More
    Home Blog

    “Guardami, dammi la mano, abbracciami, non mi lasciare…”,

    0

    Bello e tremendo. Esco dalla sala con queste due parole in testa e sensazioni fortissime, che lasciano muti, dopo aver visto il film di Pippo Delbono… Bobò, la voce del silenzio. Bobò, al secolo Vincenzo Cannavacciuolo, sordo, analfabeta e microcefalo vissuto quasi mezzo secolo nel manicomio d’Aversa, che Delbono incontra nel manicomio dove era andato a far conoscere il teatro ai “matti”… Colpito dalla forza espressiva di quel piccolo uomo che del mondo aveva conosciuto solo la sua prigione, riesce a portarlo fuori, ne fa attore della sua compagnia, figura centrale nei suoi lavori teatrali come nei suoi film.

    Narrato attraverso spezzoni di riprese dei loro spettacoli, dei giorni di Aversa, di quelli dei tanti palcoscenici attraversati… il film è il racconto di uno stupefacente sodalizio artistico, e non solo, durato due decenni. Perché il sentimento che unisce Bobò e l’uomo che l’ha accompagnato nella sua nuova vita, è tenerissimo e fortissimo, e sempre insieme calcano il palcoscenico del mondo.

    A teatro. Bobò non parla, ma non ha bisogno di parole. Sul palcoscenico diventa ogni volta, racconta Delbono che è voce narrante, l’abito che indossa. E come un re dei mimi, è artista del silenzio. Il suo silenzio diventa arte perché, viene da pensare vedendolo, è esplosione della vita che per quasi mezzo secolo ha tenuto chiusa in sé. Ed è artista vero. Più di una volta viene da applaudire, come si dice, a scena aperta. Ma lo spettacolo va avanti, ingabbia, ammutolisce. Un film sul segreto della magia del teatro. Dove, pure, nasce un linguaggio, un mondo, anche qui, dove vivere per difendersi dal mondo.

    Nella vita fuori. Vediamo Bobò correre libero nel vento, su una spiaggia, danzare a un crocevia di chissà che paese, dirigere una banda di paese… con un sorriso che strugge per quanto sapore di libertà. E ancora non c’è bisogno di parole.

    “Guardami, dammi la mano, abbracciami, non mi lasciare…”, motivo che torna e ritorna, pronunciato su una panchina che… come non riandare a quella dei due amanti di Peynet… su una panchina che è luogo per difendersi dal mondo, pur restando, e in modo che è prezioso, nel mondo (come si racconta in un delizioso libretto di Beppe Sebaste. Panchine, appunto…)

    Bello e tremendo. Se in ogni istante viene da pensare alla vita prigioniera che è stata. Alla vita negata che è stata quella di tante persone, che ritornano nel bianco e nero di immagini antiche. E pure viene da pensare a quanta strada da allora comunque è stata fatta.

    Nella nuova vita libera, dove tutto è scoperta e stupore, Bobò balla, balla molto, balla sempre. Sorridendo balla. E non sembra esserci differenza per lui… muoversi a passo di danza nel silenzio della vita vera o nella rappresentazione a teatro, guidata dalla musica di un’orchestra o da una voce di canto… ed è tanta l’armonia dei suoi gesti, dei suoi passi. Un po’ Marcel Marceau, un po’ Totò, un po’ Barrault… ma forse è semplicemente, straordinariamente Bobò.
    Mi sono chiesta. Ma Bobò è sordomuto… da dove viene la musica sulle cui note si muove, che sicuramente sente. Sicuro che la sente, non c’è dubbio, guardandolo muoversi con tempi perfetti, come pescandola, questa musica, dal più profondo profondo di sé… Mistero dell’uomo…

    Sì, un film sul mistero dell’uomo, sul segreto della magia del teatro, sulla magia di una grande amicizia, che è amore. E a un certo punto viene da chiedersi (dio mio quante domande!) se è Delbono che ha insegnato a Bobò a muoversi con tanta espressività, a perfezionare la sua innata espressività, o è Bobò che ha insegnato a Delbono quelle movenze leggere, quel rimando di gesti che raccontano la vita … perché alla fine le movenze dell’uno si sovrappongono a quelle dell’altro e viene da chiedersi quanto profondo è stato il loro legame e chi è l’uno e chi è l’altro…

