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    Amazzonia. Io mi fermo qui. Forse…

    amazzonia cop“Accompagnata da un tuono, sbucò tra gli alberi una nuvola nera e ne venne giù una pioggia fitta che dopo dieci minuti cessò, lasciando il cielo terso e il magnifico spettacolo di due arcobaleni sovrapposti”. Cartolina ben invitante, che quasi quasi… l’Amazzonia perché no… azzardo un pensiero vagabondo, man mano che sfoglio le pagine del libro che ho tra le mani: “Amazzonia. Io mi fermo qui”.
    Pensiero che subito si paralizza sulla pagina seguente: “Nella sabbia trovammo l’impronta di un piede umano e questo ci mise in allarme. Forma e dimensioni, secondo Walter e Hector, erano di un Aucas, perché hanno piedi di forma particolare, che sia allargano a dismisura nella parte anteriore. Preparammo un piano di difesa. Tendemmo qua e là delle funi d’inciampo e durante la notte avremmo vegliato a turno”. E non vedi l’ora di capire come è trascorsa la notte, e cosa accadrà il giorno dopo. Un racconto che non si fa lasciare…
    Quando ho realizzato che Amazzonia (sottotitolo: viaggio in solitaria fra i popoli invisibili. Edito da Zona) è firmato da Pietruccio Montalbetti, lo storico chitarrista dei Dik Dik, sono andata subito a cercare un suo sito, la sua pagina facebook, così, per capire… come mai si fosse spinto così lontano e in viaggi così ardimentosi uno che giurava che “la mia libertà io non la voglio più… si io mi fermo qui, qui dove vivi tu…”, e con lui a suo tempo tutti l’abbiamo giurato.
    Trovo la risposta: “Amo la natura in tutti i suoi aspetti e il mondo animale senza distinzione. I popoli primitivi mi incuriosiscono, perché vedo in loro alcuni aspetti naturali che la nostra civiltà “moderna” ha dimenticato, per questo quando posso e gli impegni musicali me lo permettono, intraprendo dei lunghi viaggi in zone selvagge del nostro pianeta con uno spirito antropologico”. Così scopro che il sogno di fare l’esploratore Montalbetti l’aveva fin da piccolo. Che non è sogno raro, soprattutto per i maschietti, quando appena appena ci si affaccia alla vita. Ma mantenere quel sogno vivo e realizzarlo, nel corso di una vita zeppa zeppa di impegni, e successi, in tutt’altro campo, non è da tutti.
    E se vi piacciono le avventure, e avete anche voi un pizzico di spirito antropologico, questo libro fa per voi. Anche solo per sognarla, un’avventura in Amazzonia. Il diario, che è un po’ racconto, un po’ romanzo, un po’ documento… di uno straordinario viaggio fra Ecuador e Perù, che dell’Amazzonia non sono certo le zone più “facili” da percorrere ed esplorare. Un viaggio in solitaria fra i popoli invisibili, in luoghi non a tutti accessibili…
    Il racconto è dettagliato. Un attento diario di bordo, che tutto registra, dal primo momento (brevissimo) di spaesamento e poi via via ogni attimo dell’avventura, tra rischi d’ogni genere ed emozioni enormi, attraversando foreste, corsi d’acqua da percorrere in canoa, fra insetti d’ogni tipo e animali della giungla, fiumi, rapide, acqua color terra che ribolle… Attraversando piccoli centri e villaggi, chiusi fra fiumi e vegetazione impenetrabile, facendo sosta su spiagge all’ombra di mangrovie, o in capanne di villaggi nascosti… El Coca, Rio Cononaco, il Titicaca, Machu Picchu. Incontrando infine i “popoli invisibili”, la gente che resiste, gli indios che ancora vivono del solo rapporto con la natura, quella natura che noi bracchiamo, e di cui con distrazione ascoltiamo, di tanto intanto, notizie di morte… gli Aucas, una delle tribù più remote al mondo che, leggo, si credeva estinta e che non conosce la civiltà occidentale, la tribù dei Jivaro che sono tagliatori di teste… e qualcuno che ai bordi della laguna sembra si sia perso, ma è invece lì, con “modi gentili e l’aria da intellettuale”, a vivere da solo, coltivando caffè banane e yuca, su un pezzo di terra recuperato dalla selva… di tutti ascoltarne le storie, fra crudeltà e dolcezze, di linguaggi che non conosciamo…
    Leggendo leggendo, fra attrazione, curiosità e timori, sono infiniti i luoghi e i nomi che qui si incontrano. Tutti a comporre una grande avventura, che invita ad andare…
    Ma sia chiaro, se avventura deve essere, lasciate a casa quel cordone ombelicale con la folla del nostro mondo che è ormai il cellulare, perché il Dik Dik ha viaggiato senza. E già questo basta a dare un senso di libertà da paura…
    E certo ti assalgono domande: ma io ce la farei? Non è che il gabbiano che si nasconde in me alla sola idea ha già le ali paralizzate nel panico? Come si fa a non aver paura…
    Due risposte, che sono anche chiavi di lettura del testo, le trovo all’inizio del libro.
    In esergo la prima: “Di solito pensiamo che le persone coraggiose non hanno alcun timore. Ma la realtà è che hanno un rapporto intenso con la paura”. Firmato Dilgo Khyentse Rinpoche, maestro di Buddismo tibetano.
    La seconda è la dedica alla moglie, Giuliana detta Picci, “che sopporta con amore e pazienza le mie partenze e i miei ritorni”.
    I ritorni, appunto. Perché rimane, assicura Montalbetti, il piacere di tornare a casa (e questo ce lo fa sentire a noi zingari stanziali più vicino). Perché in Amazzonia, come in nessun altro paese dove è stato, lui alla fine non si è fermato. Ma come sempre ha portato con sé una grande esperienza, e questa tutta con generosità ci vuole regalare. Un’esperienza dalla quale ci tiene a sottolineare di essere uscito con un più saldo senso della democrazia, “convinto che se un dio esiste- e sottolineo se- dev’essere un personaggio veramente ingiusto”.
    “Noi non sappiamo e non vediamo molte cose di questo bellissimo e difficile mondo che ci accoglie, soprattutto la miseria, la sofferenza, il desiderio di libertà di chi non si piega alle regole del gioco imposte da qualcun altro, i danni causati dall’avidità e dalla mancanza di scrupoli, la crudeltà di chi li infligge”. Un bell’invito, per noi sempre girati dall’altra parte, a fermarsi a guardare, almeno il tempo di queste pagine…

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