More

    A Glimpse of Roma … dall’altra riva…

    Ancora da uno sguardo di Eyal Baruk , il quadro che ha ispirato il racconto che segue…

    La prima volta la vidi comparire che ancora la primavera non era arrivata. E avrebbe tardato più del previsto. Nonostante, se non mi sbaglio, fosse già la fine di marzo. Una primavera stizzosa, lo scorso anno. Persino con punte di gelo. A tormentare le mie povere ossa gonfie d’umido. Con troppe giornate piene di pioggia. A ingigantire la voce del fiume, che continuamente continuamente borbotta parole per non lasciarmi tregua.

    Lei prese a venire tutti i giorni. Scendeva lungo la scala che veniva giù dal ponte, faceva poche decine di passi e poi si fermava all’altezza del punto in cui l’acqua del fiume urla più forte, fa un breve salto, e poi riprende a scorrere piana dopo essersi arruffata in una striscia schiumosa. (foto di Eyal Baruk)

    Mi era piaciuto da subito il modo esitante con il quale lei metteva un piede davanti l’altro, quasi a tastare la consistenza del terreno prima di poggiarvisi definitivamente. Il fare libero e leggero dei suoi gesti. Il nodo dei capelli neri che s’intuivano lunghissimi.

    Si fermava esattamente di fronte alla fetta d’argine che è la mia casa, oltre l’acqua, sulla riva opposta. Ma se pure qualche volta ha guardato nel mucchio di carta e stracci che mi circondano, i suoi occhi credo non mi abbiano mai visto. Non so se di questo mi sentissi più mortificato o, almeno all’inizio, contento.

    Poi un giorno comparì che non era più sola.

    Più tardi del solito. Era un primo pomeriggio. Ma questo non potrei giurarlo. Forse era solo tarda mattinata. Era insomma uno di quei giorni in cui le ore scorrono lentissime, tanto lente da sembrare a tratti ferme. Succede, quando non si sa esattamente dove condurle tutte le ore che hai davanti prima che sia di nuovo notte.

    Vidi prima lei. Camminare a passi veloci e allegri. Si stringeva dentro qualcosa come un lungo impermeabile chiaro. Le falde le saltellavano dietro scomposte. Confuse, fra la corsa di lei e i soffi del vento che saliva dall’acqua. Dopo comparve lui, gradino dopo gradino, lungo le scale che scendevano dal ponte. La guardava a distanza. Con aria compunta ma in qualche modo già compiaciuta. La guardava, pensai, come già sua. La cosa mi irritò.

    Poi lui affrettò il passo. Quando quasi l’aveva raggiunta allungò il braccio per poggiarlo, mi sembrò, sulle sue spalle. Lei si scostò allungandosi in avanti con aria giocosa. Bene, brava, dissi. Anche se lei non poteva sentirmi. Il fiume, fra di noi, inghiottiva le mie parole.

    Lui si ritirò un po’ goffo. Poi, quasi facendosi coraggio, di nuovo l’affiancò. Ma tenne le mani a freno, infilate dentro le tasche della giacca.

    Si fermarono sul limite dell’argine.

    Cominciai a fremere, ma non potevo far nulla. Mi limitai a controllare che lui non prendesse iniziative di troppo.

    Devo dire che quel giorno andò tutto molto tranquillamente.

    Restarono in piedi a guardare l’acqua e a parlottare con fare educato. Lui un po’ curvo verso di lei, ma senza mai osare sfiorarla. La ragazza con aria sempre piuttosto allegra, che a volte sembrava giocare, a momenti diventava seria, a volte si scherniva.

    Anche se il rumore del fiume mi impediva di udirle, non era difficile  immaginare quante stupide banalità le stesse dicendo. Quante altre ne avrebbe dette ancora, finché lei avrebbe finto di credergli e cedere.

    La nota acuta di una risata rimbalzò sull’acqua e mi raggiunse. Rabbrividii di nostalgia. Chiusi gli occhi.

    Li riaprii. Vidi lei che guardò l’orologio.

    Se ne andarono. Rimase solo la voce prepotente del fiume.

    Ancora la vidi tornare con lui. Il giorno dopo, il giorno dopo ancora, e quello ancora dopo.