    Se ti parlo, mi parlo

    0

    SE TI PARLO, MI PARLO”, Eduardo e Luca De Filippo lettere 1949-1979
    A cura di Maria Procino (Guida Editori)

    Un prezioso libro presentato giovedì scorso a Napoli. Ce ne parla Daniela Morandini, che ringraziamo…


    “Napoli. A dieci anni dalla morte, la Fondazione De Filippo ricorda Luca con la pubblicazione delle lettere tra padre e figlio. Un lavoro complesso, perché non è facile mettere le mani sulle vite degli altri, soprattutto quando il privato di chiunque viene esibito, manipolato, sbattuto in prima pagina e moltiplicato all’infinito in rete. Un lavoro ancora più delicato se questo privato si chiama De Filippo.
    Tommaso, figlio di Luca, in un primo momento era titubante:
    “Mi sembrava che gioie e specialmente certi dolori così profondi dovessero rimanere custoditi nel silenzio”.

    Ha poi ritenuto che quel legame così forte, nato anche dalle ferite, fosse da condividere. E’ forse quella filosofia che alla fine del ‘900 sosteneva che il personale è politico e, a volte, anche cultura.
    Così Maria Procino, archivista e storica, entra in punta di piedi nel rapporto tra i due protagonisti e, con rigore, sceglie:
    “Ho eliminato le parti più private. Non tutte le lettere sono in queste pagine – spiega – come quella che Luca scrisse a Luisella, la sorella che non c’era più. E’ conservata, ma non sarebbe stato corretto pubblicarla”.
    Francesco Somma, a nome della Fondazione, e Diego Guida, l’editore, ricordano l’impegno e la sensibilità di Luca, uomo, attore e regista. Claudio di Palma, che già aveva portato queste lettere al Campania libri Festival, ne legge alcune.
    Il primo scritto di Eduardo a Luca, che ha ancora pochi mesi, è un telegramma: “Durante la commedia Le voci di dentro ti ho portato con me in scena”. Il figlio è già il suo interlocutore interno e la poesia che Eduardo gli dedica è in apertura del libro:

    Si te veco mme veco
    Si te parlo mme parlo
    (…)


    Lo studio di Maria Procino organizza gli originali, che accorciano la distanza da un padre lontano:
    “Mio caro Luca, sto girando l’Italia in lungo e in largo da quasi tre settimane (…)”.
    “(…) ti voglio un sacco di bene (…) ti trovo talmente simpatico(…)”.
    “E’ ora di smontare l’idea che Eduardo fosse rigido, inflessibile”, sottolinea Carolina Rosi, vedova di Luca De Filippo e ora in teatro con Non ti pago, l’ultima regia del marito.
    “Se Eduardo fosse stato una persona fredda, non avrebbe scritto quello che ha scritto. Certo, era intransigente sul palcoscenico, ma era giusto così ed io di padri intransigenti ne so qualcosa…”
    E in sala l’applauso va anche a Francesco Rosi, l’autore, tra l’altro, di Le mani sulla città.
    Qui, nel palazzo che fu di Scarpetta, si intersecano le presenze di figli e di padri, di attori e di maestri della cultura italiana. Su uno schermo scorrono le immagini dei due De Filippo. Uno scatto in bianco e nero ritrae un bimbo con il vestito bianco e il cappello a pan di zucchero: il pensiero va a John, “Il figlio di Pulcinella”, scritto da Eduardo nel 1958.
    Il legame tra i due è sempre più forte e l’immediatezza è immutata, Procino non corregge le frasi scritte in modo sbagliato da Luca bambino:
    “Caro papà e cara mamma vi auguro in questo santo giorno tanta felicità. Vi prometto che l’anno nuovo saro più buono. Scusatemi se qualche volta vi ho fatto arrabiare, credo che voi mi abbiate perdonato, e scusatemi anche se scrivo questa lettera in un foglio di di carta, ma non mi sono ricordato di prenderne una con quelle cosettine che luccicano. Pero questa lettera io la ho scritta col cuore e credo che questo vi basti”.
    Torna alla mente la letterina infantile e provocatoria di Tommasino, in Natale in casa Cupiello:

    Cara madre(…)

    Ma l’infanzia di Luca non è semplice, a dodici anni perde la sorella Luisella, poi la mamma, Thea Prandi. Il giovane De Filippo decide di andare a studiare a Salerno, al Collegio Colaiuti:
    “Caro papà, dovresti dire a Isabella di mandarmi un pacco con generi alimentari di prima necessità: carne in scatola, ecc. Roba sostanziosa come del formaggio, ecc. Tutto abbondante (…)”.
    E il pensiero va ancora a Tommasino in Natale in casa Cupiello:

    Voglio ‘a zuppa ‘e latte.

