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    La pagina vuota

    Beh, fa proprio un bell’effetto avere tra le mani un libro di cui avevi letto tempo prima… quando era ancora un manoscritto in cerca della sua strada… Con tutte le domande, i dubbi, le speranze… Ed eccolo qua. “La pagina vuota”, di Lisa Franca Satta. Copertina con fondo azzurro e al centro, nel bianco e nero degli anni a metà del secolo che fu, foto di famiglia in un esterno, che già molto racconta. Con la tenerezza di volti che riconosco… Lisa, Salia, Giovanna, il fratellino Antonio… manca solo Viviana che arriverà per ultima. Giovanna, soprattutto, la mia amica, che di questa sua famiglia sarda mi ha spesso parlato, e uno ad uno nel tempo mi ha fatto incontrare… E quindi mi è facile riconoscere subito l’autrice, benché piccolissima. Quella bambina imbronciata davanti ai tre fratelli. Giovanna sorride schietta e simpatica, come sempre… anche Salia e Antonio sorridono. Tutti, compreso, sembra, il canuzzo che Salia tiene in braccio, guardano diritti l’obiettivo. Tutti tranne lei. Lisa. Quasi già vedendo venirle incontro, e un po’ già dolendosene, una vita in corsa, fra passioni e dolori, gioie e tristezze, le parole e i silenzi… in un’altalena di umori che sempre l’avrebbe accompagnata…
    E qualche tempo fa, dopo un periodo di “fase bassa”, che chi vive la sindrome bipolare ben conosce, le parole sono tornate. Sono tornate a comporre un libro, che è un diario, che in realtà sono lettere, anzi, email che Lisa scrive durante la notte, notti d’insonnia, per la sua amica Annamaria, “il motore”, come la definisce nella dedica. O meglio ancora la sua cara Maieutica, come da intestazione delle email. Scritte notte dopo notte, per “incastrare sulla pagina emozioni che altrimenti non riuscirebbe a contenere”.
    Certo, un libro sul perché della scrittura, che magari aiuta a mettere in fila gli episodi di una vita che sembra scivolare dalle dita, e anche quando non si è più giovani continua a voler correre all’impazzata, quasi con la stessa fame di vita di quando si è giovani… Ma non solo.
    La prima cosa che mi viene in mente, avendo letto tutto in un giorno (perché davvero si legge in un fiato), è che questa “pagina vuota”, che vuota non è affatto, casca bene, proprio in questi giorni a ridosso della festa (?!) della donna. Il libro di una donna che con un’altra donna si confida. E che di figure di donne è tutto intessuto.
    La Maieutica, appunto, amica fidata e punto di riferimento, senza la quale forse questo libro non sarebbe nato. Che a un tratto diventa Mareutica… e non è un refuso, ma una parola che piace di più perché “contiene dentro il mare”. Il mare della Sardegna, terra d’emigrazione, dove sempre si torna… E poi Gelsomina, la senzacasa che dorme sulla panchina del bus, che Lisa spia dalla finestra della sua calda casa di Liegi (dove si è trasferita per insegnare in una scuola per italiani all’estero) e che all’alba si allontana, con la sua lunga coda di capelli biondi… Manon, la signora ceca compagna di stanza incontrata in un ospedale, che sa cantare in italiano Bella ciao e Bandiera rossa, e cantarle insieme a bassa voce… Madame Martin, la dirimpettaia adottata perché “ogni volta che sento il bisogno del bacio di una nonna le suono con un pretesto, così glielo do io”, al posto del figlio che le era morto.
    Femmina anche la Mosa… fiume sul quale affaccia la finestra di Lisa. La Mosa che la notte, come l’amica fidata, anche lei sa ascoltare le parole dell’insonnia. Mosasilenziosa, Mosasperanzosa, Millebaci dalla Mosa gonfia di acqua torbida… Che come lei oscilla, fra alti e bassi, a tratti sorride gorgogliando e a tratti si incupisce. La Mosa che anche noi alla fine sentiamo nel buio sussultare… e che le conferma ogni volta che sì, il suo posto nel mondo l’ha trovato lì, dietro quella finestra sull’acqua che scorre…
    E non poteva che esserci un nome di donna, anche sullo sfondo dell’incontro con uno dei pochi uomini che si affacciano nel racconto. Il Libanese, e l’amore sempre inseguito, ora sbocciato a un tavolino del bar Cécile…
    La notte, le parole volano leggere. Qua e là spuntano racconti che Lisa, che è insegnante di scuola elementare, scrive da sempre. E ora le “incolla qua” per la sua amica. Favole. Che non sono proprio favole, anche se i protagonisti hanno i volti di orchi, i nomi di animali, e fiori e frutti dell’orto, e percorrono sentieri di campagna sul limitare di boschi. In realtà ovunque è il richiamo a storie di casa, del tempo lontano dell’infanzia, povera ma ricca di amore e allegria, come la vita che in uno dei racconti Maghita e Rodolfo riuscirono a dare ai loro cinque figli… Sullo sfondo la campagna che ha visto crescere Lisa e i suoi fratelli, su quel tratto di collina a nord ovest di Sassari. Famiglia tanto amata, il cui ricordo ancora riempie di tenerezza… e ancora sembrano ritornare i genitori, in quell’altra coppia di sposi, in un’altra favola, Safera e Danito… che, dopo una vita di amore e traversie, annunciano la data di un “rimatrimonio”. E Lisa, riecheggiando il nostro De André,… “io che partecipai a quell’evento, suonai l’armonica come un organo da chiesa in quel salone luccicante…”.
    Qua e là, l’ombra della malattia, l’altalena degli alti e dei bassi, “quelle montagne russe che sempre decidono della mia vita” nel ricordo di persone che a risalire non ce l’hanno fatta. Ma Lisa sempre ce la fa.
    Anche perché “io ho sempre scritto per me, per calmare l’ansia che mi porta ad avere la bougette, come la chiamano qui, il ballo di san Vito direbbero a Roma, il tremolio continuo della gambe insomma”.
    Ma scrive, e ci riesce bene, anche per noi… lei che come Pandora, con il suo vaso di ceramica e di ceramica anche lei, fa cadere tutti i doni degli dei. Ma come Pandora “faccio tesoro della speranza, quella che mai abbandona gli esseri umani, quella cosa che se non c’è nulla ha senso nelle avventure. Non arriveresti alla fine di un libro o di un film se non fosse per la speranza di vedere un finale decente…”

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