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    L’ordine che produce disordine

    L’ordine regna a Varsavia. Mi è subito venuta in mente la frase del generale Sebastiani che, nel settembre del 1831, annunciava la caduta di Varsavia sotto l’assalto delle truppe dello zar Nicola, ascoltando la chiusura di un servizio con il quale non so quale rete televisiva dava conto della situazione delle carceri italiane, dopo la rivolta di cui sapete. La frase, certo era più morbida. “E’ tornata la calma”, mi sembra… D’altra parte sembra anche che la frase pronunciata da Sebastiani fosse, più diplomaticamente, “la tranquillità regna a Varsavia”.
    E visto che noi fuori siamo agitatissimi per tutt’altro, ora se ne parla davvero poco, o non se ne parla affatto, di quel che accade nelle carceri, se non per aggiornare sulla ricerca dei “mostri” che sono fuggiti… Ed è questa forse la cosa più sconvolgente…
    Ma se 13 morti vi sembran pochi… A me sembra piuttosto una strage. Permettete qualche riflessione… Certo, strage di cattivi, cattivissimi, di cui ce ne importa poco… strage di miserabili, se leggo di due magrebini, di un tunisino, insomma quasi tutti stranieri… e che neppure di tutti sono stati diffusi i nomi… ancora più miserabili se tutti i tredici disgraziati, in rivolta fra gli altri, non hanno avuto altro pensiero che cercare disperatamente droga e imbottirsene fino a morire. Ho qualche difficoltà a immaginare che nella concitazione, negli scontri, gli incendi… l’unico modo per morire sia per overdose (e se pure le cose fossero andate proprio così, bisognerebbe pure chiedersi cosa ci stanno a fare in carcere persone che hanno bisogno più che altro di essere curate…).
    Le inchieste chiariranno.
    Ma per chi appena appena conosce la tremenda realtà delle nostre carceri, è da tempo evidente che prima o poi ci sarebbe stata un’esplosione. Persone esperte e ben autorevoli da tempo lo paventano. Il morbo che sta ammorbando la vita di noi tutti, è stato solo l’occasione che fa sì che tutti i nodi vengano al pettine. Tutti i nodi di questa società dove le sperequazioni, le ingiustizie, le violenze silenti sono cresciute a dismisura e sono talmente parte costitutiva del mondo che abbiamo costruito che, se dalla parte “giusta”, neppure ce ne accorgiamo. Eppure sono un’enormità: quelli che precari, quelli con lavoro in nero (quelli costretti a lavorare in nero), quelli che una casa dove barricarsi non ce l’hanno (quarantamila solo a Roma, sentivo ieri per radio), quelli che se stanno male non hanno alternativa che mettersi in fila agli sportelli della sanità pubblica…
    Quelli che in carcere… in luoghi sovraffollati, ammassati come cataste di legna (la definizione è di Andrea Pugiotto, costituzionalista), quelli che “uomini come bestie” (è il titolo, pensate un po’, del libro scritto da Francesco Ceraudo, che è stato pioniere della medicina penitenziaria), quelli costretti a passare il tempo nella disperazione del non far nulla, quelli che se hai un momento di sconforto non puoi nel momento in cui ti serve fare una telefonata, quelli che la risposta alla “domandina” (per un permesso, per una visita, per una matita…) la aspettano giorni, settimane, mesi (e ce ne accorgeremo anche noi, che significa…).
    E’ bastata la paura (quella che abbiamo tutti noi), la visita di un parente annullata (riuscite a immaginare?), la sospensione di un permesso atteso da tempo… E non penso che queste misure che a freddo, da fuori, ci sembrano ragionevoli, siano state comunicate magari con l’aiuto di uno psicologo, qualora necessario. E d’altra parte, come possibile? Se… “Gli psicologi? Desaparecidos”, mi ha scritto tempo fa un detenuto…
    Tutti i nodi vengono al pettine. Ma mi sembra questo sia un nodo grosso come un groppo soffocato in gola della società tutta, che con indifferenza accetta di avere in seno un mostro.
    Il pittore e disegnatore Marco Bailone anni fa disegnò la copertina di uno dei primi libri di Carmelo Musumeci, l’ergastolano scrittore ora in libertà condizionale, “L’assassino dei sogni”. Il carcere qui è rappresentato come una fortezza che ha il volto di un mostro e le sbarre sono i denti della sua orrenda bocca. Deve conoscere bene, Bailone, Massa e Potere, se Canetti vi scrive che “pressoché sterminati i draghi e le fauci mostruosi se ne trovò un equivalente simbolico: le prigioni. Dapprima, quando erano ancora camere di tortura, esse assomigliavano fin nei particolari alle fauci nemiche. E così ancora oggi è raffigurato l’inferno. Le vere e proprie prigioni, invece, si sono trasformate in senso puritano: la levigatezza dei denti ha conquistato il mondo, le pareti delle celle sono una sola superficie liscia e il finestrino per la luce è molto esiguo. Per i prigionieri la libertà è tutto lo spazio che si trova di là dalla barriera delle due fila di denti rinserrate l’una sull’altra al posto delle quali vi sono ora le pareti nude della cella”.
    Insomma, il carcere amplificazione delle fauci, dove tempo e spazio vengono a mancare. “Entro di esso si possono muovere alcuni passi in qua e in là come fa il topo sotto gli occhi del gatto. E spesso ci si sente alle spalle l’occhio del carceriere. (…) Inoltre il prigioniero avverte continuamente l’interesse per la sua distruzione, nutrito (anche quando sembra cessare) dall’apparato che lo tiene in carcere”.
    Cosa volevate che succedesse alla notizia di ulteriori restrizioni, e con il panico innescato dal pensiero di un’epidemia, senza poter comunicare, senza essere certi di potersi fidare, in un mondo dove ognuno “avverte continuamente l’interesse per la sua distruzione”. E questo a prescindere dall’impegno e dalla buona volontà di molti che ci lavorano, di quelli che anche in questo momento hanno fatto e fanno il possibile. Il sistema carcere è in sé un mostro dai “denti rinserrati”.
    Quest’epidemia, dicono in molti, ci costringerà a rivedere il nostro sistema di vita, se vogliamo che la nostra civiltà vada avanti. Volenti o nolenti. E volenti o nolenti bisognerà pur rivedere anche il sistema delle pene. Perché non è civile una società che guarda, se le guarda, con una scrollata di spalle, a 13 persone morte “per overdose” nel mezzo di una battaglia dentro le fauci del mostro… perché “l’ordine che regna a Varsavia”, è quel tipo di ordine che (rubo le parole a Vittorio da Rios) solo produce disordine… e non ci fa affatto sentire tranquilli…

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