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    Cronache dal vicolo…

    Oggi gatto randagio… con animo, come disse una volta un amico, di zingaro stanziale. Che è ossimoro che non fa poi male. Arrendersi alla forza centripeta che ti trattiene in casa, a guardare cosa accade in strada, nascosto dietro le persiane…
    In realtà appostati dietro la finestra che affaccia sul vicolo alle spalle del palazzo, una piccola via chiusa al traffico, mai ci si annoia. Che a seconda delle ore del giorno vi si alterna un certo numero di persone. A piccoli gruppi, in solitudine… Il primo pomeriggio adolescenti che si confidano, carichi di dubbi e storie di primi e secondi amori. Quando cala la sera ragazzotti a bere birra e a rompere qualche bottiglia. Un po’ più tardi gruppi chiassosi e a volte un po’ sguaiati che chissà cosa si sono fumati… La notte, poi… Giorno o notte che sia, scorrono intanto nel vicolo cani con i loro padroni, ma sia gli uni ( chi viene qui a nascondersi) che gli altri ( cani e padroni) sempre si ignorano, come gli uni invisibili agli altri. Magia dei vicoli bui…
    Da qualche settimana vi arriva una giovane donna…  La prima volta era un corpo tutto rannicchiato sotto una coperta, a dormire sul gradino a ridosso della saracinesca di un locale da tempo chiuso. Accanto un trolley nero. Forse, avevo pensato, uno dei nuovi senza casa che la crisi ogni giorno butta sulla strada, o migrante di passaggio, magari in attesa di qualcuno, di un contatto, di un aiuto… Nulla di nuovo. Ma ho iniziato davvero a preoccuparmi, quella mattina, che intorno alle undici quel corpo era ancora lì, immobile sotto la coperta. Chissà quanto stremato…
    Poi l’ho vista che si è svegliata, si è tirata sul gradino, s’è accesa una sigaretta, e ha iniziato a parlare, con lingua, a me sconosciuta, dell’Est. Alzando a tratti la voce, come interloquendo con qualcuno lontano. Ho pensato, all’inizio, fosse a un cellulare, alla mia prospettiva nascosto…
    Tre ore è durato quel lungo monologo. Poi si è riaddormentata. Al risveglio si è allontanata, trascinando il suo trolley. E’ tornata verso sera, stavolta a tratti urlando.
    La mattina seguente e quella seguente ancora, e poi ancora… sempre lì, rannicchiata sotto la coperta, accanto al trolley nero.
    Non solo io me ne sono preoccupata ( che questo è un palazzo di civilissima gente), perché non è un buon posto per passare la notte, specie per una giovane donna… Insomma, per farla breve, alla fine s’è capito che è persona che da un po’ vive in strada, che da qualche tempo s’è persa. Ha perso anche le strade del quartiere dove era in qualche modo “monitorata” dai volontari che delle persone che vivono in strada si occupano… Li abbiamo chiamati. E devono averla convinta ad andare a dormire in un posto meno per lei pericoloso, perché nel vicolo non trascorre più le notti. Ma sempre di giorno ritorna. A urlare contro i suoi fantasmi. E chissà cosa le è successo, cosa o chi le ha spezzato la vita. Per portarla a fermare il suo cammino di migrante in un vicolo buio di questa città. Mi sforzo, sentendola, di capire. Non comprendo una parola della sua lingua. Ma la voce, il suo tono, quelli sì, che si fanno capire. Devono averle fatto qualcosa di davvero cattivo. Me lo conferma Valentina, la signora che viene ad aiutarmi in casa. “E’ rumena”. Mi traduce, lei che capisce le lingue dell’Est: “Cosa vuoi da me?, dice. Cosa vuoi ancora? Pensi di essere a casa di tua madre…”. “E basta, e basta!!!… devono averla picchiata, anche… è molto arrabbiata”
    Deve essere stato qualcuno con cui un tempo ha intrecciato parole… A momenti la donna quel discorso interrotto sembra volerlo riprendere. Sembra invitare l’ombra che ha davanti ad essere più ragionevole. Insiste, insiste. E ancora poi sbotta, alza la voce. E ancora interroga e s’interroga …
    Poi si ammutolisce, si siede sul gradino e fuma una sigaretta. Abbandonata alla sua solitudine. Ma lì intorno è troppo pieno di tutti i suoi fantasmi, che chissà se mai le daranno pace, perché, sapete, i fantasmi cacciati via tornano con sempre più forza. C’è tanta sofferenza in giro, ma uno psichiatra, che del dolore dei migranti si occupa, una volta mi spiegò quanto il dolore si moltiplichi se ci si perde lontano dalla terra in cui si è nati. E quanto la lontananza sia anche all’origine di quella sofferenza.
    Voci migranti, nel vicolo, non sono rare. Raccontano angoli perduti di mondo.
    Da una pagina del mio taccuino, di un autunno fa. Una domenica che era quasi sera, ascoltando salire un canto di pianto, in lingua spagnola. Era voce di ragazzo, accompagnato dal suono pizzicato di chitarra, un po’ stonata in verità… Era già penombra, ma s’immaginava benissimo, sarà stato magro e con qualche brufolo, come la sua voce, giovane e aspra. Cantava di mare e di amore e di qualcosa che sapeva di casa e che non c’era più. E chissà chi e cosa, cantando, provava a evocare quel ragazzo. Poi a un tratto, il ritmo è diventato sussulti di colpi battuti sulla cassa della chitarra. Un tumulto veloce e arrabbiato. Poi ha smesso, si è alzato e se ne è andato. Fine dello spettacolo, è un po’ mi è dispiaciuto.
    “Ah sì…- parlandone, la signora del primo piano- quel ragazzo che strimpella un po’. L’ho visto qualche mattina all’ultimo incrocio, giù, verso le mura… Gliel’ho detto, sai? Figlio mio, gli ho detto, io un soldo te lo do pure, ma dovresti imparare a suonare un po’ meglio… lo dico per te…”
    Non credo abbia seguito il consiglio. Qualche settimana fa, di sera, ancora l’ho sentita, quella voce di ragazzo. E il vicolo si è riempito delle immagini umide e vagule che nel buio disegnava quel suo incerto canto smarrito.

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