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    Piazze in movimento, e non solo…

    Dopo la strepitosa vittoria del pensiero libero… perché così non posso che leggere il risultato referendario, se l’informazione e la formazione delle opinioni si è formata lontano, anzi indifferente alle voci, ( o forse meglio al silenzio) degli apparati dell’informazione “ufficiale”… una riflessione, per quanto piuttosto a latere, sul giornalismo partecipativo. Rispondendo, qualche tempo fa, alle domande di una giovane laureanda dell’Università di Urbino.

    D. Secondo Lei, quali cause stanno alla base di questo fenomeno ormai dilagante? Cioè, secondo Lei, qual è il motivo principale che spinge un cittadino qualsiasi a partecipare attivamente a un blog o in molti casi a fondarne uno, oppure semplicemente a dare testimonianza di fatti tramite i social network? R. La risposta, immediata, che darei, è forse banale… ma il desiderio di comunicare nasce con l’uomo. Ogni tempo ha i suoi strumenti e le sue strade. Dal racconto orale intorno al fuoco, ai messaggeri che hanno traversato foreste e deserti, da un villaggio all’altro, e così via attraverso secoli e millenni, con le parole affidate ai libri, poi a fogli di giornale, agli impulsi via radio, alle tv… alla rete! Comunicare, testimoniare, raccontare, è spinta a cui nessuno di noi, consapevole o no, si è mai sottratto. Come non approfittare, allora, degli ultimi strumenti a disposizione, che permettono a ciascuno di noi di ampliare enormemente il numero dei destinatari del nostro messaggio. Un salto “di quantità” che diventa anche “di qualità” quando, nella trasmissione del messaggio, cerchiamo di mettere tutta la conoscenza di cui siamo portatori, ciascuno nel proprio campo d’esperienza. E questo è uno sforzo che, a mio parere, ciascuno è portato a fare, nel momento in cui sa di potersi rivolgere a un “pubblico” ben più ampio della cerchia dei conoscenti, dal quale fra l’altro possono derivare feedback altrimenti impensabili. Una spinta ulteriore, a mio parere, è venuta anche dall’essere consapevoli del fatto che esiste finalmente un campo di manifestazione del pensiero che non incontra i limiti e le barriere dei luoghi “ufficialmente” ( ma lo sono ancora? E chi e per chi, e per quanto lo saranno ancora?) deputati ad informare. Mi riferisco a limiti di vario genere. Tutt’altro che secondario, ad esempio, il problema economico: i costi di utilizzo della rete sono praticamente nulli, rispetto e quelli di un giornale cartaceo o di una televisione, per quanto di nicchia. E dal “limite economico” non possono che derivare limiti di indirizzo, e quindi vincoli di contenuti, sia in termini qualitativi che in termini quantitativi. Per non parlare dell’assenza di vincoli per così dire “burocratici”, il fatto cioè che in rete nulla e nessuno è titolato a dare autorizzazioni, a decidere insomma chi, e come e in quali forme, è “adatto” a fare informazione. (E qui, a margine, si potrebbe aprire una parentesi su ruolo, significato e attualità degli ordini professionali, argomento delicato e complesso su cui da tempo c’è dibattito. Ma forse può essere l’argomento di un’altra tesi).(…)D. Il giornalismo partecipativo, forse più che mai, concretizza i principi di  libertà d’espressione e di informazione auspicati dall’art. 21 della nostra Costituzione; ma, secondo Lei, contribuisce realmente alla costruzione di un pluralismo informativo o, spesso, non trattandosi di fonti autorevoli, viene sottovalutato?

