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    Pietro l’eremita, e il sogno di una società “solidalista”

    “Mai l’uomo è padrone di sé come quando tace”, spiegava quel predicatore polemista che fu l’Abate Dinouart …
    E, rivedendo vecchi appunti a proposito della sua “Arte del tacere”, mi sono chiesta quanto sia diventato, o se lo sia sempre stato, così profondamente padrone di sé Pietro Tartamella. Gatto Randagio ve ne ha già parlato… e che volete, come non amare un girovago raccontatore, che lavora nelle strade, nelle scuole, nelle carceri, in birrerie e fiere, leggendo poesie e raccontando storie e che pure da quando si è fermato con la sua Anna per fondare Cascina Macondo, continua a percorrere, nomade stanziale, le vie degli incontri e della parola…    E oggi ve ne vuole parlare perché l’ha scoperto così profondamente padrone di sé che, fra le tante strade percorse nella vita, Pietro ha provato anche a vivere da eremita. Che significa senza televisore né radio, senza libri, senza giornali, senza internet, senza luce, senza bagno, senza acqua corrente, senza sapere che ora è… soprattutto, senza parlare. Riuscite a immaginare?
    Per farlo non è necessario ritirarsi in un deserto o dentro una grotta in cima a una montagna. La sua “grotta” è stata Amatillo, una barca costruita in Bangladesh, che a vederla sembra una capanna truccata da armadillo…, ancorata nel fiume Lys a ridosso del ponte Vleeshuis, nella cittadina belga di Gent.
    L’ha fatto, Pietro, alcuni anni fa, accettando l’invito e condividendo il progetto Gent-Bang di Ip Man e dell’associazione Viadagio, una manifestazione di solidarietà col Bangladesh. Anche altri artisti, prima e dopo di lui, si sono alternati sulla barca, una settimana ciascuno. Ognuno poteva avere con sé solo gli strumenti della sua arte, e Pietro ha portato penne a biro e quaderni, che in sette giorni ha riempito fitti fitti di pensieri e ricordi e narrazioni e letture e poesie e incontri e infinite riflessioni che si sono susseguite nel silenzio… che adesso ha sentito l’urgenza di regalarci con un libro… “forse perché sono alla soglia dei settantadue anni, forse perché è il mio testamento filosofico-spirituale, forse perché vi è abbozzata la mia provocatoria visione di una società solidalista”. E mi sono messa in ascolto…
    “Perché è impossibile cambiare il mondo”, il titolo del libro. Ma ad essere sincera penso questa narrazione, lunghissima e fittissima di appunti su un’intera vita passata a tessere legami, per diventare anelli di una catena che sa essere anche linguaggio artistico, che è danza che aiuta a superare i pregiudizi… è un invito a non arrendersi, e a provare a cambiarlo, questo mondo, portando ciascuno di noi il suo tassello alla costruzione della “società solidalista” nella quale Pietro, nonostante tutte le difficoltà che si possono incontrare, ostinatamente crede… , una società dove, tanto per cominciare, ai bambini bisognerebbe insegnare a chiedersi non “cosa farò da grande”, ma “quale sarà il mio ruolo”, in una società in cui ognuno si senta legato a ciascun altro…
    Perché non riusciamo a vederla? Perché l’abbiamo dimenticata? Cita Pavese, Pietro Tartamella, che ne La luna e i falò scrive: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Una società che sappia difendere i diritti di tutti, e sappia difenderli anche contro il potere, quando diventa inaccettabile arroganza. E ricorda fra l’altro Dossetti, che nella Costituzione italiana avrebbe voluto inserire un articolo sul diritto alla resistenza contro “gli atti del potere pubblico che violino i diritti fondamentali della persona umana”. La sua proposta non passò, come allora non passò (mi permetto di aggiungere) neanche la proposta di vietare esplicitamente l’ergastolo e definire un limite alle pene… insomma, chi ha avuto l’esperienza del potere che calpesta i diritti fondamentali degli individui aveva chiaro ciò che della persona va difeso fino in fondo, cosa che noi spesso sembriamo dimenticare…
    Infinite le cose che vorrei citare dal libro, e potete immaginare quante le sorprese di una vita vagabonda e curiosa, impossibile da riassumere.
    Ma quel che domina e tutto cuce nel racconto è il profilo di Ah-Che-Waga-Chun (nome d’arte, significa ‘colui che si arrampicò sull’albero’, scelto da Tartamella per la sua vita d’artista di strada) che sotto la grande quercia di Cascina Macondo ancora raduna folle di ascoltatori e narratori, ma che qui ci racconta soprattutto la forza del silenzio. E del pensiero che ne nasce.
    Perché nel silenzio, spiega, si sale sulla barca con tutto se stesso… con la propria forza e con le proprie paure, gli incubi, anche, che sono di tutti. Mille sono i nuovi gesti da imparare quando non hai a disposizione nulla di ciò a cui sei abituato, e tante sono le nuove sensazioni quando le persone sono volti incuriositi che a tratti guardano dalla riva… o bambini che s’incantano sul ponte vicino al quale è ancorata l’ “Amatillo” e, dopo il primo turbamento, esplodono di gioia: “Un pirata! Un pirata!”
    Si scopre anche che sette giorni sono un tempo sufficientemente lungo perché la barca diventi una piccola prigione e i sogni si popolino di volti deformati (anche i prigionieri, si chiede Pietro, fanno sogni deformati?). E non sapere che ora è mette a tratti angoscia… perché se si può stare giorni senza guardare l’orologio, guardare l’ora è ritornare in sintonia con il mondo, “come se il filo del tempo, virtuale e impalpabile, attraversasse le viscere e la mente di ogni essere umano, tenendoli tutti virtualmente collegati”. E si comprende quanto abbiamo bisogno di questo filo che ci tiene collegati…
    A rompere la solitudine, piccoli gruppi di studenti, ai quali la sera (previsto dall’iniziativa) è stato permesso incontrare “l’eremita”, conoscere la sua storia, il significato di questa sua esperienza. I ragazzi, si sa, sono pieni di domande. Alle quali Pietro, senza infrangere il voto del silenzio, ha risposto. Con brevi scritte su cartelli, con l’eloquenza dei gesti, degli sguardi, dei sorrisi e del silenzio.
    E un’altra cosa fondamentale si impara: che l’arte di tacere è anche questa (tornando all’Abate Dinouart…) arte della parola.

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