse sommamente contrariato dal fatto che i cavalleggeri mamelucchi risultassero in combattimento molto migliori di quelli francesi, tuttavia scopre qualcosa: scopre che due mamelucchi battevano tre francesi, poi osserva che cento mamelucchi valevano più o meno come cento cavalleggeri francesi, e che 300 cavalleggeri francesi risultavano quasi sempre superiori a 300 mamelucchi, e ancora, aprite bene le orecchie adesso, scopre che mille francesi vincevano sempre, sempre!, contro millecinquecento mamelucchi. Chi sapeva spiegargli questa cosa?
    Era una notte calda e chiara, bella, e verso le due avevano portato le sedie fuori in veranda, che come tutte quelle della zona aveva piano di assi, balaustra di paletti incrociati, tetto di cartone catramato e montanti di legno duro. In realtà furono le tre donne ad accomodarsi sui dondoli a sonnecchiare, dopo essersi fatte una doccia nel bagno sul retro, mentre Vicente, Bonaventura e El Kilambé si erano sistemati su delle panche intorno a un tavolo rettangolare, e persero il conto di quel che bevevano e delle proporzioni del miscuglio di birra e rum con cui accompagnarono le storie che si raccontavano. El Kilambé si era rivelato buon conversatore e buon ascoltatore e aveva portato il conto della bevuta senza avarizia: ogni tre giri uno era a carico suo. Il suo nome era Carlos Hernando Santos, nato a Léon, e il soprannome di El Kilambé gliel’avevano dato lì a San Jorge, perché quando aprì la locanda qualcuno scoprì che era stato uno dei partecipanti, con l’EPS, alla “battaglia del Kilambé”, un’operazione militare di sgombero di un accampamento “contra” sul colle che porta questo nome, al nord della provincia di Jinotega, presso Wiwilí, zona che Vicente aveva conosciuto nel corso del proprio lavoro di corrispondente di guerra. L’azione sarebbe ben potuta rientrare negli annali di guerra dell’esercito vietnamita sia per l’eroismo che per la perizia militare dimostrati nella sua attuazione, e Vicente e Bonaventura pressarono El Kilambé per conoscerne tutti i dettagli, tutto ciò che a Vicente piaceva chiamare “la piccola storia”, ciò che restava solo nella memoria di uomini che se la raccontavano gli uni con gli altri fino a che non “scompariva dalla vita e dalla memoria, e allora gli restava solo la possibilità di essere inventati da un artista”. E fu dentro la trama delle storie che i tre andarono tessendo fra un sorso e l’altro per passare la notte che Vicente raccontò dei suoi vecchi amici, Ariel e il Capibara, e malgrado gli si incagliasse ogni tanto la lingua a causa dell’alcol seppe citare senza errori l’esempio di Engels a proposito dei cavalleggeri francesi e mamelucchi. Benché la sua domanda finale fosse formulata in modo che chiunque potesse rispondere, in realtà era rivolta al nica, vista la sua condizione di combattente a riposo, e certamente della riserva, e soprattutto per essere stato uno che aveva partecipato a quella eccezionale battaglia, come fosse una provocazione fraterna perché egli desse prova di intelligenza e preparazione. Di tanto in tanto Vicente lo osservava in silenzio: nulla nel suo aspetto indicava che ci si trovava di fronte a un uomo fuori dal comune, uno da “corpi speciali”; al contrario. Piuttosto basso di statura, rossiccio, semplice, senza grande cultura…
    Il nica non aveva letto il celebre libro di Engels, cosa che stupì Vicente e Bonaventura, che gli chiesero se nell’EPS non gli davano da leggere le opere di Marx, Engels e Lenin. Le leggevano, sì, non tutte, alcune, ma soprattutto leggevano gli scritti di Sandino e di Carlos Fonseca. L’EPS non era un esercito marxista, spiegò, non lo sapevano?, e tantomeno lo era il Frente Sandinista. Vicente e Bonaventura gli dissero che si rendevano conto di quanto grande fosse il fardello del marxismo. E poi, disse il nica, non esistono eserciti marxisti o non marxisti, gli eserciti erano uguali in ogni parte del mondo, il loro asse era la forza, non la ragione: un generale comandava più di un tenente perché aveva più uomini sotto il suo comando, non perché avesse ragione. Ed era così in Cina, a Cuba, negli Stati Uniti o nell’EPS. Questa considerazione del Kilambé sorprese oltremodo Vicente, e la conversazione planò sulla tragedia del combattere, sulla voragine che inghiotte gli uomini e li acceca, e culminò con la storia di Ariel e del Capibara. Non erano ubriachi nonostante tutto quello che avevano bevuto e continuavano a bere, e spesso il filo dei ragionamenti si perdeva in modo irreparabile. Il Kilambé aveva preparato un brodo denso di maiale, responsabile forse di quella resistenza formidabile agli effetti dell’alcol.
