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    Memorie di un gatto

    Leggendo della scoperta, in Egitto, ad Alessandria di un tempio dedicato a Bastet. Bastet, dea della gioia, della musica, della maternità.  Bastet, dea gatta. E pensando allo sguardo-gatto che, con finto disinteresse, legge nelle nostre vite quello che forse neppure noi sappiamo. E guardandoci sospira, pietoso… Pensando a un altro gatto, Yellow. Gatto di Sarajevo, che nel tempo terribile della guerra, ha visto scomparire la sua giovane padrona e il ragazzo che l’amava. La loro vicenda, Yellow, ne sono certa, l’avrebbe raccontata così.

    “Era l’inizio di novembre e le zolle di terra si stavano di nuovo irrigidendo nel freddo.

    Yellow arrivò, ispezionò il terreno, si guardò intorno, scrutò oltre la siepe e si fermò su di un tratto ancora coperto d’erba bassa. Si sedette appoggiando il dorso all’asse di legno infisso nel terreno e si apprestò ad aspettare il trascorrere di un altro giorno. L’odore dell’aria già annunciava il gelo e Yellow sapeva che sarebbe presto arrivato un altro inverno. Un brivido gli scosse il corpo. Si sentiva molto stanco. Da qualche tempo le cose sembravano aver perso il loro confine e aveva l’impressione che le ombre del buio avessero preso ad arrivare molto prima delle ore della notte. La mattina, impiegava sempre più tempo per arrivare fin lì. Ma non era mancato neppure un giorno. Da quando, non aveva idea del tempo trascorso, il corpo della sua Admira era stato sepolto in quella fossa, accanto al corpo del ragazzo che gliel’aveva portata via.

    All’inizio l’aveva odiato, quel Bosko. Aveva subito capito, fissandolo nelle linee verdi delle iridi, che non ne sarebbe venuto che del male. Quel ragazzo aveva la pelle troppo chiara, il sorriso troppo rosa, i capelli troppo corti. Nonna Sadika era del suo stesso parere, l’aveva percepito subito. Ma erano rimasti solo in due, in quella casa di folli, a sperare che quella follia passasse.

    Ricordava bene il giorno in cui Admira aveva portato Bosko in casa tendendolo per mano, quasi trascinandolo. Era una sera d’inizio d’estate.

    Zijah si era affacciato sulla porta, perplesso. Poi aveva guardato la figlia negli occhi e quindi aveva chiesto a Nera di cucinare per tutti. A tavola, quella prima sera, Zijah non aveva smesso un attimo di fissare il nuovo ospite attraverso il fumo delle sigarette. E prima che l’ultimo dolce di miele venisse consumato, aveva già deciso che avrebbe amato quel ragazzo proprio come lo sguardo di Admira gli chiedeva.

    Quella sera Yellow aveva capito dove erano finite tutte le carezze che da qualche mese non riceveva più. Per carità, farebbe torto all’amore di Admira a sostenere che le cure che lei gli aveva comunque riservato erano da quel giorno mutate. Lei non aveva mai mancato, rientrando in casa, di sollevarlo fra le braccia, e stringerlo a sé, e tenerlo sulle ginocchia mentre scaldava l’acqua del samovar, e poi fingere un gioco sotto il tavolo e poi carezzargli la testa. E la notte sempre ancora lo aveva lasciato dormire sul suo cuscino. Ma Yellow aveva ben scorto nel largo sguardo scuro di Admira quel nascosto tratto di luce smorfiosa che non era per lui. Anche quando lei, accarezzandogli la testa, lo fissava nelle pupille. Anche quando, chiamandolo e richiamandolo dolcemente, gli ricordava tutto il suo bene. Aveva apprezzato molto, comunque, che Admira gli permettesse di restare almeno per un po’ sulle sue ginocchia quando Bosko veniva a sedersi accanto a lei, e che un giorno avesse addirittura guidato la mano del ragazzo sul suo dorso, per  insegnargli a muovere le carezze nel verso giusto.

    Alla fine si era affezionato anche a lui, a quel ragazzo dai capelli castani che Admira sembrava proprio adorare e che pure, era evidente a chiunque avesse un briciolo di senso delle cose, non avrebbe portato che guai. Ma la sensatezza non è delle cose degli uomini.

