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    Il salotto del papà di Carlo…

    A proposito del papà di Carlo… Avete dunque letto di quando rientrava nel suo salotto dove, in ogni momento, poteva andare in scena un dramma di Ibsen? Bene, ora é proprio Carlo ad accompagnarci in quel salotto. Ecco:

    “Un suono argentino. La slitta di Babbo Natale? La bacchetta della Fata Turchina? Le lancette si sono appena mosse sulla placca color del latte. Tutt’intono il salotto resta immobile. Mi hanno fatto entrare per salutare gli zii arrivati da Milano. “Era dei miei nonni – ricorda mia madre – un regalo per le loro nozze. Si sposarono nel 1848”.
    Guardo la pastorella. È seduta sulla placca color del latte e abbraccia il suo agnellino. Le nere lancette, che dal 1848 con suono argentino segnano inesorabili le ore, le ruotano sotto le gambe pudicamente accavallate. I piedini debordano di poco dal quadrante.
    I nonni di mia madre non sono con noi in salotto. Se ne stanno incorniciati in una camera da letto. Lui si chiama Licurgo e lei Tina. Il loro sguardo è austero, perché quando si fa la foto ritratto bisogna avere contegno, molto contegno. Eppure, gli occhi sono maliziosi, perché nella foto ritratto non bisogna perdere la spregiudicatezza, quando si accetta che nel proprio salotto una bella pastora in antimonio se ne stia accovacciata sopra le lancette d’un orologio a pendolo. Ma la Romagna, si sa, ai loro tempi non era Marche. Guardo Licurgo, la sua barba fluente e il paio di baffoni “a manubrio” o, come dice mia madre, “alla Cecco Beppe”. E che Licurgo fosse antiaustriaco era un fatto risaputo, ma che fosse anche antipapale era un fatto scabroso segretamente noto in famiglia, poiché il suo latifondo si estendeva a perdita d’occhio nella pianura rigogliosa del Ravennate, colpito dall’ombra della mitria di uno Stato poliziesco dominato dal Pontefice.
    “Questi volumi sono una parte di quel che resta della biblioteca di mio nonno – spiega mia madre ai cognati di Milano. Prende dalla libreria una cinquecentina sulla storia di Venezia e poi la raccolta rilegata in pergamena della prima edizione delle commedie di Metastasio. I volumi secolari passano per le loro mani riverenziali. Quei volumi che maneggia Licurgo nella sua casa in Romagna. Di giorno amministra i suoi terreni. Di sera, accesa la lampada a petrolio, contempla e registra la sua raccolta di libri antichi.
    Non si sa dove si sia cacciata la bisnonna, forse ricama in camera sua, al primo piano della villa. Al piano terreno c’è la Tonina: lavora a servizio da loro fin dai suoi dodici anni; rassetta la cucina cantando le arie di Verdi. La sua voce svanisce quando scende le scale di pietra che vanno in cantina. Il buio inghiotte la sua candela. Lei sta portando laggiù gli avanzi della cena. Li conserva nelle gabbiette appese ai ganci del soffitto a volta, riparate da coperchi metallici perché i topi non inghiottiscano tutto. Per una banale coincidenza, nel 1848 si sono sposati anche i miei bisnonni paterni: Carlo e Virginia. Anche loro mi guardano severamente da due cornici ovali. Loro adesso se ne stanno appesi in una casa sul mare. Virginia indossa un abito nero plissettato che le soffoca il collo. Un cammeo appuntato sopra la gola le ottura il respiro. Rulli di folti capelli scolpiti le sormontano il volto arcigno e asciutto di chi d’abitudine impartisce ordini alla servitù e fa attaccare il cavallo al calesse per andare a pregare nella chiesa; quella sulla piazza principale.
    Carlo non ha la barba, ma i suoi baffi “alla manubrio” fanno concorrenza a quelli di Licurgo. Porta occhialetti ovali alla pince-nez. Lui non è latifondista in Romagna. Lui è magistrato a Macerata, non comanda contadini, ma il suo sguardo irreprensibile attesta al mondo che ha il potere per farlo. Lui lavora per lo Stato Pontificio. Non raccoglie libri antichi; lui raccoglie le sue sentenze. Alcune sono conservate da noi in casa, in cima ad un armadio a muro. Non vengono mai esibite, come invece si fa per le commedie di Metastasio. Il loro salotto è un tripudio di tendaggi, statuette di bronzo alate, vasi di cristalli colorati. Mio padre se lo ricorda bene e mi parla di quando veniva accompagnato in visita dai nonni di Macerata. Cioccolata calda in inverno, limonata fredda in estate. Ecco: in questo piccolo vasetto di bisquit la bisnonna Virginia poneva delicatissime violette di stoffa. A lui bambino sembravano vere. Ora il vasetto è qua sulla libreria, proprio davanti a Metastasio. Fa cucù un mazzolino di violette di stoffa. Il vasetto è decorato da una damina e da un cavaliere. Candidi come il latte. Non sono abbracciati. Sono lievemente inchinati in una moina rassicurante, nient’affatto spregiudicata. Nel salotto di Carlo e Virginia nessuna pastora, seppure in antimonio, avrebbe potuto starsene accovacciata con la sua pecorina sopra le lancette d’un orologio a pendolo. Quella robaccia avrebbe semmai potuto arredare un lussuoso bordello, forse a Roma dal Papa, ma non certo il salotto rispettabile d’un magistrato a Macerata. Le Marche, si sa, ai loro tempi non erano Romagna.
    “Cari bambini, ognuno di voi dica al suo compagno di banco quando è nato” ci invita amorosamente l’anziana maestra. È il primo giorno di scuola elementare. “Sono nato a settembre… nel ‘56 – dico a Luca – ho sei anni come te, ma ne ho molti, molti di più”.

    Carlo Pucci

    (immagine: bozzetto di Munch per Spettri di Ibsen

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