    Lei indossava lo stesso impermeabile chiaro e teneva sempre i capelli raccolti in un nodo dietro la nuca. Scendevano dal ponte lentamente lungo i gradini. Sempre lei lo precedeva almeno di un passo. Sembravano parlare del più e del meno e lui era meno cerimonioso del primo giorno. Quasi avesse acquistato già una certa confidenza. Nello spazio di così poco tempo. La cosa mi metteva addosso un’agitazione insopportabile.

    Lui tentava sempre di spingersi un po’ più avanti lungo l’argine, ma lei ogni volta si fermava decisa davanti al salto del fiume. Esattamente di fronte al mio sguardo.

    Devo dire che dopo qualche giorno mi tranquillizzai. Lui non l’aveva ancora baciata, e forse, comincio a convincermene, non l’avrebbe baciata mai. Quella sera mi addormentai contento. Nonostante dalla mattina il dolore alle gambe non mi avesse lasciato un attimo. Anche se l’acqua del fiume saltando continuava a comporre stupide parole.

    ‘povero illuso…povero illuso…è già sua…è già solo sua…e tu sei un povero vecchio…matto e malato…matto e malato…

    Stupido fiume. Non poteva capire. Mi addormentai con la sensazione di uno sguardo allegro poggiato su di me.

    Il giorno dopo mi svegliai con il cuore leggero. Mi sedetti tranquillo con le spalle accostate al muro guardando l’argine opposto, fisso sul punto dove li avrei rivisti comparire. Attesi tutta la mattina, che durò un’eternità. Durò tante ore quante ne erano necessarie perché facesse di nuovo sera. Il fiume già si burlava di me e loro non arrivarono. Non li vidi neanche il giorno seguente. Soffrii le pene dell’inferno. La voce del fiume era diventata un susseguirsi di sberleffi insopportabili.

    I miei dolori si moltiplicarono. Per svegliarmi prima dell’alba e tenermi inchiodato fisso al mio posto. Tutto il tempo a guardare nient’altro che la striscia schiumosa dove l’acqua capitombola nell’acqua. Fischiandomi crudele nelle orecchie.

    …immagini dove saranno mai finiti? dove l’avrà convinta ad andare? lontano dagli sguardi curiosi… dove è forse già successo l’irreparabile…che ne dici…?che ne dici…? Che ne dici…?

    Maledetto fiume. Avrei voluto zittirlo una volta per tutte. Così mi avrebbe fatto impazzire. Ma non volli dargliela vinta. Non mi arresi, e il tempo mi diede ragione. La vidi ricomparire. Purtroppo rividi subito anche lui.

    Lei indossava lo stesso impermeabile chiaro. Il cielo era completamente coperto di nuvole. Rombò un tuono. Avrebbe piovuto.

    L’acqua fa male. Inzuppa i vestiti e non è facile asciugarsi, quando poi ci si mette anche l’aria che non vuole saperne di scaldarsi. Perché non andavano via? Non sentivano i miei rauchi colpi di tosse? Possibile che il rumore del fiume li ingoiasse completamente? Eppure nel mio petto rimbombavano fino ad arrivare a squassarmi i timpani.

    Cominciò a piovere e come temevo lui la accolse sotto un largo ombrello nero. Lei aveva l’aria meno frizzante del solito. Intimorita, quasi.

    Lui parlava pacato. Lei assentiva spesso.

    Si fermarono nel punto di sempre. Restarono a lungo a guardare l’acqua che cadeva nell’acqua. Vedevo che lui muoveva le labbra, ma lei sembrava assentire senza parlare. Stordita, suppongo, dalla voce del fiume che ingrossava.

    Mi inzuppai tutto per controllare bene che lui non le si stringesse troppo vicino. L’ombrello era ampio, ma non abbastanza. Le si sciolse il nodo dei capelli e prima che lei li potesse di nuovo raccogliere dietro la nuca lui ne sfiorò una ciocca. Mi salì il sangue alla testa.

    Ero già molto stanco quel giorno. Avevo passato l’intera notte senza chiudere occhio. Come sempre quando il cielo minaccia tempesta. Devo stare attento che il fiume non si gonfi fino a raggiungermi e portarmi via. Una volta l’ho sentito minacciarmi che l’avrebbe fatto. Appena mi fossi distratto.

