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    Farfalle di Rodi…

    DSCN0986 (3)Sentite che mi scrive Daniela Morandini… Una storia nella storia…
    “Dai libri rimessi in ordine, riaffiora una cartolina del 1965, da Rodi, da quella valle, unica al mondo, dove, una volta all’anno, si incontrano tutte le farfalle della Grecia. L’indirizzo è quello di Bologna di Carlo, il mio più caro amico da sempre. Niente di strano che una sua cartolina sia finita in un mio libro. Ma è singolare che non riconosca i nomi di chi mandava i saluti da laggiù: Celeste e Antonio. Chi sono? Scrivo a Carlo ,chiedendo spiegazioni. Questa è la risposta:

    Cara Daniela, trovo simpaticamente bizzarro il rinvenimento della cartolina.
    Ora ti espongo gli indizi del giallo di Rodi: occorre andare molto indietro negli anni senza fermarsi al lontanissimo 1965, quando tu ed io avevamo… 9 anni; bisogna raggiungere un tempo ancora più remoto, lontano, lontano, quando noi non eravamo ancora nati.
    In quegli anni, poco prima della seconda guerra e dunque (…) in pieno regime fascista, mio nonno materno lavorava a Ferrara e con mia nonna Alda e mia madre già adolescente, aveva preso in affitto un bell’appartamento in una casa in pieno centro. Il proprietario con la famiglia abitava al piano terreno, mentre mio nonno stava al primo piano. La casa aveva solo quell’unico piano e dunque era bassa come molte case del centro di Ferrara, ma era assai luminosa e aveva un bel giardino retrostante, silenzioso e curato, con alberi da frutta ben disposti e in fondo, nascosto dalle siepi e addossato al muro di confine, se ne stavano beatamente recintati un gallo grande e grosso e due galline bianche.
    A quei tempi c’era anche Dick al quale non era permesso accedere al giardino, per non spaventare le due galline che non avrebbero più fatto uova e per non far arrabbiare il gallo che avrebbe gridato a più non posso molestando il vicinato. A Dick era riservato l’androne con il solo permesso di guardare il giardino da dietro la porta vetrata, ma in compenso poteva mangiare in casa, nell’appartamento del padrone, in uno stanzino al piano terra, di fianco alla cucina e da là dentro poteva intravvedere le chiome degli alberi da frutta, sentire qualche chicchirichì e immaginare chissà quale vita pullulare laggiù.
    In compenso, alla fine dell’estate e per tutto l’autunno, Dick poteva, anzi… doveva, correre a perdifiato per le basse campagne distese lungo il Po e schiacciate dalla nebbia, afferrando fra i canneti la poca selvaggina che il suo padrone riusciva a impallinare.
    Mio nonno non andava a caccia e per Dick non era un buon partito da corteggiare per correre via fuori dall’androne, ma in ogni caso gli era ugualmente affezionato perché a mio nonno, noncurante dei rimbrotti di nonna, piaceva pranzare e cenare con quell’enorme cane bianco e nero seduto compostamente al suo fianco, sempre pronto ad ingoiare in un istante i bocconi che riceveva. Dick era affezionato anche a mia madre, perché anche lei, di nascosto a mia nonna, gli allungava tutto quello che non le piaceva mangiare, soprattutto di venerdì, quando il pesce era di precetto e lei detestava quell’animale molliccio dagli occhi grandi e dalla bocca tumefatta che mia nonna non sapeva preparare se non bollito con salsa verde e maionese.
    Abitavano già da diversi anni a Ferrara e mia madre era ormai grande quando mio nonno le permise di fare amicizia con le tre figlie del padrone di casa. Fu questo un gesto sorprendente: lui infatti non aveva mai acconsentito né a mia madre e né a mia nonna di fare amicizia nei luoghi dove il Governo lo mandava a lavorare, per sentirsi libero di agire senza troppi imbarazzi.
    Ma la famiglia del padrone di casa era integerrima quanto lui e poi tutti erano più che affidabili, eccetto Dick che una sera lo morse a tradimento trapassandogli la mano; e questo fatto sconcertante fu raccontato per anni, così da comprovare quanto fosse meglio e giusto diffidare di tutto e di tutti.
