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    Le Donne del Muro Alto


    Le donne del muro alto” è un progetto nato otto anni fa nella casa circondariale femminile di Rebibbia, a cura della regista Francesca Tricarico e dell’associazione culturale Per Ananke, che si occupa di promuovere l’arte e la cultura, il teatro in particolar modo, come strumenti di integrazione, educazione e riabilitazione. Per la prima volta nella storia di Rebibbia Femminile la sezione delle detenute Alta Sicurezza ha visto aprirsi le porte del carcere attraverso l’esperienza teatrale, che oggi continua con la media sicurezza e con le ex detenute e signore ammesse alle misure alternative alla detenzione. Incontro con Francesca Tricarico, che al teatro in carcere ha dedicato la sua vita. Dall’ultimo numero della rivista Una città… http://www.unacitta.it/it/home/ (tutto da leggere…)

    Come è iniziata la tua esperienza con il carcere di Rebibbia?
    La mia storia con il carcere è iniziata nel 2008 con un master di teatro sociale all’università La Sapienza, all’interno del carcere maschile dove ho fatto un tirocinio che doveva durare 300 ore. Sono rimasta lì 5 anni, all’interno della sezione di Alta Sicurezza, dove tra l’altro ho avuto anche l’occasione di lavorare al film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”, un’esperienza molto ricca e bella.
    In quel periodo ho iniziato a chiedermi perché delle esperienze culturali in carcere si raccontasse quasi esclusivamente il mondo maschile. Delle donne sentivo parlare prevalentemente a proposito di sfilate, cucito, cucina o corsi per badanti. Attività rispettabilissime che apprezzo, per carità (mia madre cuce, figuriamoci se ho una visione di parte), ma perché, continuavo a chiedermi, così poche narrazioni sul carcere femminile e la cultura, sui libri scritti da donne detenute, su donne laureate in carcere… Ho capito allora che le esperienze culturali nelle realtà femminili erano meno diffuse, ma anche meno raccontante e ricercate. Quando ho chiesto come mai, mi è stato risposto che le donne sono di meno, ma soprattutto “sono più complicate”.
    Sentirsi rispondere, io donna, che il problema sta non solo nel numero ridotto delle donne in carcere, ma soprattutto nel fatto che sono più “difficili”, ha fatto crescere in me il desiderio di indagare la realtà carceraria femminile. Continuavo a domandarmi: davvero la motivazione sta nel fatto che sono poche e difficili? Se sono difficili allora lo sono per le sfilate come per i libri…
    Ho deciso così di andare dal garante regionale dei diritti dei detenuti dell’epoca, parlargli dell’esperienza maturata nel carcere maschile e della mia volontà di conoscere la realtà femminile; ero disposta a continuare lì il tirocinio. Non solo sono stata ascoltata, ci eravamo già incontrati durante le riprese del film, ma mi è anche stato proposto di dirigere un laboratorio teatrale nella sezione di Alta Sicurezza del femminile, che non era mai stata aperta a questa attività.

    E come sei stata accolta? Ci sono stati momenti di diffidenza?
    All’inizio ho incontrato tantissima diffidenza. Ma non era un problema solo delle donne detenute. Prima che iniziassi, continuamente mi era stato ripetuto “lascia stare non ne caverai nulla, le donne sono molto più difficili degli uomini”. Alcuni registi, all’epoca con più esperienza di me, mi hanno detto: “io ho provato con le donne… mai più!”. C’era quindi anche la mia di diffidenza, volevo capire qual era la mia verità, oltre quella delle donne. Loro, d’altro canto, erano estremamente diffidenti, temevano di essere manipolate, che la loro immagine e le loro storie venissero utilizzate esclusivamente per interessi personali come era accaduto con personaggi noti, di passaggio in carcere per attività “spot”, senza continuità e una reale volontà di lavorare con loro e per loro. Il primo anno è stato un incubo e una bellissima esperienza nello stesso tempo. Per un anno intero mi hanno “testata”, per capire se io ero davvero lì con loro e per loro o per mio tornaconto personale.
    Quando lavori con le donne, a differenza del carcere maschile (questa è la mia esperienza naturalmente), c’è un continuo chiedersi perché: perché facciamo questo, perché non lo facciamo, perché ci chiedi questo, perché ci chiedi quell’altro. Fino allo sfinimento. E’ stato un test sulla mia pazienza ma anche su quanto io fossi vera, sincera, finché un giorno non abbiamo discusso, come solo le donne sanno fare. Sono esplosa in modo duro anch’io, e dopo questa esplosione il nostro rapporto è cambiato. La verità con cui mi sono rivolta loro, con cui senza filtri ho detto tutto quello che pensavo, ha fatto sì che si aprissero davvero. “Da oggi siamo con te, sei vera”. Io chiedo, come chiede il teatro, ai miei attori in carcere come fuori di essere nudi, veri, ma non puoi chiedere agli altri di esserlo se non lo sei tu per prima.

