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    “Vorrei essere zingaro”

    Un amico, Roberto, mi ha girato questi versi. Reazione, a quanto successo nei campi rom di Ponticelli, di Giuseppe Occhiato, professore scrittore che spesso ha scritto di zingari. Un impeto, incontenibile, di ribellione contro una grande ingiustizia. Che all’italiano mescola parole calabresi e parole nella lingua degli zingari. Non tutte per tutti comprensibili, forse. Ma credo non ci sia sempre bisogno di spiegare dettagli. Rimane, incancellabile, la forza di suoni, serrati, che sanno di sangue e dolore, conoscenza e amore. Queste parole sono un urlo, da scagliare contro troppi silenzi… Ecco:

    Vorrei essere zingaro” (Incazzamento per i raid nei campi rom di Ponticelli, Napoli, 13-14 maggio 2008))

    “Via gli zingari dalle città, dai nostri paesi, / i nomadi scacciamoli, questi vecchi, inutili arnesi, / perché insidiano le nostre sicurezze, estirpiamoli / dalla nostra carne, ai margini del mondo mandiamoli, / smantelliamo i loro campi, per favore, sì, per favore, / creiamogli nuovi lager, mediante che il loro odore, / persino il loro odore ci agita, così che lo smarrimento, / la salmura, le pricosìe e il nostro scontento / si squietino e noi cagià possiamo stare tranquilli, / anche se poi lagrimiamo per loro come tanti coccodrilli. / Sì, dalle viscere questa verminara ci dobbiamo cacciare: / senza patria sono e senza patria debbono restare, / senza diritti, precari per sempre e clandestini, / e delle loro rombrì saremo giudici diamantini. / Popolo invisibile, mardé, nel più nero pandebibé / condannati all’inesistenza, condannati alla melé, / zingari e zingare di ogni paese scacciati dalle città, / vorrei avere per voi una casa dove mai la maramà / vi ferisca, e che sia grande da accogliervi tutti quanti / e stando insieme i giorni scorrano incatturanti. / Dio degli zingari, devél di ogni rom, fammi avere / la gi e il gilò di uno zingaro; fatemi ottenere, / voi santi Cosimo e Damiano, la nobile mente / di quello zingaro che sempre con scàrmino ardente / ho desiderato di essere. Non però uno zingaro costretto / in un chiuso paese, ma libero e dovunque beneaccetto, / a correre nel sole e nel vento, ben guardato, rispettato, / simile a ogni altra creatura, e magari anche onorato. / Come che mi pare già dentro di me di sentire / il ricordo degli spazi e dei monti, il lungo partire / del loro immenso popolo in peregrinazione / per le vaste pianure, col loro pondo di disperazione./ Ma sono eretici, sono diversi: mandiamoli al rogo, / scacciamoli per sempre dalla terra, da ogni luogo, / chiudiamoli per sempre nei lager, nei campi di sterminio, / condanniamo la loro memoria all’eterno abominio. / E i loro bambini rendiamoli orfani, / e dopo vendiamoli, traffichiamo coi loro organi. / Ah, dove siete, cristiani? C’è troppa sofferenza, / non la vedete?, troppa miseria; dov’è l’accoglienza / di noi cristiani, in mezzo a tanti papassi perbene / che, fingendo d’indignarsi, li tengono in catene? / Perché non gridiamo sul razzismo la parola di Cristo? / Vescovi, dove siete? Perché in questo tempo sinistro / non siete presenti, perché non vi vedo a pellegrinare / tra le baracche devastate, a urlare parole amare / sulle ceneri fumanti dei loro poveri materazzi / ma ve ne state invece a tacere nei vostri palazzi, / o puramente, se pronunciate deboli e scarne condanne, / sono così vaghe che manco arrivano alle loro capanne? / Sù, avanti, allora, o gente, bruciate, bruciate, / fate sparire questa genìa nelle più alte fiammate; / bruciate dunque le mie Faiola, Papuscia, Jela e Pirì, / bruciatele tutte, perdio, bruciate anche la mia Orì.”

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