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    Uomini e no

    CELLA GINFR.La giustizia è questione di classe. E parafrasando quanto don Milani disse a proposito della scuola, si può ben dire che il carcere lo è due volte, perché in base alla classe seleziona e di classe è poi il suo insegnamento…
    Cos’altro pensare leggendo, appena dopo la notizia dei domiciliari concessi a Roberto Formigoni, il puntuale articolo di Damiano Aliprandi che, su Il Dubbio, parla di Giorgio C., piantonato in carcere nonostante avesse un tumore allo stadio terminale e poi morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo di Milano, fra atroci sofferenze. E di Giuseppe, malato di tumore ai polmoni, detenuto a Vigevano, morto nell’agosto di tre anni fa, all’ospedale di Pavia, al quale è sempre stata negata l’incompatibilità col carcere. E quanti altri…
    E rabbrividisco. Fra i tanti altri, so di Mario Trudu. In carcere da un tempo infinito e, da alcuni anni, molto ammalato. Parlo spesso di Mario, la cui vicenda seguo da anni, ma per riservatezza, e perché so quanto “fiero”, ho sempre solo appena accennato alle sue condizioni di salute. Mario che sempre dice che “non è nulla”. E cosa volete che sia, qualsiasi cosa, dopo quarant’anni in quell’inferno che possono essere le nostre carceri…
    Un tumore alla prostata e una fibrosi cistica, che può portare alla morte, non sono cosa da poco. Ma sembra che Mario, che si trova nel carcere di Oristano, non può ancora ricevere le necessarie cure. Riuscite immaginare quanto le lentezze, i rifiuti, le non risposte, possano diventare, per una persona che ha trascorso l’intera vita fra le quattro mura di una cella, un ulteriore incubo buio…
    “Il detenuto, al pari degli altri cittadini, ha diritto di essere curato e la sua salute deve essere salvaguardata specialmente quando ci sono evidenti segnali di malattia. E’ assurdo e inaccettabile che Mario Trudu con una fibrosi polmonare conclamata e una diagnosi di tumore alla prostata stia aspettando da due mesi una TAC per valutare l’opportunità di un intervento chirurgico o di una cura chemioterapica o radiologica. Ciò equivale a una condanna aggiuntiva e a un trattamento disumano e degradante che lo Stato non può permettersi”. Lo scrivono Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e il legale di Trudu, Monica Murru, che si rivolgono con un appello al Garante nazionale Mauro Palma perché valuti l’urgenza di far rispettare le norme che pure esistono. Principi e norme che recenti sentenze della Cassazione e perfino le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rimarcano con chiarezza in merito alla salute di chi è detenuto.
    “E’ forse opportuno ricordare che Mario Trudu – si osserva – ha 69 anni e si trova in carcere da 40 anni. Le sue condizioni di salute sono precarie e appaiono incompatibili con il regime detentivo. La fibrosi polmonare è una complicazione che può portare alla mortalità. Il tumore prostatico non si ferma in attesa che qualcuno si prenda la briga di avviare una cura adeguata… L’ergastolo ostativo non contempla l’esclusione del diritto alla salute che deve essere garantito a tutte le persone private della libertà in quanto diritto e valore umano”. Quindi si chiede “di procedere celermente alla diagnostica e a un ricovero in un Ospedale per l’intervento chirurgico e/o in una Residenza Sanitaria affinché l’anziano detenuto possa trovare l’assistenza indispensabile per la cura delle gravi patologie in atto. Non è la libertà al centro della vicenda ma il diritto umano che deve prevalere specialmente quando le condizioni di una persona appaiono davvero gravi”.
    I diritti umani… sembra proprio siano prigionieri, anche loro, di questioni di classe.
    Lo scorso anno, dopo la concessione dei domiciliari per questioni di salute a Marcello dell’Utri, l’associazione Yairaiha, che molto si occupa di persone sottoposte a limitazione della libertà, ha lanciato un appello pubblico per la scarcerazione delle persone gravemente ammalate. L’appello è stato sottoscritto da migliaia di cittadini, intellettuali e attivisti ed è stato inviato a tutte le istituzioni. La risposta? Un silenzio tombale.
    Ammalarsi in carcere… molto e di terribile ci sarebbe da dire…
    “… mi dice che devo mettermi in testa che noi detenuti non siamo persone normali, non possiamo avere lo stesso trattamento sanitario di una persona normale”. Così racconta di quando era nel carcere di Torino Monica Scaglia, malata di tumore, da qualche mese infine ai domiciliari per motivi di salute. “Già fantasmi prima di morire”, con questo titolo, che tutto dice, la sua storia sarà presto pubblicata da “Sensibili alle foglie” in collaborazione con l’associazione Yairaiha. Ne parleremo.
    Rabbrividendo, ora, non posso non ritornare a un libro che ho terminato di leggere proprio in questi giorni. “L’invenzione della specie” di Massimo Filippi, neurologo che da anni si occupa della questione animale, dal punto di vista filosofico e politico. La tesi, sintetizzando, è che la distinzione fra l’uomo e l’animale, dicotomia gerarchizzante, non è cosa naturale, ma “decisione normativa, performativa e (a)normalizzante che produce ciò che la presuppone”: l’Uomo. Con un dettaglio non da poco e che molto ci dovrebbe far pensare, e preoccupare, se per “Uomo” non si intende chiunque appartenga alla specie Homo sapiens, ma (come, si fa notare, nell’attuale frangente storico-politico si intende) l’appartenente a un genere preciso: maschio, bianco, eterosessuale, adulto, normale, sano, proprietario e carnivoro. Tanto più ci si allontana da questi tratti di riferimento, tanto più ci si avvicina alla specie “Animale”. E quanti siamo… neri, poveri, omosessuali, zingaracce (Salvini docet), malati, detenuti (fatte per carità le dovute distinzioni di classe), donne…
    Corpi che non contano, quelli degli animali e degli umani animalizzati. Della cui carne, tecnicamente e metaforicamente parlando, possiamo tranquillamente nutrirci, dopo aver trasformato in spettri “emozioni, affetti, compassione, corporeità… finitudine”.

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