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    Le scarpe dei matti

     

    le scarpe dei matti copertinaCi sono al mondo persone che hanno una capacità immensa di assumere su di sé il dolore degli altri e restituirlo a noi in paesaggi umani che sono anche la nostra storia. Come riesce a fare, osservando e studiando e immergendosi nelle periferie dell’esclusione sociale, Antonio Esposito (fra le tante cose autore con Dario Stefano dell’Aquila di quel viaggio nell’incubo che è stato “Storia di Antonia”. Antonia Bernardini, che morì a 41 anni, bruciata viva sul letto di contenzione, nel manicomio giudiziario di Pozzuoli, ne abbiamo parlato… https://www.remocontro.it/2017/11/12/viaggio-antonia-al-termine-del-manicomio/).
    Molto scava, Antonio Esposito, addentrandosi nei meandri delle vite, percorrendo, spesso, luoghi nascosti.
    Così è accaduto che un pomeriggio di gennaio di due anni fa, percorrendo i sotterranei del “Santa Maria Maddalena”, l’ex manicomio di Aversa, la luce della torcia con cui si fa strada illumina decine e decine di scarpe, “impolverate, rotte, rosicate dai topi, spesso spaiate. Cumuli di scarpe senza lacci (vietati in manicomio) abbandonate in un altrove nascosto, pezzi di storie smarrite, testimonianza di sentieri interrotti e cammini traditi”. Come non pensare alle scarpe già viste ad Auschwitz… “Da allora porto quell’immagine come si porta un dolore, una ferita agli occhi che non può essere guarita”.
    Da quella ferita è sgorgato un libro preziosissimo, “Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019)”, pubblicato dall’editore napoletano “ad est dell’equatore”.
    Solo il dolore che nasce dalla capacità di patire insieme, ho pensato leggendo, permette di accostarsi senza violare ma accogliendo le vite degli altri e, ricollocandole nel percorso della Storia, aiutare a conoscere, insegnare a farci domande, capire, cercare strade. E ho immaginato, mi perdonerà, Antonio Esposito infilarsi, di nascosto, quelle scarpe senza lacci prima di attraversare un secolo e più della storia della nostra psichiatria, e coglierne mille sfaccettature.
    Lavoro documentatissimo, il suo, e molto articolato, che nel racconto delle norme e delle pratiche mediche che via via nascono, apre pagine fitte fitte di stralci di dibattiti, confronti, resoconti di attività parlamentari, sentenze… che la formazione delle norme e delle pratiche mediche hanno accompagnato. Senza mai dimenticare quelle vite bandite di “matti come storie ferite”. Permettendoci così di seguire il filo rosso che arriva fino al discorso psichiatrico dell’oggi, perché non si può capire la psichiatria di oggi (ha scritto Eugenio Borgna) “se non si sappia riflettere sugli abissi di dolore che si accompagnavano, dilatandola e ampliandola, ad ogni sofferenza psichica immersa nella solitudine di un manicomio”.
    Un libro per lettori “forti”, avverte Esposito, ché già basta qualche titolo: povertà, internamento e deportazioni, il manicomio dei bambini, l’elettroshock lombopubico… e tutti gli orrori, che non vengono risparmiati a partire da quando, nella prima metà del secolo scorso, “le innovazioni psichiatriche offrono la prospettiva di superare quello che era stato fino ad allora semplice contenimento nei luoghi dell’abbandono”, ma è sugli uomini e le donne e i bambini internati in manicomi e cliniche universitarie che vengono effettuati esperimenti pur “arditi” e dagli effetti “drammatici”.
    Come è possibile, vien da chiedersi leggendo. Eppure, e aiuta a capire lo spirito dei tempi, parla per tutto l’affermazione di padre Agostino Gemelli, che definisce le malattie mentali le peggiori “perché tolgono all’uomo ciò per cui l’uomo è tale”. Dunque perché le persone internate sono considerate non umane, e questi uomini socialmente perduti, “pericolosi e di pubblico scandalo”, vite infami, per dirla alla Foucault, che pure qui è forte riferimento… diventano “cose” su cui tutto è lecito provare (lobectomia, piretoterapia, insulino-terapia, elettroshock…)
    Una storia che molto serve a comprendere l’oggi è quella del manicomio criminale, che qui viene dettagliatamente ripercorsa e si ricorda che Augusto Tamburini, sul finire dell’800 presidente della società freniatrica italiana, lo pensa come difesa contro quello che Lombroso definisce “focolaio di infezione sociale”, e i suoi ospiti “esseri ben più pericolosi dei comuni condannati perché spinti da impulsi morbosi”. Sappiamo cosa è nato dagli intrecci tra teorie lombrosiane e psichiatria… e sarà poi il codice Rocco a stabilire le misure di sicurezza che hanno prodotto il fenomeno dell’ergastolo bianco (dove la pena non è commisurata alla gravità del reato, ma diventa di fatto eterna, legata al concetto di pericolosità).
    I manicomi criminali, rinominati negli anni Settanta del ‘900 Ospedali psichiatrici giudiziari, sappiamo sono stati infine chiusi, ma le norme del Codice Rocco rimangono. E ancora oggi, nonostante il cammino per tanti versi straordinario fatto finora, il superamento degli OPG, la legge 180, la restituzione dei diritti di cittadinanza ai sofferenti psichici…, sono spia della vecchia visione del malato psichiatrico come persona pericolosa, da contenere più che curare, una visione che ancora serpeggia fra noi. Fra noi abitanti dell’era della camisole chimique, membri di una società “che preferisce definirsi malata anziché riconoscere nelle proprie contraddizioni il prodotto del sistema su cui si fonda”, ancora lontana dal considerare che, come scrive Assunta Signorelli nel saggio che apre il libro, la malattia è una forma dell’esistere e “la normalità, intesa nel senso nobile del termine, altro non è se non un continuo oscillare fra salute e malattia, entrambe strettamente collegate all’ambiente socioculturale nel quale la persona vive”.
    Mi fermo qui. Impossibile in questo spazio riportare tutto quello che bisognerebbe sapere, sviluppato nelle quasi 700 pagine del volume, comunque legibilissimo. Mai freddo, neanche nelle sue parti più “tecniche”, perché sullo sfondo rimane sempre presente l’emozione dolorante di quell’immagine di scarpe senza lacci, e dei loro strascicati passi…
    Provate a calzare anche voi quelle scarpe, come ha fatto l’autore del libro, per riuscire a guardare, anche voi, come guardano i suoi occhi…
    Perché farlo? Un buon motivo ce lo dà Dario Stefano dell’Aquila: “perché oggi, nonostante le celebrazioni, è purtroppo evidente che la lotta che ha portato alla chiusura dei manicomi non è riuscita a superare la logica che ai manicomi sottendeva”. Se ancora oggi, appena ieri, a Bergamo, la morte terribile e assurda di Elena avvolta dal fuoco di un incendio mentre è legata a un letto di contenzione, come quasi mezzo secolo fa accadde ad Antonia.
    Morti a cominciare dalle quali tutti dovremmo interrogarci perché, come titola l’ultimo capitolo de “Le scarpe dei matti”, dietro ogni scemo c’è sempre un villaggio…

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