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    Giulio, che dalla guerra non è tornato

    In questo tempo, di guerre lontane e vicinissime, di cui spesso si parla senza davvero capire la tremenda strada senza ritorno che si sta prendendo… un racconto, un ricordo che ci regala Carlo Pucci… a proposito di non ritorni…


    “Giulio non è tornato dalla guerra. Suo fratello se lo ricorda bene quando uscì di casa. Aveva diciott’anni. Salutò spavaldo. Una bella divisa stirata. Fucile e baionetta affilata. Nella foto ha proprio quella divisa, ma è disarmato. Biondo. Occhi celesti guardano il vuoto. Volto chiaro e ben rasato. Lo so, è una foto ritoccata a colori acquerellati, forse non era così bello. Il suo nome è inciso fra quelli dei caduti di Bologna. Suo fratello, mio nonno, mi porta sempre il 4 di novembre sotto la lapide, nel chiostro di Santo Stefano. Una mano sulla mia spalla; l’altra mi indica il punto dove se ne sta inciso Giulio: “Lo vedi, lassù? È in ordine alfabetico, scorri tutti i nomi e lo trovi” mi dice il nonno. Io so già leggere e scrivere, ma in mezzo a tanti nomi neri di morte io Giulio non lo trovo. E poi la lapide è in alto e io sono ancora troppo basso.
    “Ma è sepolto dietro la lapide?” indago sottovoce. “No, lui è disperso. Dietro la lapide c’è solo del muro”. Sto zitto e poi dico: “Ma nei cimiteri dietro e sotto le lapidi ci stanno sempre dei morti”. “Questa non è una tomba. Giulio non ha nessuna tomba”.
    È il 4 di novembre; si festeggia la vittoria. Per questo la città è addobbata a tricolore. I negozi sono chiusi, ma non è domenica. Dalle vetrine, illuminate a festa a rischiarare portici grigi di nebbia, guardano impettiti i manichini in divisa militare. Gli sguardi vuoti, indifferenti. Tutti biondi. Volti chiari e ben rasati. Dolcemente ritoccati ad acquerello. Tutti quanti uguali a Giulio. Ieri la maestra ci ha detto che oggi le caserme sono aperte anche per noi bambini; possiamo andarci dentro; a vederle e salire sui carri armati. Mio nonno non mi ci vuole portare: di andare per caserme e carri armati non se ne parla proprio. Andiamo soltanto per lapidi, coccarde e marionette. Lui non mi tiene per mano. Non mi tratta da moccioso. Al suo fianco io cammino con passo marziale. In tarda mattinata: portici e piazze sono di nebbia. Avanzo stupefatto nell’incanto di un sipario evanescente. Dalle quinte vaporano addobbi tricolore. Si diffondono pupazzi a grandezza naturale, tutti infiorati di coccarde, infilzati da medaglie dorate e smaltate. Sbucano eroici da trincee di scarpe, valige e borsette, di mobili e lampade, di torte e canapè. Persino nelle vetrine delle macellerie svettano comandanti e generali fra tacchini spennati e polli appesi a testa in giù. Una vera carneficina esalta la festa della vittoria.
    Ho sei anni. Perlustro con mio nonno il teatrino della vittoria, ma non scovo nessuna parata. La sfilata dei carri mascherati la fanno il giovedì grasso. Per quella c’è ancora tempo. Prima ci sono le feste di Natale con lo zucchero filato in bella mostra sulle bancarelle sotto il portico dei Servi. Di fianco, prega un esercito di statuine da presepio. Gesù, Giuseppe e Maria dai volti acquerellati replicati su mensole di muschio. Manichini pieni d’amore. Si levano pietosi a mani giunte dalle trincee di addobbi luccicanti. Profumo intenso d’abeti imprigionati in vendita sul sagrato dei Servi. Oggi però profumano soltanto i crisantemi. Strappati in memoria dei caduti. Il chiostro di Santo Stefano ne trabocca.
    Per ora mi accontento della festa della vittoria. I martiri nostri son tutti risorti, ma senza allegria: per loro non c’è zucchero filato, niente coriandoli, né stelle filanti; non trovo caramelle sparate per terra da carri mascherati. Nessuna nenia da una cometa. Nessuna trombetta, nessun pernacchio risuonerà spensierato dalle colonne di via Indipendenza. Il nonno m’impone silenzio: nel chiostro di Santo Stefano la vittoria è festa muta e solenne. È novembre. Crisantemi infilzati nei vasi di bronzo. Il cimitero è in Romagna. Viaggio di mestizia. Abito fumo di Londra. In auto è vietato scherzare. Mi annoio; ma quando si arriva? Il guanto della mano disegna sul finestrino appannato. Intravvedo la pianura; là fuori corre via in brividi di nebbia gelata. Mi stufo, è un viaggio senza ritorno. Per fortuna la Certosa sta dentro Bologna: da casa si va e si viene in fretta. Fotoceramiche mi salutano in bianco e nero. Ovali e bombate. Lucide, crepate. Da questi orcioli smaltati ammiccano, sorridono, giudicano severe. Si sporgono da sopra i loro nomi di bronzo, sopra la data finale di un tempo immaginato. Marameo: io ho solo sei anni e il mio è un tempo infinito.
    In questo mese mi portano a salutare i nostri defunti. Non c’è nessun martire. Nessuno è risorto. Frutti tappati che non ho mai scelto. Raccolti da ramificazioni intricate. Guardo dal basso la genealogia del melo gigante. Dalle fronde penzolano vasi di marmellate scadute. Le etichette sono sbiadite, le foto dei composti mi inquietano, ma i cognomi sono la garanzia del prodotto. Non ho mai allungato la mano per tirarne giù uno, ma li ho passati tutti in rassegna. Ormai conosco bene l’erbario illustrato, so classificare ogni singolo germoglio, so in quanto tempo si è disseccato. Nebbia e freddo. Trincee di bosso proteggono i cipressi, spavaldi e combattenti. Batto i piedi ghiacciati sopra la lastra. Non ho mai visto un morto: sarà fatto di nebbia e di freddo.
    Sto attento a non inciampare: la lastra è rotta. C’è un buco. Mi accuccio e guardo curioso. Non vedo nessuno. Forse è risorto.
    “Vieni via di là. Che stai facendo? Sta’ composto!” mi sibila una voce stizzita. Un secchiello di ferro picchia per terra di schianto. L’acqua scroscia nel vaso di bronzo. “Fa’ silenzio! Non si saltella qua in mezzo. Sta’ fermo!”.
    I crisantemi sono infilzati. Spazzata la tomba, si biascica latino. Non capisco il latino. Un giorno lo dovrò imparare. Un giorno, forse. Osservo e resto muto sull’attenti. So che la vittoria è muta. Tace solenne nel terrore dei morti. Che bello: fra poco è Natale e sotto il portico dei Servi sfilaccerò zucchero vischioso. Giulio è l’unico disperso. Per lui non c’è tomba, né vaso di bronzo, nessun crisantemo gettato, neppure un bisbiglio in latino: nel giorno muto della sua vittoria. Ho sei anni e della Prima guerra mondiale so solo che abbiamo vinto e che Giulio non è ancora rincasato.

    Carlo Pucci

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