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    Captivi


    Quale società si riflette nelle immagini che arrivano dalle nostre carceri? Pensiero che ritorna e ritorna…
    Ho riaperto le pagine di un libro fotografico di qualche anno fa: Captivi, di Pietro Basoccu. E’ il racconto di un carcere della Sardegna, fatto di immagini tutte rigorosamente in bianco e nero, e non credo meglio si potrebbe dipingere il grigio soffocante di un’ossessione, fatta di ruggine, di ferro e silenzi, che intrappolano l’anima.
    Immagini accompagnate dagli appunti di Pietro Basoccu, medico pediatra e fotografo, che, per una campagna fotografica del 2010, era entrato in carcere allora per la prima volta.
    “Muri muri, ovunque vedo muri, spessi, di granito, che decorano alcune celle e mi riportano alla memoria luoghi sacri… strutture ipogeiche dell’era neolitica…”. Il suo stupore, che è stato anche il mio stupore la prima volta che ho messo piede in un carcere. E sarebbe, ne sono certa, lo stupore di chiunque vi si affacciasse per la prima volta.
    “Voltaire diceva che la civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle nostre carceri”, ricorda. “Le sue parole sono per la nostra società una condanna senza appello”. Ancora un pensiero, di Basoccu, che è anche il mio pensiero. E sarebbe il pensiero di chiunque vi entrasse e si guardasse intorno, senza chiudere gli occhi né l’anima.
    Forse è per questo che li tengono ben serrati, portoni e cancellate delle carceri. E ben alte e senza spiragli vengono innalzate le mura di cinta. Perché sono convinta che se le persone potessero vedere (e vedrebbero cose inimmaginabili) qualcosa si incrinerebbe nel guscio duro dei nostri cuori. Ma anche nella corazza presuntuosa delle nostre intelligenze.
    E allora portiamole fuori, le urla silenziose che contro quelle mura si infrangono, anche attraverso queste immagini.
    E’ vero, le parole di Voltaire sono una condanna senza appello per la nostra società. La stessa condanna senza appello che gridano questi sguardi, queste bocche chiuse, queste ombre… ritratte nella quotidianità di dettagli che si fa fatica a immaginare.
    “Lunghi corridoi, porte vecchie e arrugginite che vengono chiuse con grandi chiavi di ferro dorate e poi gabbie, gabbie e gabbie. Qualcuno grida, sporge lamano e il braccio dallo spioncino, altri urlano: ‘Siamo bestie chiuse in gabbia’ …”.
    Ma forse ancor più raggela lo sguardo su quell’unico cortile dove si trascorre l’ora d’aria, uno spazio angusto dove “le persone passeggiano avanti indietro come automi in modo convulso ma ordinato, qualcuno gioca a carte”.
    Portiamole fuori, queste immagini, che nella loro dolorosa bellezza sanno svelare tanta bruttezza. Così tutti potremmo esser presi da un dubbio: e come si può diventare migliori (non è questo che si pretende incarcerando?) circondati solo da bruttezze e squallori?
    Appunta, Basoccu, di una cella, lunga cinque metri e larga quattro e mezzo, con un letto a castello a tre piani, panni appesi alla finestra e borsoni sparpagliati, pacchi di pasta e cestini colmi di rifiuti. E una tenda che nasconde il bagno.
    E arriva insopportabile, da quell’immagine, l’odore del carcere. Per chi l’ha sentito (a me, per sbaglio, è capitato) un odore che poi non dimentichi più. E ti chiedi, ancora, com’è possibile migliorare, ma anche solo vivere, pensare, sperare, nel sentore soffocante di quelle mura.
    Leggevo in questi giorni, in un articolo su lindro.it, di una sentenza di Cassazione che boccia come “inumano e degradante” il wc all’interno della stanza detentiva. E “afferma che la separazione assicurata da un muretto alto un metro e mezzo non cambia le cose, né sotto il profilo della privacy né della salubrità…la terza sezione della Cassazione ha avuto modo di contestare al Ministero che la ‘presenza del wc all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione aveva inciso sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente’. C’era bisogno di una sentenza, per capirlo e saperlo”.
    C’era bisogno di una sentenza e tre gradi di giudizio per capirlo e saperlo. Ma chi ne parla? E cosa e a chi importa?
    Eppure, credo che se potesse uscire, l’odore rappreso del carcere, e raggiungerci tutti, forse un po’ di disgusto lo proveremmo tutti, e forse qualche domanda in più ce la faremmo tutti su tanta nostra cattiva insensatezza.
    Captivi. Non è detto in quale carcere della Sardegna erano state scattate le immagini di questo lavoro. Ma poco importa. Potrebbero essere le immagini colte in un qualunque carcere dell’intera penisola, perché in quegli squarci di ombre è condensata l’essenza stessa del carcere, di una pena che, al di là di tante buone parole, è spregio per l’uomo, per la sua dignità, E’ irriformabile violenza.

    scritto per Voci di dentro



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