    Ma se in chi legge realtà e finzione si intrecciano, il rapporto tra questo padre e questo figlio lascia righe d’affetto, di insofferenza, di teatro:
    “(…) Il successo è tuo! Il trionfo sarà tuo! La gioia sarà tua e mia. Un abbraccio e un bacione fraterno. Papà”.
    Eppure, da queste vite arrivano anche frasi di tutti e di tutti i giorni:
    “Caro papà, mi dovresti fare la giustificazione per domani mattina (…)”.
    Ora la parola spetta ancora a Tommaso De Filippo:
    Sono cresciuto comunicando con mio padre in modo diverso. Ci telefonavamo, ci raccontavamo a voce, la corrispondenza non era abituale, non esisteva nemmeno WhatsApp. Così, tutto ciò che ci siamo detti è rimasto affidato solo alla memoria. Forse anche per questo nutro una certa gelosia, sapendo che il nostro rapporto non è stato impresso nella scrittura come il loro, perché in queste lettere Eduardo e Luca si incontrano e si ritrovano nel luogo più intimo della loro relazione: la parola scritta”.

    Daniela Morandini

    Cercando un dio…

    0

    L’ho incontrato, un principio di divinità, nel gesto di pietà di quel gatto? Una gattina, ho pensato, che, incurante delle macchine che sfrecciavano intorno, cercava di riportare sul ciglio della strada il corpicino di altro gatto che qualcuno aveva investito. Era senza vita, quel corpo straziato che lei si ostinava a voler portare in salvo, via dall’asfalto, via dall’inferno di altre ruote che certo ne avrebbero fatto poltiglia. Era morto, il suo amico, o compagno, o figlio, ridotto a un inerte peloso straccio sanguinolento. Ma … poteva mai lasciare ad altro strazio il corpo di quell’altro suo simile, che forse aveva nutrito, con cui forse aveva corso, che forse aveva amato come solo sanno amare i gatti…
    L’ho vista in quella gattina la capacità di metamorfosi, cui si deve la pietà, che noi stiamo perdendo, smarrendo con essa quel principio di divinità che ci fa uomini…

    Che tornino, sane, le parole

    0

    “…sparito tutto quel tono loquent’eloquente, boccazzaro, linguto, col dente avvelenato, sparito tutto quel tono a rivincita, vendicativo, sparito tutto di tutto quel tono senza parole. E sparito quello, ricomparvero le parole sane, sanesane, che quel malarazza di tono si era mangiate, le parole col loro puro e semplice, giusto e naturale, connaturato tono di essere dette e sentite, le parole col loro tono fedele, specchiato, come la faccia delle donne oneste, le parole col tono della cosa, che dicevano, né più né meno, della cosa che dicevano, letteralmente quella, lapidariamente o metaforicamente quella: “Si fece lontana la barca, ‘Ndria”.

    Ancora da Horcynus Orca, di Stefano D’Arrigo.
    Che tornino, sane, le parole…

    Il villaggio che uccideva i sogni

    0

    “Nel piccolo villaggio di Lalpur nella provincia afghana di Nangarhar, dove le montagne toccano il cielo e il vento canta tra le rocce, vivevano due fratelli. Omar, di otto anni, e Sami, di sette…”
    Inizia così il nuovo libro di Walimohammad Atai. Wali per gli amici. Ricordate? Lo abbiamo conosciuto anni fa, appena fuggito dal suo Afghanistan ‘liberato’ dagli Usa e venuto a vivere in Italia. Ci aveva raccontato gli anni terribili dei bambini bomba, insieme alla sua storia di ragazzo che “ho rifiutato il paradiso per non uccidere”… (https://www.remocontro.it/2018/04/08/wali-e-lafghanistan-talebano-dove-ora-volano-i-bambini-bomba/)
    E ancora racconta, denuncia, scrive del suo paese oggi attraversato da una crisi umanitaria gravissima, per scuoterci dal nostro torpore, riportandoci storie e immagini che vogliamo dimenticare…
    Questa volta lo fa con un racconto, “Il villaggio che uccideva i sogni” (ed.Ass. Multimage), che ha il tono e il linguaggio delle favole. E come un bel libro di favole, arricchito dei disegni di una giovane artista, scrittrice, Homaira Ebad, anche lei nata in Afghanistan e fra le tante cose attivista dei diritti umani.

