E così lunedì mattina, al Teatro Vittoria, nel quartiere romano di Testaccio, ho assistito allo spettacolo. Olympe. Lo avevamo annunciato (http://www.laltrariva.net/le-donne-del-muro-alto-4/ ) , il nuovo spettacolo de Le Donne del Muro Alto, la compagnia teatrale messa in piedi da Francesca Tricarico con le attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione. Il mese scorso tornate in carcere, per presentare anche lì, da persone libere, il loro spettacolo.
Ora davanti a una platea di cinquecento ragazzi, studenti delle scuole romane. Al termine di un percorso fatto di incontri e confronti proprio con loro…
Solo pochi appunti, per registrare intanto l’entusiasmo di un’inconsueta platea di giovani, che ha saputo ben seguire e abbracciare d’attenzione le attrici, lì sul palco a parlare di prigionia, diritti e libertà… A far rivivere il sogno di Olympe, Olympe de Gouges, intellettuale, drammaturga e attivista impegnata nella difesa dei diritti civili nell’epoca della Rivoluzione francese che ha pagato con la vita il suo impegno politico.
Sarebbe da riascoltare e leggere tutto il testo dello spettacolo, tratto dal romanzo La donna che visse per un sogno di Maria Rosa Cutrufelli, così ricco di verità e d’emozioni, che le attrici hanno fatto palpitare della loro vita vera, come solo chi il carcere l’ha davvero vissuto credo possa fare. E c’è voluto molto coraggio a rientrare, sia pure solo nella finzione dello spettacolo, nel tempo della prigionia.
Ma voglio sottolineare brevemente almeno due passaggi.
Il racconto quanto mai ficcante del tempo morto del carcere, che è, oggi, come allora, ancora lo stesso. Un tempo circolare chiuso su se stesso, un tempo buio… sullo sfondo nero di una scena vuota di cose, che è anche la solitudine di chi è, isolata, nella cella accanto…
“Ho fame”… ripete a tratti una delle donne prigioniere. La fame.. qui metafora di fame di vita… Una fame immensa, che è bocca spalancata ad ingoiare il vuoto…
Perché il carcere questo è.
E poi il momento in cui, in un sussulto, una delle prigioniere rivendica il suo diritto a immaginare la libertà. Di non voler perdere questa capacità d’immaginazione, che è vita. Nel carcere più che mai.
E ho pensato a Mario Trudu, l’eterno ergastolano che ho inseguito per qualche lustro di carcere in carcere: quarant’anni di prigionia ininterrotta e poi una morte cattiva e ingiusta… Quando gli chiedevo come si fa a resistere tanto tempo in un carcere, mi spiegava che lui era come scisso in due persone: quella che viveva la vita morta del carcere, e quella che costantemente immaginava di vivere fuori, ricordando e rivivendo, fin nei più piccoli dettagli, la vita libera sulle sue montagne. Lui che era pastore…
Sì, sarebbe da riascoltare e leggere tutto il testo dello spettacolo, con quello struggente, bellissimo inno alla libertà di pensiero, che Olympe fa rivendicando le lotte di tutta la sua vita, prima di essere portata a morire.
E guardare e seguire l’onda dei ragazzi, i loro applausi spontanei, il loro “tifo” sussultante, vi assicuro, è stato uno spettacolo nello spettacolo..
Riprendo un post di Francesca di fine marzo: “Il teatro è lo strumento politico più potente che io conosca, politico poiché al servizio della polis, della comunità, di tutti noi! E Mai come in questo momento ho sentito la responsabilità verso i più giovani, che ereditano un presente davvero complesso, ed è per questo che oggi nella giornata mondiale del teatro, e nazionale del teatro in carcere, voglio dire grazie a chi ci sta permettendo di portare questo prezioso strumento ai ragazzi di età, luoghi e contesti differenti! grazie a chi con noi dietro le quinte lavora affinché sia possibile”.
Ed è stato ben possibile.
Ne riparleremo…