    Prima di rispondere, El Kilambé stappò altre tre birre, e prese tempo. Allora avvenne l’imprevisto, che impedì a Vicente di sapere se il nica conosceva o riusciva a intuire la risposta corretta, perché dal posto dove le donne stavano sonnecchiando si sentì provenire la voce di Alexandra:
    – La disciplina.
    Tutti e tre si voltarono verso di lei
    – Non stavi dormendo? – disse Vicente.
    – La cosa che rendeva superiori i cavalleggeri francesi rispetto ai mamelucchi era la disciplina – proseguì Alexandra, senza curarsi che le sue parole fossero o no opportune.
    Il nica alzò la bottiglia di birra in direzione di Alexandra in segno di ammirazione e disse sottovoce a un contrariato Vicente che la “gringuita” non era affatto stupida.
    – La differenza fra gli uni e gli altri era la disciplina. – disse Alexandra – Napoleone si rese conto che perché la disciplina avesse effetto sugli esiti di una battaglia un reparto di cavalleggeri doveva avere almeno una certa quantità di componenti.
    Il nica non nascose lo stupore per la precisione del ragionamento della “gringa”, e soprattutto per l’uso del termine “reparto”. A Vicente capitò lo stesso, e lo espresse in forma interrogativa:
    – Ma tu, hai ricevuto un’educazione militare?
    – No, non ho ricevuto un’educazione militare, né sono un’agente della CIA, e nemmeno una funzionaria del Congresso…
    – Allora sei una giornalista di prima categoria – disse il nica.
    – Lo sapevi perché hai letto Marx e Engels? – disse Bonaventura.
    Alexandra gli sorrise, sempre continuando a dondolarsi piano. Ai tre uomini non fu del tutto chiaro se si trattava di un sorriso di compatimento, di tristezza, o di arroganza, però certamente vi avvertirono delusione e riprovazione. Alexandra chiuse gli occhi e continuò a far finta di dormire.
    Il nica disse che “la gringa” aveva espresso molto bene il concetto, che era chiaro che una volta, affinché la forza della disciplina si manifestasse in maniera decisiva negli scontri di cavalleria, l’ordine di battaglia doveva essere serrato e i piani rigorosamente eseguiti per sopraffare reparti numericamente superiori di cavalleggeri più abili e più agili, e tanto valorosi quanto il migliore dei loro. Vinceva il corpo più disciplinato.
    – Ma… non è sempre così? – disse Bonaventura.
    Il nica ci stette a pensare.
    – Nel combattimento corpo a corpo non è così – disse in capo a qualche secondo.
    – Voi come avete fatto a vincere a Kilambé? – domandò Bonaventura.
    Rifletté ancora.
    – Avevamo come una smania … non so come spiegarti… di vincere. Per settimane l’abbiamo alimentata, fino a che non si è presentata l’occasione della battaglia.