    R. Che il giornalismo partecipativo contribuisca alla costruzione di un pluralismo informativo lo dimostra la cronaca. Lo ha dimostrato in maniera eclatante, quest’estate, il caso dei rapporti segreti del Pentagono sulle operazioni militari americane in Afghanistan pubblicati di WikiLeaks. Come altri documenti svelati dal sito, queste informazioni sono state immediatamente riprese dai principali mezzi d’informazione. E’, in questo caso, la forza delle notizie che si impone. A parte qualsiasi valutazione di ordine politico, la diffusione di questo tipo di informazioni, ci offre ad esempio la possibilità di fare i conti con la cronaca, prima che diventi materia da storici affidata agli archivi. Wikileaks, come ha spiegato uno dei suoi fondatori, Julian Assange, si fonda su una struttura decentrata, amorfa, con solo cinque impiegati a tempo pieno, e si propone come modello per altri mezzi d’informazione. Certo, tutt’altra eco, se più generalmente guardiamo all’immenso al volume di informazioni fornite in maniera più o meno organizzata nel suo complesso dal citizen Journalism. E se indubbiamente un problema di verifica delle fonti può esistere, non penso che, in generale, la scarsa eco del prodotto del giornalismo partecipativo dipenda dal fatto che fonti non autorevoli vengano sottovalutate. Innanzitutto io non trovo appropriato il termine “sottovalutazione”. Dà per scontato che, per essere giustamente valutata, una notizia debba avere l’avallo dei principali mezzi di informazione. Debba cioè essere ripresa da canali televisivi nazionali, dai grandi quotidiani eccetera eccetera, insomma dal mondo dell’informazione tradizionale, negandone valore autonomo. Comunque, a mio parere nel mondo dell’informazione tradizionale il giornalismo partecipativo non viene affatto sottovalutato per tutto ciò che è funzionale a ciò che è già scritto debba essere notizia. Penso, per esempio, ai  video girati da privati che riguardano alcuni fatti di cronaca e che rimbalzano sugli schermi delle tv, nazionali e non. Penso, ad esempio, all’onda, ripresa da un turista, che invade un breve tratto di spiaggia in Indonesia e diventa per giorni il simbolo di tutta la tragedia dello tsunami. Il giornalismo partecipativo viene piuttosto lasciato lì, nella rete del suo universo, per tutte le altre questioni che l’informazione “ufficiale”, o almeno una parte di essa, ha già deciso di non vedere e non sentire. Valga per tutti, nel piccolo del nostro paese, la questione dei rifiuti nel napoletano e nel palermitano. Per quanto cittadini e comunità locali abbiano invaso blog e siti con testimonianze sui problemi che permanevano sul territorio, questi sono stati a lungo ignorati da una parte dell’informazione ufficiale, da noi ancora dominante. Ma le notizie, come le idee, hanno le gambe e, comunque, grazie anche alle nuove stampelle, camminano. Tutte. In ogni caso credo che oggi gli equilibri si stiano a poco a poco spostando. Forse oggi parlare di titolarità dell’informazione, sta diventando cosa dai confini incerti, piuttosto frantumati, mi sembra. Ma questo riguarda solo un aspetto della questione. Vorrei porre invece l’accento sul fatto che la costruzione del pluralismo informativo passa anche attraverso momenti quotidiani forse più sommessi, ma che io trovo tutt’altro che trascurabili. Parlo dell’informazione che nasce come risultato di scambio anche solo di pagine conversazione. Molto meno eclatante, ma che io trovo fondamentale nel processo che si sta sviluppando. Considero una forma di giornalismo partecipativo molto interessante, ad esempio, la rassegna stampa su Radio Tre (Rai), la mattina alle 7,15, cui seguono gli interventi degli ascoltatori. Gli interventi sono pieni di informazioni precise e attuali, riguardano sempre più argomenti dei quali chi interviene ha conoscenza diretta e, anche per motivi professionali, molto dettagliata e puntuale. Considero questo uno spazio pubblico, non rigido, di vera crescita, di conoscenza e quindi anche culturale, sia per chi dà, che per chi riceve informazioni. E a questo proposito è opportuno considerare che il tema della partecipazione e dell’interazione sta investendo da anni tutti i campi. Urbanistica, arte, politica…  C’è una crisi di rappresentanza generale che va da chi fa informazione, a chi fa politica, a chi amministra il territorio, quindi sempre più si aprono spazi per proposte che partono dal basso. Il giornalismo partecipativo rientra in questo panorama generale favorito anche dai nuovi network sociali che utilizzano internet.