    Il racconto di un villaggio poverissimo dove regna la violenza, dove i bambini vengono sfruttati nei campi per la raccolta dell’oppio, dove è vietato imparare a leggere e scrivere perché i signori della guerra sanno bene che “chi sa leggere è libero”. Ma Omar e Sami hanno un sogno: imparare a leggere. In un paese dove “sognare è già una forma di coraggio”. Di grande coraggio.
    E Omar e Sami, grazie al taccuino ritrovato di uno straniero ucciso proprio perché venuto a insegnare parole, vi riescono. Stando svegli la notte, tracciando linee sulla terra, usando pietre, perché non hanno carta né penne… alla luce della luna perché non c’è olio per la lampada… insomma, leggete… pagine che molto hanno da insegnare.
    Riescono infine, nonostante le minacce e le violenze, a conquistare ai loro sogni anche la madre e le due sorelline…
    Pagine tutte da leggere, piene di verità che sanguinano… vi dico solo che alla fine vincono loro. Perché anche se Sami viene rapito torturato e ucciso da chi, “vissuto nel buio, è infastidito dalla luce” accesa dai due coraggiosi ragazzini, ormai la gente del villaggio è dalla parte loro, è nata una scuola, e Lalpur, “guidato da una penna, una madre, e da bambini con le mani sporche di sogni”, è diventato un simbolo…
    Una favola, piena di dolore, anche, come lo sono le favole che insegnano verità…
    E Wali ancora ci ricorda che dobbiamo guardalo in faccia tutto questo dolore, che nella sua terra, è anche dolore dell’oggi. Guardare a questo dolore e al coraggio di chi vi si oppone.
    “Quando un uomo muore per la verità non lo seppellisci. Lo pianti e cresce come albero, come scuola, come speranza…” parole che pronuncia Omar dopo la morte di Sami. Insomma, quel “ci hanno seppellito, ma eravamo semi” che tanto spesso ritorna nelle voci di lotte di popoli che hanno fatto la storia…
    Un racconto che ancora più stupisce e commuove alla fine… sapendo che è storia vera. Storia del villaggio di Wali. Che mai ha dimenticato l’insegnamento del padre, Atta Mohammad, che era psicologo, e diceva che i ragazzi devono studiare anziché farsi saltare in aria “perché non c’è nessun paradiso ad attenderli”, e per questo è stato ucciso…

    Un libro ch emeriterebbe di essere diffuso nelle scuole, tanto per cominciare…
    Sfogliando le pagine tessute con i dolcissimi disegni di Homaira Ebad, rileggendo le biografie dei due autori, delle loro storie, del loro impegno… sempre più mi convinco che il nostro futuro sarà con loro. Sarà con persone venute da altre terre, come Homaira e Wali. O non sarà.

    Walimohammad Atai, Homaira Hebad, “Il villaggio che uccideva i sogni”, ed Ass.MUltimage


    A briglie sciolte

    0

    E così il cavallo azzurro ha attraversato l’Italia, ha avuto per tappe quei tremendi luoghi della nostra indecenza che si chiamano Cpr. I cosiddetti centri per il rimpatrio. Dove vengono rinchiusi migranti, persone che, contrariamente a quel che si vuol far credere, non hanno commesso alcun reato, se non quello di avere attraversato un confine, non in regola con un permesso di soggiorno, colpevoli di aver cercato una via di fuga da vite impossibili, o anche solo di aver desiderato una vita migliore. Non finiremo mai di ripeterlo…
    Per ora sta solo tirando il fiato, il cavallo. Il suo cammino riprenderà presto. Terminerà solo quando tutti i Cpr saranno chiusi e quando sarà abrogata quella misura ripescata dal tempo del regime fascista che è la detenzione amministrativa.