    Yellow provò una fitta alle ossa. Si poggiò meglio all’asse di legno e allungò la zampa destra sulla pietra. Annusò l’aria. Dalle montagne del nord arrivava un sentore freddo e bagnato. Forse avrebbe piovuto o era già tempo di neve. Si sarebbe in tal caso riparato accanto al locale che era a poca distanza da lì. Girò verso destra la testa, ad assicurarsene ancora l’esistenza.

    Vide due figure allegre. Si stavano avvicinando ai vetri della porta, che si aprì e le accolse all’interno.

    Yellow fremette. Fu certo di aver percepito l’eco di giovani risate e provò qualcosa che poteva essere una stretta alla gola. L’istinto fu, come altre volte era successo, di correre fino a quella porta, come in chissà quale passato era sicuro di avere fatto, per potersi assicurare che la sua Admira era seduta lì dentro, a un tavolino bianco, accanto a quel benedetto ragazzo che non lasciava mai la presa dalla sua mano, per tutta la durata del fumo dei caffè.

    Ma l’esperienza delle ore, dei giorni e dei mesi passati a partire da almeno quattro inverni prima davanti a quello stesso bar, gli aveva insegnato che Admira e Bosko non si sarebbero mai più seduti a quel tavolino, cui pure erano stati tanto affezionati. La gioventù, si sa, è età lieve, ancora leggera del peso della fedeltà alle cose.

    Se avesse saputo come, Yellow avrebbe pianto. Ma si limitò a distogliere lo sguardo da quella porta vuota.

    Tornò a fissare un punto lontano davanti a sé, in direzione delle montagne. Da qualche tempo anche le montagne tacevano, e Yellow si chiese perché nessuno fosse riuscito a trattenere Bosko e Admira, almeno fino al momento in cui il tuonare della guerra si fosse calmato. Ma scosse la testa, quasi ridendo di quell’inutile domanda. L’impazienza del vero desiderio è immensa. Impossibile da contenere.

    Sentì dei rumori. Un calpestio che si avvicinava alle spalle. Yellow voltò cauto testa.

    Erano un uomo e una donna. Avanzavano incerti, fermandosi qua e là fra le tombe. Sembravano cercare qualcosa. A tratti si avvicinavano a una stele, la scrutavano, se ne riallontanavano appena più mesti.

    Quando furono troppo vicini, Yellow si ancorò con le unghie alla terra, rizzò il pelo del dorso, arricciò le narici e scoprì i denti, pronto a soffiare. Ma incontrò solo uno sguardo triste che passò indifferente su di lui per scivolare altrove. Si rilassò e seguì le due sagome finché non scomparvero sul profilo del colle. Immaginò che la ricerca di quell’uomo e di quella donna sarebbe stata lunga e benché di cuore augurava loro che così non fosse, non poté che pensarli perduti nella foresta di stele e di croci dell’immenso cimitero che da qualche tempo era cresciuto sulle colline tutt’intorno.

    Pensò che c’era troppo silenzio quella mattina.

    Uno strano silenzio. Amplificava il rumore dei ricordi. E da un ricordo ancora vicino, o da una casa o da un bar poco distanti, a un tratto arrivò della musica. Yellow riconobbe il motivo e gli si accapponò la pelle. Quando l’aveva sentito per la prima volta l’aveva trovato piuttosto snervante, davvero fastidioso. Ma Admira ne era sembrata entusiasta. D’altra parte l’insana passione che ormai la legava al suo Bosko aveva il vantaggio di riuscire a trattenerla per più tempo del solito in casa, sia pure insieme a quel ragazzo, ad ascoltare quel genere di frastuono. Yellow non poteva che esserne contento e si era alla fine abituato a quel rumore fino a trovarlo addirittura accettabile. Fino all’indimenticabile sera in cui, vedendo Admira particolarmente felice ed eccitata, era stato preso anche lui da un incontenibile desiderio di movimento, e si era gettato fra le sue gonne saltando e vorticando e sfiorando le sue caviglie e graffiando l’aria e ancora correndo e sguazzando fra il divano, il tavolo, i libri e poi ancora sul divano e poi di nuovo fra i piedi di lei. Alla fine avevano riso davvero tanto quella sera. Adimra e Bosko, insieme a lui. E Yellow ne era stato proprio felice, perché da un po’ di tempo vedeva troppe ombre sui loro visi. Da quando i tuoni e gli scoppi sulle montagne erano arrivati vicinissimi, a volte avevano raggiunto persino le strade in città, e sempre più spesso, nonostante la neve e l’inverno, mamma Nera dimenticava di riscaldare la casa.

