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    Giù il berretto

    Maro Trudu, condannato per sequestro di persona, ha trascorso la sua vita in carcere. A liberarlo, dopo 41 (quarantuno) anni è stata la morte. Morte ingiusta e crudele: Mario era alla fine gravemente malato e gli è stato concesso di uscire solo il tempo di qualche giorno in ospedale, per subito morire, senza poter rivedere neanche per un istante la sua casa. Perché Mario era un “ostativo”, con condanna senza spiragli perché non era stato collaboratore di giustizia. Oggi la Corte Costituzionale rileva l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. E suona ora come una beffa, se al suo contestare l’insensatezza di una pena che viola lo spirito della nostra Costituzione sempre gli si è opposto un muro invalicabile di “no”. Ho seguito gli ultimi dieci anni della vita prigioniera di Mario. Eravamo diventati amici. Dieci anni quando possibile di incontri, dieci anni, soprattutto, di lettere e lettere. Spesso erano “compiti” che mi dava, pensieri e documenti da diffondere per portare fuori la sua voce, a volte erano invettive, a volte ricordi… pagine che tutte, con scrittura di rara forza, raccontano il suo mai interrotto corpo a corpo con l’Ingiustizia. Come questa lettera, che pure inizia con un tenerissimo moto di riguardo nei miei confronti, che ancora mi commuove… “Gentilissima amica, voglio distrarti un po’ dal tuo lavoro, riposati un po’… ti racconto una storia…” . Mario era un narratore formidabile…

    Ascoltate quanto mi ha scritto Natalino Piras (scrittore che da quando ha conosciuto gli scritti di Mario, sempre li ha accompagnati col suo sguardo) quando ho condiviso con lui le pagine che leggerete…

    “Un racconto straordinario per il contesto e per la capacità di intessere il presente di una cella carceraria con le voci di memoria, quella della madre su tutte, e le digressioni sulla civiltà/inciviltà del computer, il suo fermare il tempo perché l’ingiustizia continui a prevalere. Per chi lo conosce, la cifra e il valore narrativo di Mario Trudu sono elementi ormai acquisiti, il suo linguaggio insieme diretto, graffiante, inquisitorio, alla maniera sciasciana, ma pure dentro “s’anticu affettu chi non morit mai”, quello per le cose e soprattutto per persone che una volta entrate e riconosciute amiche non vanno mai via. Un’amicizia, quella che Mario nutre per te, al suo massimo grado di rappresentabilità, senza infingimenti e senza necessità di traduzioni. Così come non hanno bisogno di traduzione i passaggi in sardo subito esplicati in un italiano tanto petroso quanto fluido: nella doppia valenza del berretto, da mettere e levare, diverso dal cappello, roba da signori. 

    Per me è sorprendente ritrovare in questa lettera di un ergastolano fine pena mai a un’amica la struttura portante del pamphlet, pubblicato postumo, “Il villaggio elettronico” di Michelangelo Pira che profetizza l’avvento di internet a partire dai “segni/sinnos” dalla società pastorale estensibili a tutto il resto del mondo, la ramificazione del locale/globale con il proprio centro di emanazione al centro.

    E pure ci vedo questo verso del premio Nobel irlandese Seamus Heaney : “Il mio corpo era alfabeto Braille”. Rende bene anche in sardo: “Su corpus meu est alfabeto Braille”. Nessuna cecità che non possa essere superata. Tranne quella dei giudici e degli inquisitori che Mario Trudu tengono in carcere, continuando a deprivarlo del bene primario della libertà”.…

    Credo sia il momento, a due anni dalla morte di Mario Trudu, di iniziare a tirarle un po’ fuori, queste sue lettere-racconti-invettive. Per onorare la nostra amicizia, la sua memoria, la sua battaglia infinita…

    leggete, liberamente scaricabile da Strade Bianche …

    http://www.stradebianchelibri.com/trudu-mario—giu-il-berretto.html

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