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    Tatreez, il linguaggio non scritto della resistenza… )



    Tatreez, il ricamo tradizionale palestinese. Una vera arte, tessuta di fili dai vivaci colori che si inseguono e si intrecciano nel delicato gioco del punto a croce. Ma non è solo ornamento di abiti femminili tradizionali.
    “Molto diffuso nella società palestinese, esprime un patrimonio di conoscenze e abilità che si caratterizzano come una pratica sociale e intergenerazionale”, così ha fra l’altro motivato l’Unesco la sua decisione, nel dicembre scorso, di includere l’arte del ricamo palestinese nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
    Tatreez non è solo ornamento, ma anche “potente mezzo di comunicazione non verbale” che parla dei luoghi d’origine, dello stato sociale, del pensiero religioso e politico di chi ricama.
    E peccato non essere a Cagliari, dove Terra di Canaan porta, in proposito, una bella mostra: “Il ricamo palestinese, arte, tradizione e identità di un popolo”. L’allestimento è di Luciano Bonino, stilista che da tempo intreccia tradizione sarda e ricamo palestinese. Incantevoli contaminazioni…
    Così dal 26 marzo al 10 aprile la chiesa di Santa Chiara diventa palcoscenico dell’esplosione di colori di ricami che si alternano agli sguardi, in foto d’epoca, delle donne palestinesi con indosso i loro begli abiti.
    E peccato non poter essere a Cagliari. Perché la chiesa di Santa Chiara diventa anche luogo d’incontri intorno alla storia della Palestina, delle sue donne, di cooperative femminili, di brani della sua economia, della letteratura palestinese, di cultura e arte come forma di resistenza (il programma nella pagina FB di Terra di Canaan, che suggerisco di esplorare, e questo è l’invito alla mostra https://www.youtube.com/watch?v=TTQ7gVIihcI ).
    L’antica arte del ricamo, si sottolinea, rappresenta oggi certo un’importante risorsa economica per le donne e le loro famiglie, ma è anche forma di resistenza ai tentativi di cancellazione della cultura e dell’identità palestinese.
    C’è un mondo intero da leggere in quei ricami. Perché, bisogna sapere, prima della Nakba (la “catastrofe” del ‘48, quando circa 700.000 palestinesi furono costretti ad abbandonare i territori occupati da Israele) ogni centro della Palestina, città o villaggio, aveva un proprio “punto” di ricamo e ognuno un colore predominante. Insomma, se la forma dell’abito era più o meno lo stesso, la tintura utilizzata, ad esempio, a Gaza era diversa dal rosso di Hebron, come diversa era la scelta se privilegiare richiami floreali, o grappoli d’uva… Poi arrivano gli anni ’70 e, dove Israele vieta l’uso della bandiera palestinese, sugli abiti delle donne, a Hebron, Qalandia…, compaiono simboli: i colori della bandiera palestinese, la cupola di Aqsa… e gli aghi diventano armi…
    Fra gli incontri in programma a Cagliari, un cenno a quello sulla “letteratura palestinese come forma di resistenza”. Con Omar Suboh che, riflettendo sul fatto che “l’effetto principale del monopolio delle armi, dell’informazione, dell’istruzione e dei programmi universitari ha di fatto eliminato la Storia per il popolo di quella terra”, scrive fra l’altro che “la letteratura risponde alla possibilità di rievocare i luoghi cancellati per farli rinascere e rivivere attraverso una poetica dello spazio, in particolare per i palestinesi «mai fissi in un luogo», come ha scritto Darwish, ma soprattutto perché «l’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante», e quale modo migliore dell’arte, della poesia e della narrativa può rispondere a questa esigenza?”
    Come lo può la “letteratura”, mi permetto di aggiungere, di questi ricami. Che sono linguaggio non scritto per diffondere e tramandare storie. Di madre in figlia, di donna in donna. Immaginando queste donne curve sui ricami che nel silenzio scambiano fra loro parole di punti, così tramandando la Storia e resistendo al presente.
    Non sembri un salto pindarico, ma “leggendo” questi ricami, fermandosi sugli occhi di queste donne che ci arrivano da un passato che è appena ieri, viene da pensare alla storia di Filomela.
    Filomela, figura della mitologia greca, figlia di Pandione, re d’Atene. Fu violentata dal cognato, Tereo, e questo, perché non lo accusasse, le tagliò la lingua. Ma la violenza subita Filomela la raccontò in un ricamo, e il suo silenzio diventa, nel disegno ricamato sul tessuto, miracolo della parola.
    “Ogni filo è brandello di carne in cancrena / Ogni nodo il nome che mi sopraffece…”, mi piace ricordare i versi di Grazia Frisina che, riprendendo per la sua poesia il racconto dalle metamorfosi di Ovidio, mi ha fatto conoscere questa storia.
    E non posso non pensare a questi versi anche per le donne palestinesi e la loro terra violentata: “… come stendardo sventolerò questo arazzo / contro la complice sordità del cosmo”.
    Ecco, ricami sventolati come stendardi. Anche questi, a volerli ascoltare, rumorosissimi, come il silenzio sa essere.

    scritto per ultimavoce.it




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