    Poi, una mattina. Li aveva visti uscire prima del solito e con borse più grandi del solito.

    Avrebbe dovuto capirlo allora. Dalle carezze lente di Admira, che aveva premuto con troppa forza la mano sul suo dorso, come a volergliela lasciare impressa sulla pelle. E pure vi era riuscita. Avrebbe dovuto capirlo allora, dall’ultima stretta che gli aveva provocato un rantolo strozzato, dal pianto di Nera e dalla voce grossa di Zijah che, stringendola alle spalle, brontolava qualcosa a proposito del fatto che i giovani devono essere liberi di scegliere la propria strada e di vivere in un posto dove non debbano rischiare in ogni momento la vita, per poterla pur vivere questa benedetta vita.

    La cantilena morbida e monotona di un muezzin passò nell’aria, volò sulle strade, attraversò le ferite dei palazzi, passò sulla testa di Yellow, che la seguì inerpicarsi sulle colline.

    Cantavano i muezzin anche quello strano giorno in cui, non ricordava esattamente quanto prima, durante uno dei suoi ormai persi vagabondaggi, Yellow aveva raggiunto un ponte. Un piccolo ponte sul fiume di Miljacka, fuori della città. Non vi era mai capitato prima d’allora. Yellow aveva sempre evitato si spingersi troppo lontano, anche dopo che il tuonare delle montagne si era acquietato. Il ponte non aveva proprio nulla di particolare, e l’acqua che vi scorreva sotto suggeriva gelo come tutte la acque che scendono dai monti. Ma qualcosa come un richiamo lontano, un urlo di tomba (ne era assolutamente certo, lo aveva sentito) lo aveva tenuto inchiodato sul limitare di quel tratto di terra per un tempo infinito. Yellow non credeva ai fantasmi, ma erano sembrate proprio ombre di fantasmi le due sagome che (ne era certissimo) aveva visto avvicinarsi in trasparenza, cadere in terra colpite a morte, trasformarsi nei volti rigati di sangue di Admira e Bosko e poi moltiplicarsi fra il rumore di mille spari in mille ombre e mille urla senza fiato. Yellow non credeva ai fantasmi, ma sapeva bene che il sangue e il dolore non lasciano mai del tutto la terra che li ha generati.

    Anche i gatti qualche volta hanno paura e, appena la malia, dissolvendosi, lo aveva finalmente lasciato libero di muoversi, Yellow era fuggito via. Correndo senza fiato, era ritornato verso casa. Esitando solo una volta, forse per la suggestione di un altro indefinito richiamo che lo aveva di nuovo fermato sotto gli alberi di una larga strada. Dove si affacciavano case ancora martoriate di buchi, che sembravano vuote della gente. Solo, su di un terrazzo cadente, una giovane donna stendeva il bucato e, prima di scomparire nel cavo della casa, allungandosi in bilico sul parapetto era sembrata salutare proprio lui.

    Un vento più forte stava ora scendendo dalle colline. Yellow si raccolse su se stesso per difendersi dal freddo e trovare una posizione più comoda per riordinare i pensieri. I ricordi, quel giorno, gli si presentavano nella mente in maniera confusa, a tratti forti, a tratti più sbiaditi, come da rileggere a fatica per la millesima volta su fogli ormai sgualciti. Era un gatto vecchio, e anche per i gatti valgono, implacabili, le leggi delle età.

    Se quello che ricordava del conto del tempo era corretto, erano trascorsi più di quattro anni da quando Admira era andata via insieme a Bosko per non ritornare più. Era già un anno che ogni giorno veniva a fermarsi davanti a quella pietra fredda. D’altra parte era l’unico posto dove poteva aspettarsi di sentire riaffiorare la voce della sua Admira. Ma anche se le luci della città avevano ripreso a restare accese fino a tardi e la gente ad affollare le strade e a volte persino a ridere e a trattenersi fino a notte fonda davanti al fumo dei caffè, come ad Admira tanto piaceva fare, ancora lei si nascondeva. E il buio arrivava sempre più presto e Yellow adesso non era così certo che avrebbe superato anche il prossimo inverno.

     

    (Bosko e Admira, lei musulmana, lui ortodosso cristiano, avevano deciso di fuggire da Sarajevo , nel maggio del 1993. Sia i funzionari musulmani che i cristiani avevano garantito loro il passaggio. Sono stati uccisi dai cecchini mentre attraversavano il ponte Vrbanja)

     

     

     

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