    Così è nata la compagnia delle Donne del Muro Alto…
    È nata proprio nella sezione Alta Sicurezza, 8 anni fa, ed è poi divenuto “Le Donne del Muro Alto” il nome del progetto in corso tutt’ora sia in carcere che fuori con un gruppo di ex detenute.
    La meticolosità con cui queste donne lavorano una volta conquistata la loro fiducia, il coraggio di scendere nel profondo, di lavorare anche con le emozioni più scomode, di raccontare e raccontarsi, di non temere il giudizio perché già giudicate, ci ha permesso negli anni di realizzare spettacoli che hanno affrontato con ironia e commozione temi importanti. Protette dalle storie dei grandi autori, che puntualmente riscriviamo contestualizzandole in modo nuovo, indaghiamo nelle nostre storie, nelle storie delle nostre famiglie, con forza e coraggio più grandi di quelli che ho trovato nel maschile, probabilmente per la tipologia di percorso che abbiamo scelto di fare.
    Il nome, “donne del muro alto”, è nato proprio perché lavoravamo nell’Alta sicurezza, che è un muro nelle mura di cinta, una sezione a parte, dove si hanno restrizioni maggiori. Ricordo che prima che ci dessero la possibilità di fare le prove nella palestra (uno spazio più intimo), utilizzavamo l’area della socialità, il luogo dove si vede la televisione insieme nelle ore di “socialità” appunto, dove si gioca a carte, si scambiano due chiacchiere… Fare le prove col sottofondo di ‘Uomini e Donne’ di Maria De Filippi non era semplice. Allora abbiamo chiesto a tutta la sezione di rinunciare per tre ore due volte a settimana, e a ridosso degli spettacoli più volte, a quell’area comune. Un grande sacrificio che tutte hanno accettato di fare perché anche la loro voce potesse arrivare all’esterno, grazie agli spettacoli delle loro compagne. Gli spettacoli sono così diventati di tutte, non solo delle partecipanti al laboratorio teatrale ma dell’intera sezione.
    Tre anni fa mi è stato chiesto di lavorare anche in media sicurezza e da novembre 2020 ho iniziato anche con le ex detenute e signore ammesse alle misure alternative fuori dal carcere.

    Continui quindi nel femminile, un universo relativamente piccolo, che “paga” il dover vivere in un sistema tutto pensato al maschile.
    E in più in questi anni ho capito come queste donne subiscano uno stigma maggiore rispetto agli uomini. Perché ancora oggi in Italia essere una donna che ha commesso un reato è una colpa più grande di quella di un uomo che sbaglia.
    Non solo. Se è vero che queste donne sono inizialmente “più difficili”, se è più complesso conquistare la loro fiducia, se sono più arrabbiate degli uomini, se accettano meno la detenzione c’è un perché, come sempre. Un contesto di provenienza che non può non essere preso in considerazione. Solitamente, non tutte naturalmente, hanno situazioni familiari complicate, molte hanno subito violenze fisiche e psicologiche, hanno spesso i compagni in carcere, a volte persino l’intera famiglia. Hanno quindi meno colloqui, meno disponibilità economica, meno possibilità di vedere i figli, affidati a case-famiglia o a genitori anziani a volte lontani e con difficoltà a fare i colloqui. Vivono dunque spesso un abbandono maggiore rispetto agli uomini. C’è una battuta che abbiamo scritto per la nostra personale rivisitazione di Medea: “Gli uomini hanno sempre una mamma, una sorella, una moglie, una fidanzata, una scema come noi che li va a trovare. Noi siamo sole”.

