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    Tornando da Gerusalemme

    Il Natale, è quello che ci si porta dentro. Attraversando le strade di Gerusalemme, la sera della viglia. Le luci di Gerusalemme sembrano fare parte tutte dello stesso presepe. Le mille e mille candele accese della festa di Hannukah, la festa delle luci, che ogni anno di questi tempi ricorda la rivolta dei Maccabei, nel Quartiere Ebraico della Città Vecchia. Che, solo a un passo, sul confine del Quartiere Armeno, diventano le luci di un abete decorato, che si affaccia nel riquadro di una finestra, al primo piano. Già a ridosso del Quartiere Cristiano, dove le luci sono i festoni di lampadine sospesi fra un muro e l’altro, e dondolano al vento. Le preghiere del Natale, appartengono alle chiese, il giorno di Natale, e il giorno dopo ancora. Ma la preghiera che ci si porta dentro, tornando, è quella che sale dalle moschee, e rompe la notte del giorno dopo ancora. Quando l’attacco a Gaza trasforma il Natale in un inimmaginabile strazio. Quella preghiera nella notte è un urlo. E fa paura. Ma quale paura, e per chi e per cosa? Svegliandosi la mattina, quando già le notizie sui bombardamenti su Gaza parlano di cento, duecento morti, ci sono soldati dappertutto. A presidiare la città. Li vediamo lì, di fronte alla Porta di Damasco, sul limite del Quartiere Musulmano. C’è una strana aria. Di tremore che contagia. Per quello che a quel punto, si pensa, in qualsiasi momento può accadere. “Non sarà rischioso andare a Betlemme?” chiede un turista. “Non credo” risponde qualcun altro, forse un pellegrino. “Non si faranno saltare nei loro stessi territori…”. “Ma forse… se restiamo a Gerusalemme, qui siamo tranquilli… per ora…”. “Ma potrebbero reagire… fare attentati..”. C’è un che di surreale, a pensarci, in dialoghi come questi…Quanto spaventa la minaccia che verrà…Un fantasma in divenire che fa più paura della furia dei mostri in ferro e fuoco, scatenati, adesso. E’ come una cappa che toglie il respiro. Mentre negli occhi dei pochi arabi che si incontrano c’è solo ancora umiliazione. E l’impotenza della gente già sconfitta. Davvero surreale, a pensarci, questo nostro tremore. Mentre poco più a sud, sulla gente intrappolata a Gaza continua il tiro al bersaglio. E i morti sono già trecento, e poi ce ne saranno altri ancora. Ma i morti non hanno tempo e voce per urlare la loro paura…la paura, d’altra parte, l’avvertono solo i vivi. E vivi e per ora al sicuro, siamo da quest’altra parte…
    E ritornano alla mente i morti della Shoah. Il loro memoriale è lassù, sulla Collina del Ricordo. Yad Vashem. No, viene da pensare, se potessero vedere, se potessero sentire, non sarebbero affatto fieri di tutto questo altro inumano dolore. “Non in mio nome…” forse, sussurra, qualcuno…
    E ancora una domanda, forse stupida, forse da profano… ma quale Dio ha mai potuto esonerare gli uomini dell’esercito israeliano dalle regole dello Shabbat, del sabato ebraico che vuole che nessuno lavori, nel giorno del Signore… ma forse sganciare bombe è tutta un’altra storia…
    Rientrando da Gerusalemme, rileggo La rabbia del vento, sconvolgente racconto di Yizhar,considerato uno dei padri spirituali della letteratura israeliana. Comparso nel 1949, è un resoconto sull’espulsione del popolo palestinese dalle sue terre. Ma è anche riflessione sul rapporto con l’altro, una folla di dubbi sulla liceità morale delle azioni compiute. Questa è l’ultima pagina: “…E quanta indifferenza c’era in noi. Come se non avessimo mai fatto altro che mandare in esilio. Il nostro cuore si era ormai indurito. Ma nemmeno questa era la cosa principale.
    E la via d’uscita?
    La valle era tranquilla. Qualcuno aveva già cominciato a parlare di cena. In lontananza, vicino al punto in cui sembrava terminare la strada sterrata, un camion scuro, traballante, come quelli carichi di frutta o di messi, o di chissà cos’altro, svaniva all’orizzonte. Il dolore per l’offesa e la rabbia impotente si sarebbero presto trasformati in una sorta di straniamento vergognoso, che un po’ alla volta sarebbe stato dimenticato. Tutto all’improvviso si fece così aperto. Così grande, enorme. E noi diventammo minuscoli e senza importanza. In breve sarebbe scesa sul mondo l’ora in cui è bello tornare stanchi dal lavoro, incontrare qualcuno o camminare da soli. Intorno era silenzio, e di lì a poco si sarebbe chiuso anche l’ultimo cerchio. E quando avesse avvolto tutto, e nessuno ne avesse disturbato la calma, e al di là di esso ci fosse stato solo un brusio sommesso, allora Dio sarebbe sceso nella valle e vi avrebbe vagato per vedere se il grido giunto fino a lui era davvero così grande.”

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