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    Carte Bollate…

     Dal carcere milanese di Bollate, un’interessante intervista che Susanna Ripamonti, direttrice del periodico Carte Bollate, giornale fatto dai detenuti, ha fatto a Massimo Parisi, oggi direttore del carcere. Bollate… carcere-modello, alla periferia nord-ovest di Milano, fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, un circuito a custodia attenuata, dove l’aspetto rieducativo della pena prevale su quello retributivo… L’intervista di Sussanna Ripamonti, dunque…

    “E’ passato un anno da quando Massimo Parisi prese il posto di Lucia Castellano alla direzione del carcere di Bollate. Un cambio al timone del penitenziario più avanzato d’Italia, che era anche una scommessa sul futuro dell’Istituto e che aveva lasciato tutti con il fiato sospeso. La rivoluzione sarebbe continuata? O saremmo andati incontro a una normalizzazione? Parisi disse subito, proprio dalle colonne di questo giornale, che non si sarebbe arretrati di un centimetro e che al contrario si sarebbero fatti nuovi passi in avanti e ha mantenuto la promessa.

    Direttore, a un anno dal suo insediamento a Bollate possiamo fare un primo bilancio? Diciamo subito che a livello personale questa è un’esperienza stimolante e oserei dire entusiasmante. Appena arrivato, senza conoscere il contesto in cui avrei operato, mi ero ripromesso tre cose: la prima, fare in modo che Bollate non fosse più una sperimentazione ma che diventasse patrimonio dell’Amministrazione penitenziaria e in quanto tale, che diventasse un patrimonio esportabile, anche a prescindere dalle persone.

    E questo primo obiettivo è stato raggiunto? Direi di si, visto che le ultime circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria vanno in questa direzione. Il capo del Dap, Giovanni Tamburino, invita a creare istituti con regime aperto, come il nostro appunto, con personale più impegnato nella conoscenza e nel lavoro con i detenuti e non solo con funzioni di sorveglianza. Il nuovo provveditore Aldo Fabozzi ha fatto di recente una riunione con tutti i direttori delle carceri della Lombardia dando tassativamente l’indicazione di andare verso regimi aperti, come prevede l’ordinamento penitenziario. Il fatto che Bollate sia citata come modello è ovviamente una soddisfazione per noi che ci lavoriamo, perché non solo abbiamo mantenuto l’esistente, ma siamo andati avanti. (…)

    Veniamo al secondo obiettivo, che era quello di rafforzare e portare a regime le attività esistenti. Traguardo raggiunto? Per quanto riguarda le attività interne direi che educatori e polizia penitenziaria si sono mossi bene, mantenendo lo stesso dinamismo e la stessa vivacità. L’unico rammarico è che non siamo riusciti ad aumentare le possibilità di lavoro all’interno dell’istituto, coinvolgendo nuove aziende. Qualche proposta c’è: l’idea di aprire una tipografia, il maneggio che potrebbe avere un’evoluzione produttiva, ma la mia aspettativa era maggiore e per questa voce il bilancio è in rosso. Bene la scuola, con un rafforzamento delle attività universitarie e la prospettiva a breve termine di avviare una scuola alberghiera.

    Bollate è il carcere italiano che ha il maggior numero di detenuti ammessi al lavoro esterno. E per quanto riguarda le altre misure alternative? Direi che abbiamo in generale dei numeri alti: solo nei primi quindici giorni di giugno sono stati scarcerati trenta detenuti, prevalentemente in misura alternativa e dunque in affidamento o trasferiti in comunità. Quelli in articolo 21 (lavoro esterno) sono 120, di cui 8 donne.

    A cosa è dovuto questo record, soprattutto per quanto riguarda il lavoro esterno: al fatto che lei ha il coraggio di assumersene la responsabilità? C’è una filosofia di fondo già impostata, che prevede ovviamente un margine di rischio, ma non di azzardo. E’ previsto un controllo capillare dei detenuti ammessi al lavoro esterno e generalmente i problemi si limitano a piccole infrazioni delle regole. Questo dipende dal fatto che c’è un investimento sulla persona e chi è destinatario di questa opportunità non se la gioca incautamente.