    E l’ex-soldato, un eroe convertitosi in locandiere, ricordò che nella vita di un soldato il combattimento è solo un breve momento. Lo aveva già scoperto il Che. La cosa terribile erano le ore che il combattente passava senza combattere, svolgendo compiti banali, i giorni, le settimane, a volte i mesi che passano senza un solo scontro… Non credeva ci fosse esperienza migliore per capire che uno stava sprecando la vita, che la vita volava via, tempo perduto, in cui non accade niente, niente!, che uno poteva perfino morire di qualche stupida infezione o di diarrea senza essere mai stato in combattimento… Per questo si fremeva per combattere. Disse loro che non sapeva spiegare cosa si provava quando si passavano anni sulle montagne senza che il mondo sapesse che si era lì, buttati su una montagna sconosciuta a combattere per un ideale di cui nessun’altro è a conoscenza… Allora la disciplina si esprimeva in tanti modi, nelle cose più minute… Era la capacità di dominare quella sensazione che stavi perdendo la vita per niente…
    Da lì, la discussione prese una deriva più aleatoria, verso questioni che benché squisitamente belliche nemmeno Clausewitz avrebbe concepito, o forse le avrebbe disprezzate come perniciose per la disciplina e per l’autentica arte della guerra. E quando Vicente gli domandò se il tipo che “si era messo” con loro al capannone fosse un “contra”, El Kilambé disse che sì, lo conosceva e sapeva che era un “contra” operativo. Era venuto da Boaco, ed era vero quel che aveva detto, che veniva a trovare sua madre e il resto della famiglia per il fine settimana, e che di certo in quel momento si stava accomiatando dai suoi cari per tornare in montagna ancora col buio, e che gli ci vorranno tre giorni per raggiungere la sua unità, che operava a nord di Camoapa, sulle colline, tutta una regione considerata zona di guerra.
    Bonavenura gli chiese perché non lo aveva bloccato lì stesso, o segnalato alle autorità dell’EPS.
    Il nica lo guardò un momento e servì altra birra per tre.
    – Ho il dovere di rispettare il suo diritto di venire a vedere la madre. Lui farebbe altrettanto con me. Se ci incontrassimo sulle montagne, cristo, di sicuro uno dei due ammazzerebbe l’altro, ma qui…
    – Ma… e nemmeno segnalare all’EPS che c’è un contra operativo in zona? – disse Bonaventura.
    – L’EPS lo sa già.
    – E dopo che è partito, non gli vai a dire che è stato qui?
    – Perché facciano sorvegliare la famiglia?
    E Bonaventura, che tutto voleva tranne che un oscuro contadino del porticciolo di San Jorge lo tenesse e meno ancora che lo ricordasse come informatore, restò in silenzio, fece dei gesti e scosse il capo, sottintendendo che tutto nell’istmo del Centroamerica era un po’ ingarbugliato, ma lui dopo quattro anni da giornalista si andava convincendo, praticamente giorno dopo giorno, di essere in fin dei conti buon apprendista.
    El Kilambé sorrise, e per altre due ore seguitarono a discutere se fosse utile o no sorvegliare o pedinare i familiari degli insorti, come in passato aveva fatto Somoza coi sandinisti, e continuarono parlando della sofferenza, della salute e dello stato psichico degli uomini in una guerra, e se la violenza e il dolore li si doveva considerare come stati di consapevolezza invece che come aberrazioni. Ehi, è finita la birra? No, la birra non finiva mai alla locanda del Kilambé, dove potevano tornare tutte le volte che volevano, loro e “las gringas”. Quando in un combattente si affacciavano sentimenti di gioia e di armonia erano fugaci, e facilmente svanivano dentro quel senso di assurdità che affiora quando non si sta lottando per sopravvivere o per la vittoria. O no? Come? No? Riuscivano a capire che per il soldato, per il combattente, per colui che riesce a uscire dalla sofferenza e a sopravvivere alla mattanza, la promessa di ricompensa e perfino di rinnovamento è così forte che dopo, nella vita civile, nelle quotidiane incombenze della gente comune, qualunque cosa fa gioco per conciliare le contraddizioni, le penose contraddizioni di tutti i possibili dilemmi umani, e può perfino diventare trascendente? Sì, trascendente: seminare il mais e averne cura e vederlo crescere, sedersi a sera nel patio di casa tua a bere un succo