Me lo chiedono spesso: ma perché ti occupi di carcerati? Perché… come hai cominciato…
L’occasione è stata ritrovarmi fra le mani, in redazione, una lettera di un gruppo di ergastolani ostativi, che chiedevano di spiegare, di raccontare, di dare loro voce… e scoprire che “ostativo” non sapevo neanche che significasse… E ho iniziato a incontrare nomi, immaginare volti, conoscere storie: Alfio, Carmelo, Mario, Alfredo, Giovanni, Pasquale… Alla fine, da quell’incontro virtuale, che si è affollato di scambi di lettere, è nato anche un libro, “Urla a bassa voce”, che ha raccolto le testimonianze di trentasette ergastolani.
Ma c’è stato un momento che ha significato il punto di non ritorno…
Ne parlo spesso. L’essermi ritrovata nel carcere di Padova, il Due Palazzi, per un seminario, organizzato da Ristretti Orizzonti, cui partecipavano i detenuti dell’AS1, gli ergastolani ostativi, quelli che “più cattivi di così non si può”. Una quarantina di persone, lì tutti attenti ad ascoltare. I più con un passato di anni e anni di prigionia. Tutti con la prospettiva di un futuro al chiuso “finché morte non ci separi”. Perché, salvo miracoli e combinazioni complesse, questo è l’ergastolo ostativo…
Mi colpirono molto i loro sguardi. Quelli dei più anziani, sguardi di visi invecchiati, con le loro vite, in celle di solitudine. Quelli dei più giovani, inquieti e braccati, che negli occhi dei più grandi vedevano riflesso il loro destino… No, non è stato più possibile liberarmi di quegli sguardi. Né dei loro silenzi… frasi mute a incespicare nelle parole di chi fremeva comunque per dire, per raccontare, per uscire, con la propria storia, dal buio nel quale era stato ricacciato… sguardi, silenzi e parole, che mi sono portata dentro, e in me sono rimasti anche quando alle mie spalle, che andavo via, si sono chiusi i cancelli del carcere…
Perché? Perché non mandare tutto via con una scrollata di spalle? Perché chi ha visto non può fare finta di non avere visto.
Così sono tornata, ogni volta che è stato possibile. A Padova. Ma anche poi a Spoleto, San Gimignano, Cosenza, Parma, Oristano… a inseguire, anche, persone che dopo la pubblicazione di quel primo libro mi hanno contattata perché ancora tanto avevano da dire… E quando sai dove lasci la persona che sei andato a trovare, ogni volta sempre più sapendo e sempre più capendo, difficile che la tua vita scorra come prima.
Anche per questo sono convinta che se si sapesse, se si vedesse… cambierebbe, e non di poco, il nostro atteggiamento nei confronti di chi è recluso. Ma le porte delle nostre carceri sono ben serrate…
Mi capita spesso di pensare a quella prima lettera “galeotta” arrivata in redazione. Che molte cose ha cambiato della mia vita. Ma che pure si è inserita in un solco che già in qualche modo, sommesso, da tempo era tracciato dentro di me…
Ecco. Nella biblioteca di casa, quand’ero ragazzina, avevo trovato un volume, vecchissimo, forse del padre di mio padre, di un libro di Dostoevskij: “Memorie dalla casa dei morti”, racconto della sua esperienza carceraria in Siberia. E io, educata fin da allora a cercare nei libri la conoscenza, attirata da quel titolo, anche pauroso, l’ho letto, e tutto. Ero mi sembra in seconda media, e sinceramente non so cosa potessi avere davvero capito a quell’età. Ma indelebile mi è rimasto nell’anima un senso di cupezza e di violenza e di ingiustizia… mi è rimasta l’immagine di una scatola chiusa e persone che guardano in alto, verso un cielo impossibile… e questa idea di carcere è la cosa che mi sono portata dentro tutta la mia vita, da ben prima che trovassi modo di occuparmene.
Racconto questo per dire a chi ha responsabilità di educare: fate leggere ai ragazzi quel libro, aiuterà a far crescere una società meno indifferente…
Fate leggere Dostoevskij, ma anche “Resurrezione” di Tolstoj, “Il vagabondo delle stelle” di Jack London… La grande letteratura che meglio come non si potrebbe racconta il carcere, perché il carcere nella sua orrenda sostanza, principi a parte e fatta salva la buona volontà di molti che pure ci lavorano, è sempre la stessa cosa da 250 anni, da quando è nato, come retribuzione per un reato, nella sua forma attuale.
Raccontate anche le storie dell’oggi e confrontatele con quelle di ieri. Insegnate anche ai ragazzi a immedesimarsi… Non potrò mai dimenticare le parole di Mario Trudu, morto in carcere, malato, dopo quarant’anni di reclusione assoluta: “Riuscite a immaginare che significa essere chiuso qui dentro da trentotto anni? Provate a pensare… cos’eravate, dov’eravate voi trentotto anni fa… Io da allora sono qui”.
E ho imparato a immedesimarmi. Altro esercizio importante…
Ma non solo. Nella mia ricerca dei primi tempi, perché le domande, i dubbi, i timori, pure sono tanti… avevo incontrato le parole di Elias Canetti… che parla del dovere di “conservare la capacità di metamorfosi per tenere aperte le vie d’accesso tra gli uomini”. Alla metamorfosi, dice Canetti, soprattutto l’uomo deve la sua pietà, che “non ha alcun valore se viene proclamata come sentimento generico e indeterminato. Essa esige la concreta metamorfosi in ogni singolo essere che vive e che c’è”.
“Per tenere aperte le vie d’accesso fra gli uomini”… tutti, perché nessuno, neanche quello che pensiamo sia il peggiore di noi, ne sono sempre più convinta, merita di essere respinto nell’indistinto.
Scritto per Voci di Dentro