    Per quanto riguarda il profilo disciplinare possiamo dire che Bollate è un carcere tranquillo, a “bassa tensione”? Prendiamo un dato, che rivela anche un buon rapporto tra detenuti e polizia penitenziaria: nei primi quattro mesi del 2012 i detenuti che hanno preso dei rapporti disciplinari sono stati solo 88 e di questi trenta sono stati archiviati. E’ una percentuale del 5% circa, decisamente bassa.

    C’è forse una maggiore possibilità di dialogo tra poliziotti e detenuti, una maggiore democrazia interna? Noi cerchiamo di andare in questa direzione. Quest’anno si è cercato di dare maggiore legittimità alle richieste dei detenuti, creando le commissioni di reparto…

    In pratica un organismo sindacale? Diciamo un organismo di rappresentanza sostanziale.

    Il suo terzo obiettivo era quello di occuparsi dei suoi ospiti anche dopo la scarcerazione, creando una rete per il loro reinserimento. Cosa si è fatto? La cosa più importante è che abbiamo firmato un accordo di programma con l’Asl , creando all’interno una commissione dimittendi, che si occupa appunto di chi sta per lasciare il carcere, che viene preso in carico da operatori sia interni che esterni. La commissione ha avuto un riconoscimento da parte dell’Asl, con una legge regionale, la legge 8, che regola questa materia. Si è anche fatto un bando che prevede il ripristino degli agenti di rete, una figura professionale che ha il compito specifico di mantenere una connessione tra carcere e territorio: erano stati aboliti ma da settembre saranno di nuovo operativi. Oltre all’accompagnamento del detenuto che sta per diventare “ex” è previsto un lavoro di sensibilizzazione del territorio che lo dovrà accogliere.

    E invece cosa non ha funzionato? Avrei voluto avere un contatto più diretto con i detenuti, sentirli personalmente e singolarmente. Questo per quanto mi riguarda. Ci sono poi difficoltà oggettive che si ripercuotono su tutto il nostro lavoro, a partire dai tagli finanziari e dalle risorse economiche ridotte e i tagli delle forniture. Dovremo porci l’obiettivo dell’auto-sostentamento del detenuto, che però è possibile solo se tutti possono lavorare. La crisi generale si riflette anche all’interno, aumentano prezzi e disoccupazione, mentre un potenziamento delle attività lavorative sarebbe un volano per tutto il resto.

    E gli psicologi? Sempre in calo? Erano insufficienti e sono ulteriormente diminuiti. Si tenga conto che per alcune tipologie di detenuti questa presenza è obbligatoria, ad esempio per i sex offender, che a Bollate sono 350.

    Nella geografia delle carceri Lombarde Bollate è destinato a diventare il carcere che accoglie tutti gli autori di reati sessuali? Bollate è diventato uno dei poli per la detenzione dei sex offender, che in altre carceri devono essere rinchiusi in reparti protetti. Qui, anche con loro, possiamo mettere in atto programmi di graduale apertura. Questo è un ruolo che ci consente di essere utili anche agli altri istituti ed è bene che Bollate sia percepito così.

    Nello scorso numero di carte Bollate abbiamo parlato soprattutto di donne, dicendo che sono più recluse degli uomini. Anche qui le differenze ci sono. E’ d’accordo? Uno dei nostri obiettivi è proprio quello di superare questa emarginazione. Abbiamo fatto un investimento in questa direzione, mettendo tre educatori al posto di uno a occuparsi del reparto femminile, Cerchiamo di dare loro le stesse opportunità di studio e di lavoro, proprio perché ogni anello dell’Istituto deve obbedire alla stessa politica generale, altrimenti il meccanismo si inceppa.

    Perché è così difficile esportare il modello Bollate? E’ solo un problema di mezzi e strutture, o c’è un problema culturale più profondo? Bollate dall’inizio è stato impostato per essere quello che è. Cambiare dove c’è invece una lunga storia che va in direzioni opposte è molto più difficile, mi metto nei panni dei miei colleghi, che hanno gravi difficoltà strutturali e di gestione dei detenuti. Però ritengo che ci sia la necessità di un rinnovamento culturale: si tratta di metter in moto un lungo processo, che comporta l’abbattimento di barriere che qui non sono mai esistite. Si può fare, ma bisogna crederci, proprio per trasmettere a tutto il personale la fiducia in un cambiamento di rotta.”

    Susanna Ripamonti

     

     

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