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    Sono morto come un vietcong Leucemie di guerra

    Non so in quanti questa settimana, in tutto il nostro agitarsi per la nuova ondata d’epidemia, abbiamo dedicato anche solo un pensiero distratto alla morte di Marco Diana. L’ex maresciallo sardo che dopo aver combattuto in Somalia e in Kosovo, ha dovuto combattere la sua guerra personale contro una terribile malattia, ma soprattutto contro chi negava che il suo male derivasse dall’uranio impoverito. Una sigla che sa di morte, U238, la materia di cui sono fatti proiettili capaci di penetrare i thank dei teatri di guerra… e sono 400 i militari italiani morti e 7500 quelli malati per le conseguenze del loro uso… almeno questo il dato ufficiale dichiarato dal ministro della salute del governo Conte 1 …

    “E sui poligoni dove si sperimentano armi all’uranio impoverito? Nemmeno una parola per quei morti di leucemia, di linfoma, per quei bambini malformati, per i pastori uccisi in pochi mesi da patologie fulminanti, nella loro terra espropriata, ferita, militarizzata, senza neanche sapere perché”. E’ la denuncia di Marina Rachel Veca, dell’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito. Denuncia che trovo nella postfazione al libro che ho appena terminato di leggere. “Sono morto come un vietcong” di Giulia Spada, edito da ‘Sensibili alle foglie’. Sottotitolo, Leucemie di guerra. E la guerra è quella non dichiarata, e ignorata, che si combatte sul suolo sardo, che ospita il 60 per cento delle aree destinate al demanio militare italiano…
    Libro implacabile, quello di Giulia Spada, che pure sorprende scegliendo la forma del racconto. Libro implacabile e allo stesso tempo tenero e commosso… ché la voce narrante è la voce del padre dell’autrice che di quella guerra è stato vittima. Ed è voce sempre piana, quasi sommessa quella del padre, professore di scuola media di un piccolo paese del sud dell’isola, che sorge accanto a una base militare, e … “ho sempre l’impressione di entrare in una scuola da campo, di quelle di emergenza allestite nei paesi di guerra, dove che piuttosto che morire ignoranti, i bambini si metterebbero a scrivere con polvere da sparo e frammenti di bomba. (…) Ci sono poi dei ragazzi che paiono dei fantasmi come i soldati che si vedono ripresi nei reportage televisivi. Hanno il volto magro, pallido…”.
    Racconta, il professore, quello che vede scivolare intorno a lui. Paesaggi di terre arse e d’anime consunte. E poi quelle vite che vede piano piano spegnersi nell’incredulità e nella paura. A cominciare dai suoi alunni… “provo un brivido appena la mia pelle inavvertitamente sfiora i suoi capelli cortissimi; peli radi su una terra secca e arida”.
    E muoiono i padri, le madri, gli amici…“… era nera, gonfia e straziata quando la linfa si è seccata nei suoi vasi. Suo marito l’ha guardata a lungo, prima di stabilire che non l’avrebbe seppellita all’ombra della quercia in fondo al campo. Perché il suo corpo marcio avrebbe avvelenato i suoi filari. L’ha fatta cremare, come si faceva un tempo con i cadaveri delle bestie infette”…
    Volti, storie, respiri che non si possono dimenticare. Ma quale morbo avvelena la linfa della terra che vomita animali deformi, nel paese che sembra produrre morti, dove “a un certo punto il sangue della gente impazzisce nelle vene…”
    Figura carica di umanità, quella del professore, che inizia una sua personale indagine su quelle morti intorno alla base militare che pure ha aperto le porte a tutti i giovani. Che a chi si arruola promette “pane, carne, carriera, soldi”… Il sospetto è che il terreno lì intorno sia una discarica per armamenti tossici…
    Altri condividono i suoi stessi dubbi. Esiste un dossier sulle basi militari nel territorio, dove si sperimentano proiettili buoni per decimare intere popolazioni di altre terre, con dati sull’incidenza di malattie al sistema immunitario… Come in un incubo arriva la verità: nel terreno dove è sorta la sua scuola, sono stati interrati fusti di napalm. E non si rassegna, il professore, all’omertà, ai silenzi comprati, a quei medici della base che fingono stupore…
    Quello di Giulia Spada è il racconto di un’immane tragedia, pubblica e personale. Ed è tenerissimo e struggente il rapporto che traspare, pur discreto, discretissimo, fra padre e figlia.
    Ho ascoltato la voce di Giulia, durante l’incontro in cui eravamo tutti a festeggiare i trent’anni di ‘Sensibili alle foglie’. Ha parlato del suo libro e di questa terribile guerra che non si vuole vedere. Ha levato il respiro a tutti con il suo volto, le sue parole… che hanno la stessa forza garbata e intensa della sua scrittura, che mai cede alla retorica o al pianto (anche se io, devo dirvi la verità, su alcune pagine ho poi pianto). E’ la scrittura di chi conosce il dolore, ne fa arma di battaglia e il suo è un libro che tutti dovremmo leggere. Che andrebbe adottato nelle scuole. Perché è cronaca del nostro tempo cattivo.
    Perché l’area militare di cui si parla ha un nome. La terra del Poligono di Quirra, zona che, come ben ricorda nella postfazione Marilina Rachel Veca, è area militare dove in tanti, dalla Francia, dall’America, dall’Inghilterra, vanno a sperimentare le loro nuove armi, i proiettili… “Pagano, sparano e vanno via”. Ma rimangono nella terra e nel sangue della gente intorno veleni, contaminazione e morte… E che i terreni del Poligoni Interforze di Perdasdefogu siano utilizzati come discarica per armamenti tossici come il napalm non è frutto della fantasia dell’autrice di questo libro, chiarisce nella sua nota l’editore, e le denunce non sono di oggi… Tre anni fa concluse i suoi lavori la Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito. Da La nuova Sardegna: “Il quadro che emerge lascia senza fiato..(…) la fotografia di un mondo militare nel quale tutto o quasi era consentito da uno Stato assente o che preferiva guardare dall’altra parte. Un esempio: la distruzione di materiale bellico a Quirra, in un poligono che per legge doveva essere destinato all’addestramento, e che invece negli anni è diventato la discarica di materiale bellico pericoloso e inquinante…”
    E non è stato facile ricostruire, fra omissioni e silenzi…
    Gli affari sono il nostro dio, che si nutre anche di morte. E il business dell’industria bellica sembra affare irrinunciabile…
    Così, anche dalle nostre parti, si continua ad ammalarsi e a morire come se si fosse in guerra. Una guerra ‘a bassa intensità’, che rimane, acquisita, ma a cui guardiamo, se la guardiamo, come non ci appartenesse, come riguardasse gente lontana come i vietcong, questa guerra invece così vicina, che uccide chi la guerra non l’ha mai fatta…
    Sono morto come un vietcong. Il professore, il padre di Giulia, si ammala di leucemia, e muore. “Le lascio in dote un’ombra in mezzo al cuore: che sgorghi dalla sua pelle, dal sorriso dagli occhi, dalla parola e dal passo tutto, che si muore di guerra pur non avendo mai indossato una mimetica. Muoio come un vietcong, mangiucchiato dall’uranio, palla di liquidi in eccesso”…
    Quell’ombra in mezzo al cuore Giulia continua e continuerà a farla sgorgare dalla sua pelle, dagli occhi… per dirci che non possiamo fare finta di non vedere, di non sapere che qui, nelle nostre terre, si può diventare orfani, vedove… si può morire, di guerra…

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