    Fare teatro è un modo per interrogarsi anche sulla nostra società
    Io penso che il teatro in carcere sia un importante strumento di riflessione per il “fuori” quanto per il “dentro”. Con il teatro le attrici detenute hanno la possibilità di dedicarsi ad un’attività che permette di far arrivare la loro voce all’esterno, oltre le mura carcerarie, e di avere uno spazio d’espressione anche emotivo nel luogo per eccellenza del contenimento. In carcere può essere pericoloso lasciarsi andare alle emozioni così come contenerle sempre, cosa che può avere serie conseguenze psicologiche e fisiche. Il teatro offre questa libertà senza rischi, protette dalla storia da raccontare, dalla forma da utilizzare, con i tempi e il ritmo del racconto. E dà l’opportunità di avere lo spazio e il tempo di dedicarsi anche a riflessioni altre oltre le quotidiane.
    Il pensiero va ad una ragazza dell’Alta Sicurezza con cui ho lavorato ad uno spettacolo sulla vita della drammaturga francese Olympe de Gouges, che prima approva la rivoluzione, poi decide di opporsi perché, accusa, “avete scritto una costituzione così giusta da non avere il coraggio di applicarla, le donne ad esempio le avete dimenticate”. Uno spettacolo ricco di riflessioni anche sulla nostra costituzione, sui nostri doveri e diritti, oggi come ieri. A ridosso della prima, questa ragazza mi dice: “io ti odio, sei la persona più cattiva che io conosca! Nessuno mi ha mai fatto del male come me lo stai facendo tu!”. E io.. “ma come?! Sei in Alta Sicurezza, vieni da una storia complessa, e io sono la più cattiva? Non ho capito nulla, allora!”. E lei: “la protagonista è una donna forte determinata coraggiosa, come me”. E allora? Qual è il problema? “A Napoli mi hanno insegnato che nisciuno muore ppe nisciuno. Questi maledetti libri invece raccontano di tante donne morte per un bene comune, io oggi ho un problema ed è colpa tua che mi hai dato questi libri”.

    Storia bellissima, stravolgente, anche…
    Sì, mi sono trovata all’interno di una sezione di Alta Sicurezza, quindi con persone che hanno commesso reati importanti a discapito del bene comune, ad affrontare con queste donne un confronto sul significato della parola ‘bene comune’ di una forza e di una verità che non ho trovato in nessuno dei centri “culturali” frequentati da intellettuali o pseudo tali.
    la nostra bella borghesia…
    Sì e qui torniamo all’idea che il teatro in carcere fa bene al dentro, ma anche e forse ancora di più al fuori, alla società esterna, ai salotti della nostra bella borghesia dove andiamo protetti dai libri che abbiamo letto, forti delle citazioni che ormai conosciamo a memoria. E’ sicuramente importante fare teatro dentro, stimolare nuove riflessioni in queste donne che hanno figli, nipoti, con cui possono confrontarsi una volta uscite, a cui trasferire nuove visioni quando ne hanno. E anche se si tratta solo di dieci, venti donne, è già un lavoro grande. Ma mai grande come il lavoro che possiamo fare con la società fuori. Innanzitutto, il teatro in carcere ritrova la sua essenza, l’urgenza e la necessità. Queste donne hanno la necessità, l’urgenza di raccontare e raccontarsi anche fuori. Normalmente possono rivolgersi esclusivamente ad un numero ristretto di persone legate in un modo o nell’altro al carcere, il dottore, l’avvocato, il personale dell’istituto penitenziario, i famigliari ai colloqui… Il teatro dà loro invece la possibilità di parlare ad una platea vasta e variegata, fatta di curiosi, addetti ai lavori, intellettuali, famigliari, personale del carcere, teatranti, giornalisti, studenti… Dopo la rappresentazione si torna in cella. Quindi è un’occasione unica che nessuna vuole perdere anche se fare teatro in carcere è sfiancante… il rumore, la confusione, gli imprevisti, donne che entrano donne che escono, e le altre mille difficoltà del luogo e non solo.
    Inoltre, il teatro in carcere non ha paura della verità o del giudizio perché queste donne sono già state giudicate. Un teatro che non ha paura del confronto in una società che sempre meno accetta la verità, limitando sempre di più il confronto, chiusa nella “bolla” dei social.