    La figlia maggiore del padrone di casa aveva l’età di mia madre; pochi anni di differenza aveva la seconda sorella, mentre la terza era ancora bambina quando scoppiò la guerra e quando mio nonno fu trasferito a Venezia.
    Tra guerra e trasloco, mia madre dovette chiudere quel periodo ferrarese nel baule dei suoi pochi ricordi migliori, mantenendo per anni uno scambio di lettere con le amiche lontane, ma senza conservarne nemmeno una foto. Eppure, nei momenti di vaga nostalgia supercontrollata, parlava di pomeriggi sereni e di cene festose, di tanta allegria destinata però a schiantarsi sotto i bombardamenti di Mestre e di Marghera.
    Finita la guerra, mio nonno era andato in pensione ed era tornato a Bologna e mia madre recuperò le sue uniche amiche lasciate a Ferrara. Il loro padre era morto durante la guerra e con lui anche il suo cane da caccia. La figlia maggiore si era da poco sposata e si era trasferita a Padova; la sorella mediana faceva l’artista d’avanguardia e dipingeva a Ferrara; e la più piccola? dove era finita la più piccola?
    La più piccola si chiamava Celesta Viveva con sua madre che la tutelava, sempre in apprensione per la salute di quella figlia obesa e non particolarmente acuta. Il mondo di Celesta era un mondo buono e tondo quanto lei; serena, pacifica, fiduciosa verso tutti perché i cattivi se li era portati via la guerra e le bombe non cadevano più. Nessuno però era tanto buono da amarla e così fu che quando un certo Antonio l’andò a cercare, lei se ne innamorò di colpo. L’anziana madre sentiva puzza di bruciato, anche perché lui era un bell’uomo, con molto charme, ma senza un quattrino.
    Mio nonno morì nell’ottobre del 1964 e dopo qualche mese, verso la primavera del 1965, mia madre volle andare a Ferrara per rivedere quella casa e le persone amiche che l’avevano abitata. Mi portò con sé e con noi venne pure mia nonna Alda.
    Ricordo bene quel pomeriggio; il giardino era un po’ trasandato e c’era un gallo che scorrazzava libero e che appena mi vide sul vialetto non perse tempo ad attaccarmi. Io corsi in casa e ritornai nel salotto dove le voci chiacchieravano basse, quasi a sussurri. Ogni tanto i toni si rallegravano, ma poi piombavano subito nei foschi ricordi della guerra e dei rispettivi mariti e padri defunti. Il cane Dick fu ricordato simpaticamente: fedelissimo finché non tradì con un morso ingiustificabile.
    Poi fu il mio turno: la signora si complimentò con mia madre e mia nonna per quel bravo bimbetto che ero, così a modo, così ben educato.
    Mia madre chiese della figlia maggiore e la signora se ne rallegrò: era un matrimonio felice, ma ancora senza figli. La seconda figlia faceva la pittrice e insegnava arte al liceo; non si era ancora sposata. E la più piccola? Che ne era di Celesta? La signora si fece silenziosa, poi bisbiglio poche parole. Mia nonna disse dispiaciuta: “Oh!…” e mia madre disse gioiosa: “Ma se si vogliono bene… e se Celesta è felice…”.
    La signora si voltò verso la porta e chiamò: “Celesta! vieni a salutare Giuliana e la signora Alda… vieni a conoscere il loro bambino!”.
    Apparve Celesta sulla porta. Me la ricordo enorme, il volto rosso, i capelli castani corti alla maschietto, un paio di occhiali spessi da miope. Era timida, un po’ goffa e se ne rimaneva lì sulla porta. Forse la guardavo con curiosità e non so dire se lei ne fosse impacciata.
    Mia madre si alzò per andarle incontro.
    Mia nonna le sorrise e dal divano disse compiaciuta: “Abbiamo saputo che ti sposi!”
    Celesta sorrideva e sua madre precisò: “Hanno deciso così… all’improvviso, su due piedi…”
    E mia madre: “Che bella notizia! E dove andate in luna di miele?”.
    Celesta disse felice: “A Rodi!”.

    tuo Carlo

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