Bello e tremendo. Esco dalla sala con queste due parole in testa e sensazioni fortissime, che lasciano muti, dopo aver visto il film di Pippo Delbono… Bobò, la voce del silenzio. Bobò, al secolo Vincenzo Cannavacciuolo, sordo, analfabeta e microcefalo vissuto quasi mezzo secolo nel manicomio d’Aversa, che Delbono incontra nel manicomio dove era andato a far conoscere il teatro ai “matti”… Colpito dalla forza espressiva di quel piccolo uomo che del mondo aveva conosciuto solo la sua prigione, riesce a portarlo fuori, ne fa attore della sua compagnia, figura centrale nei suoi lavori teatrali come nei suoi film.
Narrato attraverso spezzoni di riprese dei loro spettacoli, dei giorni di Aversa, di quelli dei tanti palcoscenici attraversati… il film è il racconto di uno stupefacente sodalizio artistico, e non solo, durato due decenni. Perché il sentimento che unisce Bobò e l’uomo che l’ha accompagnato nella sua nuova vita, è tenerissimo e fortissimo, e sempre insieme calcano il palcoscenico del mondo.
A teatro. Bobò non parla, ma non ha bisogno di parole. Sul palcoscenico diventa ogni volta, racconta Delbono che è voce narrante, l’abito che indossa. E come un re dei mimi, è artista del silenzio. Il suo silenzio diventa arte perché, viene da pensare vedendolo, è esplosione della vita che per quasi mezzo secolo ha tenuto chiusa in sé. Ed è artista vero. Più di una volta viene da applaudire, come si dice, a scena aperta. Ma lo spettacolo va avanti, ingabbia, ammutolisce. Un film sul segreto della magia del teatro. Dove, pure, nasce un linguaggio, un mondo, anche qui, dove vivere per difendersi dal mondo.
Nella vita fuori. Vediamo Bobò correre libero nel vento, su una spiaggia, danzare a un crocevia di chissà che paese, dirigere una banda di paese… con un sorriso che strugge per quanto sapore di libertà. E ancora non c’è bisogno di parole.
“Guardami, dammi la mano, abbracciami, non mi lasciare…”, motivo che torna e ritorna, pronunciato su una panchina che… come non riandare a quella dei due amanti di Peynet… su una panchina che è luogo per difendersi dal mondo, pur restando, e in modo che è prezioso, nel mondo (come si racconta in un delizioso libretto di Beppe Sebaste. Panchine, appunto…)
Bello e tremendo. Se in ogni istante viene da pensare alla vita prigioniera che è stata. Alla vita negata che è stata quella di tante persone, che ritornano nel bianco e nero di immagini antiche. E pure viene da pensare a quanta strada da allora comunque è stata fatta.
Nella nuova vita libera, dove tutto è scoperta e stupore, Bobò balla, balla molto, balla sempre. Sorridendo balla. E non sembra esserci differenza per lui… muoversi a passo di danza nel silenzio della vita vera o nella rappresentazione a teatro, guidata dalla musica di un’orchestra o da una voce di canto… ed è tanta l’armonia dei suoi gesti, dei suoi passi. Un po’ Marcel Marceau, un po’ Totò, un po’ Barrault… ma forse è semplicemente, straordinariamente Bobò.
Mi sono chiesta. Ma Bobò è sordomuto… da dove viene la musica sulle cui note si muove, che sicuramente sente. Sicuro che la sente, non c’è dubbio, guardandolo muoversi con tempi perfetti, come pescandola, questa musica, dal più profondo profondo di sé… Mistero dell’uomo…
Sì, un film sul mistero dell’uomo, sul segreto della magia del teatro, sulla magia di una grande amicizia, che è amore. E a un certo punto viene da chiedersi (dio mio quante domande!) se è Delbono che ha insegnato a Bobò a muoversi con tanta espressività, a perfezionare la sua innata espressività, o è Bobò che ha insegnato a Delbono quelle movenze leggere, quel rimando di gesti che raccontano la vita … perché alla fine le movenze dell’uno si sovrappongono a quelle dell’altro e viene da chiedersi quanto profondo è stato il loro legame e chi è l’uno e chi è l’altro…