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    Dalla “città dei pazzi”…

    Un prezioso ricordo che ci regala Daniela Morandini: l’incontro con Germano Sartelli. Tutto ritorna grazie a una telefonata e una testina di piombo…

    “Una telefonata che non aspettavo. E’ Marzia Sartelli, la figlia dell’artista che lavorava coi “matti” e che, più di cinquant’anni fa, dalla mia faccia fece una scultura. Non ho mai conosciuto la signora Marzia e le chiedo come mi abbia trovato.
    “C’era una sua lettera – mi spiega – tra le carte di mio padre”.
    Avrò avuto sei o sette, anni quando conobbi Germano Sartelli. Creava in uno spazio all’aperto della Rocca Sforzesca di Imola, la “città dei pazzi”, dicevano. Si chiamava Germano, un nome che, chissà perché, mi ricordava le avventure dei Nibelunghi.
    Aveva bocca e mani grandi e cominciò a disegnare. Da quegli schizzi veloci uscivano i miei occhi, il mio naso, le mie orecchie, ma non ne capivo l’utilità. Avevo sentito la storia di un uomo e del ritratto che diventava vecchio al posto suo. Un patto col diavolo si mormorava, ma non ci credevo.
    “Sai, io lavoro coi matti” mi disse senza lasciare la matita.
    Mi chiesi se anch’io avessi qualcosa che non andasse bene e forse mi lesse nel pensiero:
    “Beh, siamo tutti un po’ matti, un po’ normali, un po’ grandi, un po’ piccoli”.
    Forse era un po’ matto anche lui: dicevano che dipingeva con la fiamma ossidrica, che faceva quadri con le ragnatele, i mozziconi delle sigarette e i fili di ferro, ma quei disegni erano belli. Da quei bozzetti, Sartelli plasmò una testina di terracotta rossa sulla quale fece colare del piombo. Ne uscì quasi una maschera carica di pensieri.
    “Io ti vedo così” mi spiegò. “Guarda quell’albero: spostati più in là, vai dall’altra parte, poi su e più giù. L’albero cambia a seconda di dove stai. L’importante è che ognuno dica quello che pensa e che tutti provino a capirsi. Guarda da quella parte…”.
    Mi stava indicando quella che per Brecht era la parte del torto, ma non lo sapevo. Così come non potevo immaginare che stava scolpendo per la Biennale del ’64 con Afro e Fontana e che, dagli anni Cinquanta, ogni giorno andava ad insegnare arteterapia all’ospedale psichiatrico Lolli di Imola. Ma i miei ricordi ora si fermano davanti a quelli della signora Marzia:
    “Quell’ospedale, era quasi una casa per me. Ho dormito tante volte, negli studi dei medici, perché anche mia madre, Graziana Albonetti, lavorava lì. Era una giovane psichiatra che sarebbe diventata primaria, fu la prima in Italia. Erano gli anni Sessanta e io ero una bambina quando la mamma diede il permesso gli ammalati di tenere i gatti. Prima, li avvelenavano… Prima, c’era il manicomio dell’Osservanza, con le camice di forza e le persone legate ai letti. Grazie agli studi di psicopatologia dell’espressione di Gastone Maccagnani, si aprirono le botteghe: la falegnameria, l’officina, la sartoria. Bisognava far passare la giornata, bisognava imparare un mestiere. Molti disagi erano legati alla povertà. I malati erano persone ingenue e affettuose: stavo volentieri con loro. Una ricamatrice mi insegnò persino a fare il macramè, il merletto dei marinai. Mio padre aveva il laboratorio di pittura e di scultura: ferro, legno, tempere, giornali, carta, tanta carta. Avrebbe dovuto indossare un camice, ma non lo mise mai: lo dava ai pazienti… voleva accorciare le distanze”.
    Al Lolli di Imola, entrò così anche l’Art brut di Dubbefet, la teoria estetica delle opere grezze, spontanee, come quelle dei carcerati, dei bambini, degli alienati. Arte e medicina si incontrarono. Le sculture di Sartelli e i colori della sofferenza si parlarono.
    “Papà diceva che chi ha paura disegna con una precisione ossessiva, spezzetta lo spazio per difendersi” continua la signora Marzia. “Gli schizofrenici, invece, dipingono un infinito che non si sa mai dove possa andare a finire. Erano storie difficili, ma lui sorrideva sempre.

    La telefonata che non aspettavo sta per finire. Ringrazio la signora Marzia. Le dico che quella testina colata nel piombo è ancora con me. Non è diventata vecchia al posto mio, non ho venduto l’anima al diavolo e, forse, sono rimasta dalla parte del torto.

    Daniela Morandini

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