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    Una via d’uscita

    Leggendo nell’ultimo numero di Voci di Dentro l’articolo di Claudio de Matteo a proposito dell’esperienza delle carceri gestite dalle Apac in Brasile, le carceri della speranza, celle “chiavi in mano”… viene in mente un’altra bella esperienza che sempre questione di “contenzioni” riguarda e ancora nasce nello stato di Minas Gerais, ed è avventura davvero rivoluzionaria.
    Riguarda le persone con malattie mentali che abbiano commesso reato. Persone che fino a pochi anni fa ancora dalle nostre parti finivano nell’orrore degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Pazzi e criminali allo stesso tempo, “troppo pazzi per stare in un carcere, troppo criminali per un manicomio civile”, come scrive Antigone nel suo ultimo rapporto sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Le Rems che agli Opg sono subentrate, “istituzioni totali diverse nel nome, ma del tutto assimilabili sul piano ontologico”, ancora Antigone, che pur sottolinea le novità su cui fare leva per insistere su buone pratiche che, tanto per cominciare, aprono al dialogo costruttivo tra servizi della salute mentale e magistratura.
    Ma i confini fra intervento sanitario e di ordine pubblico sono piuttosto labili. Mentre rimane un nodo, grosso come un macigno, che è tutto lì, nella norma che inchioda il malato di mente che abbia commesso reato alla irresponsabilità penale. A guardarla bene, una sorta di maledizione, questa irresponsabilità penale, perché produce una pericolosità da cui nessuna pena ti potrà mondare, essendo irresponsabile, e quindi pericoloso per sempre, per sempre imprigionato, Opg o Rems o quel che sia…
    Lo hanno capito bene a Belo Horizonte, dove nel 2001 è stato avviato l’interessantissimo esperimento cui accennavo all’inizio, e che indica una via d’uscita da questa trappola.
    La via d’uscita si chiama “Programma d’attenzione integrale” al paziente giudiziario. Virgilio De Mattos, giurista, docente di criminologia e scienze politiche a Belo Horizonte, ce lo spiega in un libro che, tradotto in Italia nel 2012, ha offerto un contributo importante al dibattito sulle strategie per superare gli OPG, ma che molto anche oggi può insegnare. “Una via d’uscita” è appunto il titolo del libro (pubblicato nella collana 180 archivio critico della salute mentale, edito da AlphaBeta Verlag).
    Parole sempre attuali quelle di De Mattos: “Il presente è ancora segregazione: se la psichiatria cammina verso la deistituzionalizzazione, il diritto penale va, al contrario, verso la istituzionalizzazione”.
    La via d’uscita è “restituire alla persona la responsabilità, quindi l’essere una persona”.
    Senza questo, De Mattos ne è convinto, non è possibile andare da nessuna parte. Perché la pericolosità diventa una malattia senza cura e, continuando a negare attenzione alle persone, nella lunga storia della scomparsa del soggetto nel silenzio, violenza non può che aggiungersi a violenza…
    “Il programma d’attenzione integrale” prevede l’intervento congiunto di avvocati, psicologi, psichiatri, assistenti sociali… che si occupano della responsabilizzazione dei pazienti psichiatrici che hanno commesso un reato. Quindi un intervento che si muove su tre piani, giuridico, clinico, sociale, e che presuppone un’attiva collaborazione fra magistratura e servizio di salute pubblica.
    All’esperimento ha partecipato anche Ernesto Venturini, psichiatra, collaboratore a suo tempo di Basaglia, esperto in psichiatria forense, che in qualità d’esperto dell’OMS ha accompagnato il processo di riforma psichiatrica in Brasile dal 1991.
    Anche lui convinto che perché ci sia una via d’uscita tutto deve girare intorno al concetto di responsabilità, “…cosa che sta alla base anche delle critiche che vengono fatte sul concetto di non imputabilità del paziente psichiatrico pensato come un elemento di “garanzia” per una persona che ha una limitata capacità d’intendere, quindi ha bisogno di un luogo specifico, di misure di sicurezza, in vista di un automatismo fra pericolosità sociale e malattia di mente”.
    “Se mi sancite matto tale da essere internato senza limiti di tempo in una struttura così violenta, come potete pensare di guarirmi…” si riferisce, Venturini, alla violenza degli Opg. Ma chiusi questi, il nodo di fondo rimane lo stesso.
    Il concetto di imputabilità è dunque la premessa per considerare la capacità di recupero della persona. Imbrigliati nella nostra cultura che vuole il pazzo irresponsabile e pericoloso, facciamo quasi fatica a organizzare il pensiero intorno a questa idea. Eppure, quel che è accaduto a Belo Horizonte dovrebbe iniziare a scalfire le nostre sedimentate comode “certezze”.
    Fra l’altro alcuni studi condotti sul “Programma d’attenzione integrale” hanno dimostrato che fra la follia e l’atto violento non c’è il nulla. Spesso ci sono segnali che le persone manifestano prima di compiere reati. E quindi, smentendo l’idea che il folle agisca all’improvviso e senza motivo, è possibile pensare anche alla prevenzione.
    Testimonia Venturini: “La cosa che colpisce è che pazienti dicono a un certo punto ‘io ho capito le ragioni del mio atto. Questo mi dà una capacità di controllo e io potrò, dopo alcuni anni in cui dovrò doverosamente scontare una pena, ritornare alla mia città, alla mia famiglia. Riabilitato’”.
    “E’ impressionante vedere come questa cosa viene affermata dai pazienti come riconoscimento della propria dignità, e con consapevolezza. Mentre quando si è “irresponsabili” anche quel diritto minimo, che viene riconosciuto a chiunque, non viene garantito, ed è paradossale che le persone che hanno necessità di più garanzia sono quelle che hanno meno garanzia”.
    I primi dieci anni di attuazione del “Programma d’attenzione integrale” al paziente psichiatrico, parlano di una recidiva bassissima, solo il 2% delle persone torna a delinquere…
    La via d’uscita, quindi, “considerare il malato soggetto di diritti e non oggetto della paura sociale”.
    La via d’uscita, quindi, risolvere le contraddizioni legislative, modificare il dogma immodificabile del codice penale, che ancora inchioda “il folle” all’irresponsabilità penale e alla pericolosità sociale, restituendogli le chiavi della propria vita…
    E magari, iniziando da lì, chissà che un giorno non si possa iniziare a ripensare quell’altra “bizzarria” delle persone “internate”, prevista per persone pur imputabili, tanto che la pena per i reati commessi l’hanno scontata, che non sono “detenuti” ma di fatto lo sono per via delle misure di sicurezza legate all’idea della “pericolosità sociale”. Persone “recluse” in case lavoro o colonie agricole. Inquietante retaggio del codice Rocco che ancora ci teniamo ben stretto… E pure capita, come denunciano recenti fatti di cronaca, che in attesa della disponibilità di un posto nei luoghi deputati, rimanga ancora il carcere…
    Sogni? Forse. Ma non muore quell’idea di Basaglia, il cui pensiero tanto ha influenzato l’esperienza brasiliana, di considerare possibile l’impossibile. Quel che “oggi” ci sembra impossibile…

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