Remando all’incontrario, per noi che siamo abituati ad andare avanti in fretta e appena appena soffermarci sulle cose, che già tutto ci è alle spalle… Vi invito a fermarvi, voltarvi un attimo indietro al tempo appena passato. Perché certo, abbiamo appena celebrato la rinascita, e tirato un sospiro di sollievo dopo i giorni della passione, per questo Cristo infine risorto, volato verso verdi pascoli… Ma c’è chi nel dolore rimane.
No, nessuna resurrezione cancella il dolore delle madri. E mi riporta e inchioda a quell’altra metà della settimana di passione (ed è dolore che mai passa) un singolarissimo, densissimo, Stabat Mater. Cortometraggio prodotto dall’associazione Teatrale Electra, con la regia di Giuseppe Tesi, realizzato nella casa circondariale di Pistoia. Dove la passione di Cristo rivive con i suoi detenuti, affiancati da due qui splendidi attori professionisti, Melania Giglio e Giuseppe Sartori. Passione liberamente interpretata e ispirata al dramma poetico di Grazia Frisina, Stabat Mater, appunto…
Di lui non ero madre, io non sono mai stata madre, ma ho visto le sue piaghe, la sua carne viva sofferente, squarciata sull’altare, il suo corpo offeso, sputato. Lo guardavo con compassione, come fossi stata io quella che l’aveva messo al mondo. Io, nonostante il mio utero cavo…
Ed eccola lì, al centro di tutto, Madre dolorosa. Vestita di veli neri, che entra correndo attraverso i corridoi, e la veste e il manto si gonfiano in rivoli bui… “Chi potrà guardarla senza sentirsi sprofondare?”. E la domanda ti percorre come un brivido, insieme ad altro interrogativo: come si può mai sopravvivere a tanto dolore? Pensando a madri di guerre e violenze pubbliche e private a noi contemporanee, che non conoscono resurrezioni.
Ma tutto è pronto per lo spettacolo…
Presto accorrete! Presto sul baraccone del Golgota / ecco il suo trionfo /lo spettacolo è servito…
Scennite affacciatevi , facite ‘mpresso Venite venite, muviteve signori, o’ pazzò o’ Cristò è arrivato
Gesù o’ pazzò.
L’evento del secolo in un’unica serata… Avanti gente: tre biglietti al prezzo di due e per i nani gli zoppi, gli imbecilli gratis l’ingresso…
Non stupisce, sul palcoscenico di un carcere, l’eco napoletano, che si intreccia con le altre voci. Ma tutti, o quasi, sono accenti del sud del mondo, in queste nostre prigioni che sempre sono un sud, ovunque si trovino. E non c’è sfondo migliore di ombre di corridoi sbarrati, del grigio di recinti di mura e matasse di filo spinato, per suggerire il percorso di destini già scritti.
Se Grazia Frisina ha dato voce nel suo ardito Stabat Mater al silenzio di Maria, Giuseppe Tesi col suo film dà voce al silenzio dei detenuti. E il silenzio e le voci dell’una e degli altri qui mirabilmente si intrecciano…
“Si sentono rumori di stoviglie, di oggetti, di ferro, e questo mi ricorda che sono in un carcere”.
“Sto pagando… anche se la mia vera punizione non è il carcere, ma rimanere senza fare niente… io che sono uno attivo… qui dove non mi è possibile pensare a un futuro, costruirlo, crescere…”.
“Sono caduto molte volte. Purtroppo ho avuto lutti molto gravi, ho perso la prima compagna, un bambino ancora piccolo…”
Noi giaciamo negli abissi marini, in queste stanze spiate…
“e ho iniziato ad apprezzare la gente che lascia tutto fuori per venire per qualche ora a incontrare noi …”
“Ecco guardate, hanno ucciso la madre e il figlio… Cristo il segno della ribellione, Maria il sigillo dell’obbedienza, a lui il tradimento e l’infamia, a lei l’incoronazione del dolore… uno stupro di tutta se stessa”
Ritorna il brivido della domanda: come si può mai sopravvivere a tanto dolore?
Dunque, è morto…
In una delle poche scene girate fuori dal carcere, Maria trascina il corpo del figlio fra le dune di una spiaggia, e con pugni di terra ne ricopre le membra. Immediato è il richiamo al gesto di Antigone che ricopre di terra il corpo di Polinice. Sorella che è sentimento di Madre, e l’una sfuma nell’altra… E madri e sorelle, tante, ho visto anch’io sul confine delle carceri, a riempire i luoghi dell’attesa per un colloquio, per uno sguardo, per l’illusione del dono di briciole di tempo… e sono sorelle-madri, a tenere vivo il filo della comunicazione fra la vita morta del dentro con quella per quanto possibile rimasta viva che è fuori. Ma “il balsamo dei baci” delle une come quello delle altre “non si fa salvezza”…
A chi gioverà tutta la fiera di questo strazio?
E torna la Madre, nella posa e nel gesto di tante madonne addolorate delle nostre chiese, in una scena che molto emoziona. Perché davanti a questa madonna che è corpo dolorante e vivo, inizia una danza, al ritmo dei singulti di una vecchia canzone napoletana (ancora eco e sentimento del sud): “Indifferentemente”…
“Famme chello che vuo’/ Indifferentemente/ Tanto ‘o ssaccio che só’/ Pe’ te nun só’ cchiù niente/
E damme stu veleno/ Nun aspettá dimane/ Ca, indifferentemente/ Si tu mm’accide nun te dico niente…”
Poche cose, devo dire, sento richiamo alla vita come un gruppo di uomini che dal profondo delle viscere fa nascere il ballo. Indifferentemente… In attesa che la vita risorga, davvero, per tutti. Ma intanto, sempre Stabat Mater, la “reine du monde” che forse tanto onore non chiedeva.
Un cortometraggio densissimo, questo Stabat Mater, di richiami e citazioni e simboli… 30 minuti che non basta vederli una volta, per trattenerli tutti…
Bello, questo lavoro dove linguaggio della poesia e linguaggio del cinema cantano all’unisono e diventano, anche, percorso formativo e di crescita per un futuro di integrazione. Nonostante tutto, nonostante la prigione che il virus dei nostri giorni ci ha costruito intorno e, anche lì, ha rallentato e complicato i tempi e i modi della lavorazione del film. Potete immaginare… Ma nessuno si ferma. “Stabat Mater” verrà proiettato appena possibile a Pistoia, dove è stato prodotto. Per poi viaggiare per l’Italia, DPCM permettendo…
Per ora, il regalo di questo assaggio… https://www.facebook.com/watch/?v=2796826830532090