    Come racconta anche il vostro “Ramona e Giulietta”, sottotitolo Quando l’amore è un pretesto, particolarissima rilettura di Romeo e Giulietta, dove protagoniste sono due lei….
    Il carcere è un’enorme lente d’ingrandimento su quelle che sono le dinamiche dell’uomo con se stesso e in relazione con l’altro e la società. Il teatro pure è lente d’ingrandimento. Per questo si sposa così bene il teatro con il carcere perché è una lente di ingrandimento su una lente d’ingrandimento. Il carcere non è un mondo a sé, ma è parte della società, ciò che raccontiamo dentro non è altro che ciò che accade fuori, ma all’ennesima potenza, come tutto ciò che si vive in carcere, dal dolore alla gioia ai problemi burocratici. Perché tutto è amplificato dalla restrizione. “Ramona e Giulietta” nasce due anni dopo la celebrazione della prima unione civile tra donne all’interno di un carcere in Italia, scatenando reazioni opposte. Chi approva e difende questo diritto all’affettività, chi considera le unioni tra persone dello stesso sesso un qualcosa di vergognoso.
    In quel periodo fare le prove era molto complicato. Nelle sezioni, tra le donne con cui stavo lavorando, e non solo, l’atmosfera era tesa e c’era una rabbia che non avevo mai visto prima. Avevo la sensazione che da un momento all’altro la situazione potesse esplodere. Ho così deciso di iniziare un lavoro di ascolto proprio sulla rabbia, scoprendo infine che la tensione tra loro era dovuta all’eco di questa unione, alla divisione in corso tra chi sosteneva queste unioni e chi le rifiutava.
    Decidiamo allora di mettere in scena “Ramona e Giulietta”, una nostra personale riscrittura di Romeo e Giulietta, portando in scena l’amore tra due donne che si sono conosciute e amate in carcere, le liti, anche, in sezione o nella biblioteca, dove questo amore è nato. Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci senza paura di esprimere ciascuna il proprio punto di vista, poiché protette dalla scrittura, sino ad arrivare a capire che in realtà la rabbia non era nei confronti di queste donne e del loro amore, ma nasceva dall’impossibilità per le eterosessuali, che hanno i loro compagni fuori, di vivere l’affettività in carcere. Cosa che negli altri paesi europei è invece possibile.
    Una battuta dello spettacolo dice: “a un uomo, a una donna, se li privi dell’affettività, che cosa rimane? La rabbia… la frustrazione…”.
    “Ramona e Giulietta” è stato uno dei lavori più difficili da realizzare per il tema scelto, soprattutto in fase di scrittura. Il teatro è stato quella piazza neutra dove poter dire quelle cose che non avresti detto mai…
    In quegli stessi giorni in Italia, al nord in particolare, si manifestava contro le unioni civili fra persone dello stesso sesso, in difesa della famiglia tradizionale, come se le unioni civili fra persone dello stesso sesso volessero distruggere la famiglia tradizionale. In quello stesso periodo sul palco di Rebibbia Femminile ci siamo ritrovate a raccontare in modo diverso ma simile quanto stava accadendo fuori, cercando di capire da dove venisse tutta quella rabbia. Mentre all’esterno si manifestava pro e contro, noi dentro sostenevamo le nostre certezze e i nostri dubbi grazie al teatro.

    Ho potuto vedere Amleta, ancora uno Shakespeare rivisitato, molto particolare, con tante voci del Sud… Molto brave le tue donne. Riesci davvero a tirare fuori l’attore che è in loro..
    Amleta è stato scritto e realizzato con tutte donne campane all’interno della sezione Alta Sicurezza. Le attrici, davvero molto brave, lavoravano già da cinque anni con me. Un lavoro dove ho lasciato un pezzo del mio cuore. Abbiamo deciso di indagare i pericoli “dell’amore”, di quante volte abbiamo oltraggiato questa parola o siamo state oltraggiate in nome dell’amore, per un compagno o la famiglia. Abbiamo affrontato il tema degli affari di famiglia, sino ad arrivare a scrivere, protette dal racconto, cosa significa essere “figlia di…”, “moglie di…”. Sono state brave e coraggiose, poiché ancora una volta l’urgenza di raccontarsi, di essere ascoltate, è stata più forte della difficoltà di affrontare certi argomenti.

    Ed è arrivato il covid. Ma non vi siete fermate.
    Adesso abbiamo in corso un progetto cui tengo tantissimo, iniziato a novembre quando in carcere non si poteva più entrare. E’ nato dall’idea di proseguire fuori il percorso teatrale iniziato dentro con alcune signore uscite in libertà o ammesse alle misure alternative alla detenzione. Ho ottenuto il permesso dal magistrato di sorveglianza, per il progetto che è sostenuto dalla regione Lazio e a breve andremo in scena proprio con una rivisitazione della nostra “Ramona e Giulietta”, con queste signore, attrici ex detenute, che già avevano lavorato in carcere su questo testo.
    E’ un lavoro difficile. Pensavo che fare teatro fuori fosse complesso, ma non più del farlo in carcere, dove ogni giorno hai un imprevisto ad attenderti, legato alle urgenze dell’istituzione… Ma per quanto il carcere sia un’esperienza difficile che non auguro a nessuno, lì comunque si vive in una sorta di “bolla” con le sue regole, tempi e spazi. Quando escono, molte di queste donne si scontrano con una realtà che non è più quella di quando sono entrate in carcere, spesso sono sole, senza lavoro e con una famiglia di cui occuparsi quando ne hanno una dove tornare. Hanno bisogno di lavoro, di tornare ad avere fiducia in loro stesse, di sentirsi accettate dalla società per non cadere nuovamente nel baratro dell’isolamento e rischiare di tornare indietro.
    In questo momento sono molto impegnata anche nella ricerca di fondi, affinché le mie attrici siano riconosciute come vere e proprie lavoratrici dello spettacolo, il loro impegno sia riconosciuto come un vero e proprio lavoro, quindi poterle retribuire adeguatamente, fornendo anche una formazione più ampia legata ai diversi mestieri del teatro.

