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    Se carcere e giustizia possono anche uccidere…

    Ho visto in questi giorni un film che non conoscevo. “Due contro la città”. Film degli anni Settanta. José Giovanni il regista. Protagonisti un anziano rieducatore, Germain (Jean Gabin), che si occupa di reinserimento di ex detenuti e un ex rapinatore, Gino (Alain Delon). Grazie anche all’attento aiuto di Germain, Gino riesce a reinserirsi nella società, la turbolenta vita passata sembra alle spalle, ma sempre è inseguito, come da un’ombra molesta, da un ispettore, una sorta di Javert contemporaneo (ricordate I Miserabili?), che diffida del suo cambiamento, convinto che il posto di Gino sia il carcere, e controlla e indaga con metodi diciamo poco ortodossi, al limite della persecuzione. Tutto precipita quando Gino sorprende il poliziotto ricattare la sua compagna, e lo uccide nella colluttazione che ne segue. Nel processo i giudici non daranno ascolto alle testimonianze a favore di Gino, a proposito della nuova vita di uomo ravveduto che stava costruendo, come ignoreranno la denuncia di Germain a proposito del comportamento dell’ispettore. Gino viene condannato a morte. Ghigliottina (la pena di morte è stata abrogata in Francia solo nel 1981, praticamente ieri).
    Il film si chiude con una sconfortante considerazione del vecchio Germain che, ripensando al suo convinto impegno di rieducatore… “Da quel giorno capii che anche la giustizia può diventare solo una macchina per uccidere…”.
    Un film, è stato detto a suo tempo da molta critica, schematico. E forse lo è… esattamente come i meccanismi, purtroppo veri, entro i quali anche noi a volte imbrigliamo la vita delle persone. Come accade quando pensiamo al carcere e a chi per un motivo o per l’altro vi è condannato e… “sicuramente” persone che lo meritano, “sicuramente” incorreggibili, “sicuramente” meglio che stiano lontani dalla parte “sana” della società. E che peste li colga!
    E così, quando nel marzo dello scorso anno in alcune carceri sono scoppiate rivolte, reazione più che altro alle confuse notizie a proposito di questa “peste” del 2000, alla mancanza di informazione, al pensiero che per via del covid sarebbero stati interrotti i colloqui con i parenti, sarebbero stati sospesi i permessi, con tutto il panico, lo smarrimento che questo ha comportato…
    Il racconto immediato, mainstream, che ne è nato ha seguito lo schema di sempre, quasi noioso nella sua prevedibilità: delinquenti, drogati… hanno approfittato della situazione, tutto organizzato dalla mafia e da gruppi anarchici (singolare alleanza!?!). E quando è “tornata la calma” e si sono contati i morti… 13 persone morte… sono state liquidate, quelle persone, come una “drammatica conseguenza”, e i morti colpevoli di essersela procurata, quella morte, con un’overdose di farmaci, erano persone drogate d’altra parte… Tutto molto semplice, molto schematico…
    Peccato, o meglio per fortuna, che i primi a farsi e fare domande sono stati il Garante nazionale delle persone private della libertà, le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti… poi sono iniziate ad arrivare le denunce… di pestaggi, di punizioni collettive “postume”, di torture…
    E ce ne sarà voluto di coraggio per presentare quelle denunce, per raccontare…
    Così, oltre a garanti e associazioni, ne hanno ampiamente parlato giornali nazionali, abbiamo sentito la voce dei testimoni in una coraggiosa puntata di Report.
    Per i pestaggi nel carcere di S.Maria capua vetere sono indagati 57 agenti penitenziari, vengono contestati loro i reati di tortura (e finalmente dopo l’approvazione della legge che ne introduce il reato possiamo anche noi pronunciare questo nome), violenza privata, abuso di autorità.
    Le procure indagano anche su quello che è accaduto a Modena, a Foggia.
    Vedremo. Magari si spezzerà anche qualche automatismo della nostra mente.
    Intanto, a leggere delle denunce, dei maltrattamenti e delle violenze su cui si indaga (e non solo di quelle in occasione delle rivolte), viene da ripercorrere all’indietro la nostra storia, seguendo un filo rosso che parte da non molto lontano.
    A questo proposito, penso a un libro di cui ho seguito la nascita, “Le Cayenne italiane” (edito da Sensibili alle Foglie), una raccolta di testimonianze curata da Pasquale De Feo (attualmente detenuto ad Oristano) sull’esperienza del 41bis nelle sezioni Agrippa di Pianosa e Fornelli dell’Asinara, nei primi anni ’90, in piena “emergenza mafia”.
    Sono testimoniate vessazioni, violenze, pestaggi. Ci furono “pentimenti”, suicidi. Un quadro che, si riporta nel libro, il magistrato di sorveglianza di Livorno, Merani, definì “non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose”. Ed espresse seri dubbi sul fatto che fosse questo un modo per contrastare credibilmente la criminalità organizzata. Ma “l’emergenza” sembra giustificare tutto. Alla fine degli anni ’90 quelle sezioni furono chiuse, e mai si è parlato davvero di quel che accadde. Ma credo bisogna andare a rileggere, perché quello che non si ricorda può sempre ripetersi. Se “l’emergenza” tutto sembra giustificare. Indecenze a noi ancora più vicine.
    Quel filo rosso che parte da Pianosa e dall’Asinara passa, ci avete pensato?, attraverso quel che venti anni fa accadde al G8 di Genova. Le inaudite violenze della caserma Bolzaneto, trasformata in un vero e proprio lager dagli agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Dunque, è difficile pensare ad azioni di “mele marce”, definizione con cui si giustificano singoli atti di violenza che qua e là pure compaiono nella vita del carcere. E per quei fatti la Corte Europea ha condannato l’Italia: fu tortura.
    Quei fatti, gravissimi nella storia della nostra democrazia, sembra siano stati troppo presto dimenticati. E rimangono, a minarne lo spirito, come cosa non metabolizzata.
    Così è ancora possibile che cose simili accadano ancora oggi, al riparo anche del buio degli “automatismi” che ci accecano. Perché interrogarsi su quel che accade nelle nostre carceri? “Sicuramente” chi è dentro se lo merita, “sicuramente” si tratta di persone incorreggibili, “sicuramente” meglio che stiano lontani e ben separati dalla parte “sana” della società. E cosa importa se il carcere, se addirittura la giustizia “puo’ diventare una macchina per uccidere”.
    E non c’è bisogno di essere manganellati o torturati. Basta semplicemente non essere considerati, o tenuti o ributtati in carcere anche se malati, come non solo in questi tempi di covid per qualcuno, sempre troppi, ancora accade…


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