con la tua donna, andare i fine settimana alle lotte di galli e ritrovarti coi vecchi paesani o andare alla pelota, ascoltare la radio, andare all’emporio a comprarti una camicia che ti piace, percepire, anche senza saperlo esprimere, che il sole e la luna non aspettano nessuno per spuntare… Sì, El Kilambé la capiva la gente come Bonaventura e Vicente, che non riuscivano a comprendere come un ex-combattente come lui, che aveva passato due anni in montagna, che aveva partecipato alla battaglia del Kilambé ed era per questo considerato tanto dagli amici che dai nemici un eroe o almeno un essere fuori dal comune, fosse finito in mezzo a galli da combattimento, scommesse, rum e birra. L’idea, peculiare, che a un certo punto della lotta esiste vita solo attraverso la morte era una fantasia speculativa, non concreta. Ciò che esisteva era un mondo scisso in vita e morte, e fra esse una linea divisoria molto tenue, e uno viveva avvertendo che “la totalità delle cose” si riduceva a questa, molto semplice: vita e morte, e la possibilità, per tutti loro, di trovarsi da una parte o dall’altra, e la curiosità esistenziale la si poteva pagare con la perdita di una parte della propria esistenza. La cosa orribile e comica insieme stava, secondo Vicente, nello spettacolo offerto da tutta questa massa di uomini comuni dotati di immaginazione, desideri e sogni, che si ammazzavano senza pietà per gli interessi di altri uomini che sul campo di battaglia non c’erano. E quanto alle forme in cui si esprimeva l’attaccamento alla vita in quelle condizioni, ci si poteva fare un trattato: eccessiva auto-contemplazione, solipsismo, sprofondamento nel mare del proprio io. La potenza vitale dell’io si fissava in una specie di sogno per catturare la propria immagine, la possibilità di proiettarsi nell’altro era una deviazione che la vita poteva punire con la morte. Che cose che stava dicendo Vicente! Ovvio, non è che la vita punisse, no, no, lì c’erano solo due realtà, vita e morte, e uno, per paradosso, come faceva a scegliere, no? E El Kilambé che riprendeva a parlare, e gli raccontava che l’emozione più forte che può provare un uomo era il momento prima della battaglia. Non c’era emozione più forte. Manco con una donna “nel momento supremo” si provava un’emozione così forte. E l’uomo, allora, scopriva che uomo era. Il momento in cui sa che dovrà uccidere un altro essere umano o essere ucciso. Non c’era un altro momento come quello. Dopo, verrebbe il combattimento vero e proprio: nessuno raggiungeva il massimo di intensità di alienazione, se non quando si trovava in combattimento, ammazzando e cercando di evitare che lo ammazzassero.
    Nel suo intimo Vicente serbava altre testimonianze simili ascoltate in passato. Ridevano di orrore, di quell’orrore lieve che non gli impediva di sapere che era possibile starsene a riflettere come stavano facendo loro a quell’ora della notte, presso le mitiche acque di un grande lago. L’aspirazione a controllare l’universo, ad avvilupparlo coi propri sogni, era inesistente negli uomini, in guerra, e quando diventava possibile, al protagonista poteva capitare come al personaggio centrale di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Sì, la vita non cedeva impunemente nessun diritto. Di che era capace la disciplina, eh! Non era quello la disciplina, subordinazione assoluta ai comandi, sottomissione totale all’autorità, stretta osservanza delle regole? Figurarsi se con El Kilambé si permettevano di mettersi a dissezionare disciplina, ideologia, educazione… In quel gioco si correva il rischio di cadere nel nominalismo. Bonaventura e El Kilambé lo sapevano cos’era il nominalismo? Vediamo, ci vogliono altre tre birre… Continuiamo con le birre? Sì, certamente, era quanto di meglio per smaltire il rum. In quanto al nominalismo… Ad ogni modo, stava albeggiando ed era preferibile lasciare la faccenda del nominalismo per un’altra occasione. Che emozione! Per la prima volta nella loro vita vedere il sole spuntare dietro i vulcani Concepción e Maderas. Un’emozione un po’ più forte che scoprire il passaggio dalla quantità alla qualità, magari non così forte come altre, però un’emozione unica in loro e per loro.

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