    Ho abbassato le palpebre e devo essermi assopito, perché quando ho riaperto gli occhi aveva smesso di piovere e sull’altra riva non c’era più nessuno.

    Ricordo che mi riaddormentai, profondamente questa volta, e la sognai. A dire la verità credo che sognai piuttosto i suoi capelli neri. Lunghi fino a toccarle i fianchi. Lei mi volgeva le spalle e scuoteva lentamente il capo muovendo da destra a sinistra, da sinistra a destra la sua lunga chioma setosa. Che mi attirava terribilmente. Non desideravo altro che affondarvi le mani. Ricordo che provai a resistere perché, anche se si trattava solo di un sogno, sapevo che non è cosa educata toccare i capelli di una donna di cui non si conosce il nome. Ma qualcosa nello stesso tempo mi diceva ‘non essere stupido, possibile? non la riconosci? non ricordi più i suoi capelli? del colore che hai sempre preferito. avvicinati, sentili al tatto. sono proprio quelli di lei, non capisci…’. Mi avvicinai dunque, e affondai le mani nei suoi capelli. Così vi rimasi aggrappato e dormii moltissimo, fino al giorno seguente, perché avevo paura che, svegliandomi, lei mi sarebbe scivolata via dalle dita e l’avrei persa nell’acqua.

    Ma poi dovetti pure svegliarmi e fu un giorno terribile. Aspettai inutilmente. Così come pure il giorno che seguì e l’altro ancora. Non so quanto durò quella nuova assenza, ma a me sembrò infinita. Insopportabile. Il fiume non aveva smesso un attimo di sghignazzare forte alle mie spalle.

    Poi lei tornò. Ancora con lui. Maledizione. In una giornata all’improvviso calda. Maggio era scoppiato di sole. Un sole crudele. Lei indossava degli ampi pantaloni bianchi che vedevo alitare leggeri intorno alle sue gambe. Lui aveva dimenticato ogni forma di riguardo. Indossava una maglietta chiara, dei pantaloni dall’aria scanzonata con i bordi arrotolati sulle caviglie, quasi come per una gita in campagna. E le camminava un passo avanti.

    Arrivarono davanti al salto dell’acqua. Si affacciarono sul limite dell’argine. Lui si sedette, lei si sedette accanto. Mi sembrava non pronunciassero parole. Come tutto fosse già stato detto.

    Il salto dell’acqua frusciava potente, ma non bastava a coprire la quiete di tutto quel loro silenzio.

    Restarono a fissare l’acqua a lungo. Come se volessero regalare al fiume tutte le parole che non sarebbe più stato necessario pronunciare. Mi piombò addosso una tristezza infinita.

    Mi sentii definitivamente solo quando vidi che nello stesso istante in cui lui alzava lo sguardo sui fianchi di lei, lei allungava il braccio per poggiare la mano sulla gamba di lui.

    Fra me e loro il fiume saltava ridendo, ridendo, ridendo.

     

    Non li ho più rivisti, ma per molte notti mi è ricomparsa e mi ricompare ancora davanti agli occhi l’immagine di lei ferma nell’attimo in cui sfiora la gamba di lui, seduta con lui sull’argine del fiume, esattamente nel punto del salto dell’acqua. Che in quell’attimo trattiene muta il respiro.

    In un’istantanea. Che li ferma, lei lui il salto dell’acqua, insieme per sempre.

    Ma non ne provo dolore. Oh, so bene che la realtà è tutta un’altra storia. So bene anch’io che tutte le storie finiscono, prima o poi. Che tutto prima o poi finisce.

    Sto ancora aspettando che torni. Lei da sola. A guardare il salto dell’acqua, lasciarsi stordire dal rumore del fiume e poi sollevare lo sguardo su di me.

    Ma anche oggi non vedo nessuno arrivare sull’argine di fronte.

    Fra me e il vuoto nient’altro che il chiasso impudente dell’acqua che scorre.

     

     

     


    Ultimi Articoli

    #180benecomune

    Olympe, dunque…

    Censure…

    Il carcere, una casa morta…

    Archivio

    Tag

    Articolo precedente
    Articolo successivo