    D. Molti, soprattutto giovanissimi, si informano principalmente attraverso queste nuove forme comunicative: secondo Lei, ciò comporta dei rischi? Se si, quali sono?

    R. I rischi nascono, come del resto in ogni attività, dai limiti eventuali del bagaglio e degli strumenti culturali con i quali ci si avvicina alle nuove forme di comunicazione. E la questione è molto delicata per i giovanissimi, per i quali strumenti e bagaglio culturale sono in via di formazione. Forse per loro è più difficile saper distinguere, come dire, il grano dal loglio. Certo, di informazioni distorte o inattendibili la rete è piena. Non potrebbe essere diversamente. Ma tesi e testi errati, discutibili o addirittura falsi, si trovano anche nei libri, per non parlare di giornali, riviste e televisioni varie. Importante è lo sviluppo di un’attenta capacità critica, che, a mio parere, solo dal confronto può nascere. Che pure in parte in rete è possibile avere. E non sottovaluterei la capacità di autocorrezione della rete stessa. In particolare penso ai siti wiki, vere e proprie enciclopedie, alla cui formazione tutti possono partecipare, e quanto più vasta è l’interazione, più basso è il rischio di errori, perché più serrato è il controllo collettivo. Mi è stato detto che la probabilità di errore di un sito wiki, è quanto quella della enciclopedia britannica. E in effetti a chi interviene in un sito Wiki si chiede che le fonti siano dirette, di prima mano, non copiate, verificate… esattamente quello che non sto facendo io in questo momento, che di questo dato non ho avuto tempo di verificare alla fonte, ma che non ho resistito dal proporre e potrei ricordare male. Per quanto riguarda i giovanissimi, c’è da tener presente che le informazioni che mediamente cercano su internet non sono “generali”, come forse facciamo noi, storicamente lettori o ex lettori di giornali. Piuttosto che cercare una sintesi di come va il mondo, i più giovani si informano su argomenti precisi di proprio particolare interesse, e quanto più la conoscenza è specifica, più è semplice correggere i propri e altrui errori…

     -D. Il citizen journalism potrà mai sostituire il giornalismo tradizionale?

    R. Sostituirlo completamente credo, e spero, in ogni caso di no. Come primo motivo, per lo stesso principio di libertà e pluralità d’espressione e d’informazione. Se qualche dubbio si può avere sulla necessità degli ordini professionali, certo non credo se ne debbano avere sul ruolo e sulla necessità dei “professionisti”, cioè di persone con un mestiere del quale abbiano una visione d’insieme, nell’ambito della quale costantemente si cerchi di approfondire, affinare e ampliare, capacità e settore d’interesse. E questo forse mi sembra persino ovvio, perché è cosa che vale per il giornalismo, come per qualsiasi altra attività. Con un lavoro in più, oggi, per il giornalista di professione: saper leggere, selezionare, annodare, anche, le fila, di quanto il giornalismo partecipativo offre. Certo, in prospettiva, l’analisi va fatta anche tenendo presente i parametri demografici. Se sono appunto i giovanissimi, si diceva, che si informano prevalentemente attraverso le nuove forme di comunicazione è alla generazione più giovane che dobbiamo guardare. A questo proposito vorrei citare l’editoriale dell’ultimo numero di agosto di Internazionale. Richiama un articolo di Angelo del Boca sulla crisi dei giornali, che, perso il monopolio dell’informazione, “risultano incapaci a competere con gli altri mezzi d’informazione di quella che si sta già delineando come una società audiovisiva”. L’articolo di del Boca è di quarant’anni fa. Oggi, a dipendere dall’informazione televisiva è soprattutto la popolazione anziana. Tanto è vero che l’affanno contemporaneo delle televisioni, mi riferisco soprattutto a quelle che offrono informazione generalista, è cercare di conquistare il pubblico dei giovani. Che però già fugge altrove, verso pluralità diffuse, meno in cattedra, meno anchilosate …

     

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