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    Cronache di guerre…

    Ancora su Gaza. Riflessioni di un cronista, di cronache di guerre…
    Un articolo di Ennio Remondino*.

    “Nella vita m’è capitato di frequentare qualche guerra da molto vicino. Delle tecniche di guerra conosco il minimo necessario alla personale sopravvivenza, mentre qualche cosa in più so del racconto di guerra. Parlo quindi della guerra che vi arriva in casa attraverso i telegiornali. Gaza, in queste settimane. Tra le poche cose che ho capito delle guerre è che il loro racconto, per essere efficace ed assumere il valore della testimonianza, deve avvenire sempre da dove si svolgono i fatti. Dalla Striscia di Gaza, in questo caso. Faccio un esempio che vale per tutti. L’assedio crudele di Sarajevo nella guerra di Bosnia. In quei tre anni e mezzo di tiro al bersaglio, la vera difesa che fu in grado di impedire l’occupazione della città da parte degli scherani di Karadzic fu lo schieramento sul campo degli occhi dei giornalisti e degli obiettivi delle telecamere di tutto il mondo, Rai in testa.
    Furono la dignità eroica degli abitanti, mostrata al mondo, e l’indignazione crescente della opinione pubblica a salvare Sarajevo. Proviamo ora ad immaginare la stessa condizione di guerra con quei testimoni tenuti lontani dal centro del bersaglio. Un racconto costretto sulla linea del fronte delle forze che circondano ed attaccano. Mi immagino costretto a Pale (la Repubblichina di Karadzic) costretto a raccogliere strategie esposte dal generale Mladic, e qualche spezzone di immagini clandestine arrivate da Sarajevo a cercare di descrivere la vita d’inferno degli assediati sotto il tiro costante dell’artiglieria e dei cecchini. La stessa capacità di testimonianza del disagio sociale ed occupazionale italiano affidato al “pastone politico” dei telegiornali. L’Italia del palazzo al posto dell’Italia reale, la guerra dei generali a posto della guerra delle vittime.
    E’ quanto sta accadendo a Gaza, pur con tutte le differenze tra il diritto alla sicurezza da parte di Israele e le mire aggressive di chi voleva strangolare Sarajevo, tra Hamas e i secessionisti bosniaci. L’organizzazione giornalistica internazionale “Reporter sans frontieres” ha denunciato il blocco israeliano dei giornalisti che chiedono di accedere alle zone di combattimento. Guerra senza testimoni terzi che possano raccontare in prima persona la bomba fuori bersaglio, la scuola o la moschea colpite con donne e bambini dentro. Le guerre senza testimoni e narratori civili dal loro interno sono le guerre che piacciono ai militari. Storia antica quasi quanto il mondo. Da Omero a Olmert, potremmo dire, le bugie di guerra in rima, in prosa e in telecronaca. Ci sto scrivendo un libro sopra. “La guerra come fonte di menzogne e la televisione come Pinocchio preferito dalla guerra”.
    La guerra è un totale equivoco che macina, oltre alle persone, anche le parole e il loro significato comune. La guerra che non si chiama più guerra, ma più elegantemente “conflitto”, “azione armata”, “operazione anti terrorismo”, “difesa preventiva”, i morti ammazzati che diventano pudicamente “vittime”, e le distruzioni che con linguaggio da geometra di paese, sono chiamate “effetti collaterali”. Quasi come chiamare slip o boxer le nostre tradizionali mutande. E di mutande con cui coprire le vergogne della guerra ne occorrono molte.
    Le bombe che ho visto volare su Sarajevo, Baghdad, Belgrado, Pristina, Kabul eccetera, quegli ordigni raccontati in partenza dagli studi televisivi di Roma, erano il prodotto di una sorta di gioco diplomatico un po’ violento, da descrivere con parole lievi, per non turbare troppo le diverse sensibilità della politica.
    Avvicinandosi al bersaglio, quelle stesse bombe in volo, già cambiavano natura. Il “Conflitto” del dire patinato del Mezzobusto da studio, diventa “Guerra” soltanto nel racconto concitato dell’Inviato sul campo di battaglia, bravo o meno bravo che sia. Bombe e missili partono sempre “intelligenti” e diventano irrimediabilmente cretini avvicinandosi al bersaglio da colpire.
    Anche molti strateghi da alto comando e da studio televisivo, politici di salmeria e narratori della riserva, visti da lontano possono sembrarti intelligenti. Se stai dentro la guerra e li ascolti, ti accorgi subito di quanto, in realtà, siano irrimediabilmente cretini. Oltre che cinici e bugiardi.
    Le parole in guerra si muovono veloci come proiettili e con la stessa rapidità cambiano forma. Le parole in guerra, prendendo in prestito un titolo di Andrea Camilleri, prendono, di fatto, “La forma dell’acqua”. Che forma ha l’acqua? La forma del contenitore (o del telegiornale) in cui la versi”.
    Ennio Remondino
    *da Dnews

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