    E ci riesci?


    Non è semplice. Molti amici-spettatori negli anni ci hanno sostenuto nei momenti più difficili, quando non eravamo coperti da bandi. Sino a dicembre siamo Officina di teatro sociale, ma non riusciamo a retribuire le nostre donne come meriterebbero, stiamo quindi cercando nuove opportunità, siamo sempre alla ricerca di nuovi bandi. Perché questo è un lavoro e come tale deve essere trattato. Le mie attrici per le prove, che facciamo a Roma, vengono da lontano, Olevano Romano, Anzio, Nettuno… Non è semplice soprattutto per molte di loro che non hanno una tranquillità economica e famigliare.

    Qualche settimana fa sulla vostra pagina ho letto: “Ieri ci siamo spogliate tutte insieme, è stato doloroso e leggero come non accedeva da mesi. Troppi mesi, o forse no, quelli necessari per trovare nuovamente il coraggio di farlo. …Di sfogliare quelle verità che proteggi con cura anche da te stessa. Ci hanno chiesto di raccontare la nostra avventura teatrale a Rebibbia e fuori, abbiamo parlato della nascita del nostro Ramona e Giulietta. Mi sono commossa leggendo…
    E mi commuovo ancora, perché è una riflessione nata in un periodo molto difficile per la nostra compagnia all’esterno. La vita non regala niente a nessuno e regala tutto allo stesso tempo, con sorprese inaspettate che all’improvviso ti ripagano di quanto vissuto. Abbiamo affrontato problemi di salute, famigliari, lavorativi, in un contesto in cui il teatro è diventato un importante punto di riferimento, una vera famiglia con tutti i dolori e le gioie della famiglia. Nonostante le difficoltà affrontate, il teatro ha sempre continuato ad essere una priorità per tutte noi, il nostro lavoro, la nostra casa. Non abbiamo mai perso l’entusiasmo.
    La riflessione che hai letto sulla nostra pagina Facebook “Le Donne del Muro Alto” è stata scritta dopo che ci è venuta a trovare Giulia Anania per il Festival delle periferie… le abbiamo raccontato come abbiamo riscritto “Ramona e Giulietta”, di quanto è stato doloroso scoprire che inizialmente nel testo era presente solo la rabbia, che ci eravamo dimenticate l’amore… Quando siamo rimaste sole siamo tornate indietro, al viaggio nelle nostre paure, che abbiamo affrontato anche grazie a quel lavoro, fino a scoprire che in realtà l’amore c’era. Era sempre stato lì, avevamo solo bisogno del giusto tempo per tornare a inserirlo anche nei nostri racconti.
    Una delle attrici di “Ramona e Giulietta”, Vincenza, non c’è più. E’ morta, per un infarto mentre era in carcere. Aveva problemi psichiatrici, era la mia compagna delle elementari che avevo ritrovato in carcere. Tu pensi di avere il pelo sullo stomaco, di conoscere il carcere, saperlo vivere, e poi incontri lì la tua infanzia… Quindi ci siamo ritrovate a parlare di Vincenza, del percorso intimo che ognuno di noi ha fatto, di quanto il teatro ci ha messo a nudo, ci ha protetto, ci ha fatto a cadere giù e poi risalire su.
    Io non dico più che il carcere mi ha tolto dieci anni di vita, ma che mi ha dato dieci anni di vita. Sento di avere vissuto tante vite, insieme alle vite delle mie attrici…
    Ogni viaggio che chiedo di fare a una mia attrice è un viaggio che faccio anche io con lei e con me stessa. E’ il teatro lo strumento che ho scelto per indagare dentro di me attraverso l’altro, di raccontare ciò che credo sia necessario raccontare, di ascoltare e di essere ascoltata, di dare voce a chi non ne ha, combattere gli stigma sociali, fare politica.
    E’ l’essenza del perché facciamo questo lavoro, di cui, ripeto, c’è bisogno dentro e fuori le mura del carcere, dove tutto avviene in modo più intenso, con la nostra lente d’ingrandimento. E tutto assume un senso più profondo quando riusciamo a farci ascoltare fuori da quelle mura…

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