    Non se la prenda il nostro cavallo, ma ho pensato che se c’è un’immagine che per me ancor più coglie il cuore, l’anima di questa iniziativa, e dà speranza di un cammino futuro, è quella di un cavallino candido dai profili azzurri e una coda che è quasi battito d’ala, confuso fra altri cavallini… dal manto bianco, o variopinto, o spruzzato di disegnini come carta da parato per stanza di bimbo… Cavallini di cartapesta, legno, stoffa… insomma una mandria “a briglie sciolte” che, nella tappa romana, ha fatto ala al cammino di Marco cavallo accompagnandolo fin davanti al Cpr di Ponte Galeria. I cavallini del Collettivo degli artisti di Monte Mario che con il linguaggio dell’arte esplorano sentieri del disagio psichiatrico, alla luce dei principi tracciati dalla legge 180.
    Una mandria di cavallini l’uno diverso dall’altro. Perché se un miracolo il cavallo ha già compiuto, è quello di aver riunito intorno a sé un’infinità di persone, gruppi, associazioni… insomma, è bastato lanciare un nitrito, un primo appello, e l’iniziativa del Forum è subito trasmutata in un movimento collettivo, che fatto incontrare tantissime realtà. A volte diverse, anche, nel linguaggio, nei modi, l’una dall’altra, ma tutti alla fine, come affluenti di un unico fiume, a scorrere nella stessa direzione…

    Ed è questa azione popolare sprigionata dal basso che la “mandria a briglie sciolte” sta a simboleggiare… forza di un valore aggiunto di cui Marco Cavallo, ne sono convinta, è stato ben lieto. Ne è stato rinvigorito, anche. Avete sentito? La sua voce è diventata coro. Un coro per rompere il silenzio, passo importante, preludio al rompere muri e tranciare fili spinati.
    Un coro che ha rotto il silenzio di narrazioni bugiarde, per narrare la verità di vite soffocate. Come questa di Wissem, che ancora una volta, a nome di tutte, vogliamo pronunciare.

    … guardate che posto è questo! ci hanno portato in carcere, ma noi non abbiamo fatto niente. Guardate dove siamo! stiamo protestando perché non è giusto, vogliamo la nostra libertà. Vogliamo un avvocato”.
    Queste sono le ultime parole di Wissem Ben Abdelatif, morto il 28 novembre del 2021 legato mani e piedi in un letto di contenzione del reparto psichiatrico del san Camillo. Era stato legato per 100 ore. Nel Cpr aveva ricevuto la diagnosi che è stata il suo timbro di morte: sindrome schizo-affettiva. Wissem era arrivato sano in Italia. Dopo poco più di un mese, è morto senza mai essere stato libero in questo paese, tra navi quarantena, Cpr e reparti psichiatrici.
    Storia di Wissem, per ribadire ancora una volta, come sempre ricorda Carla Ferrari Aggradi, che del viaggio di Marco Cavallo è stata coordinatrice, che per il Forum il punto centrale è che si respinga il ritorno a una psichiatria garante dell’ordine, psichiatria del controllo sui comportamenti delle persone detenute. Perché questo alla fine i Cpr sono.

    Nella manifestazione di chiusura del viaggio, martedì a Roma, al cinema Aquila, sono stati proiettati due filmati. Un corto sulla manifestazione di Ponte Galeria, dove ancora sono stati pronunciati nomi, storie che la narrazione ufficiale vuole seppellire… e un’anticipazione del film che narrerà l’intero viaggio. Anche questo un lavoro collettivo, ché Giovanni Cioni ha chiamato intorno a sé un bel gruppo di registi. E sarà, ancora una volta, intreccio di sguardi. Che idealmente guardano anche ad altre prigioni, ad altri confini, ad altri viaggi. Se unica bandiera ammessa nei nostri incontri, oltre il patchwork delle bandiere di scarti, è stata quella del popolo della terra di Palestina. In un gemellaggio ideale di Marco cavallo, insieme alla mandria di cavallini, con la Sumud Flotilla, già pensando ai sentieri lungo i quali ci ritroveremo, e presto ci ritroveremo, ancora marciando contro le frontiere, la violenza e le disuguaglianze. Per un mondo più giusto, per tutti.

    La foto è di Salvatore Lucente

    Appello per l’immediata messa al bando della “pistola Taser”

    0

    Al presidente della Repubblica
    A tutte le persone interessate
    Ai sindaci e alle sindache italiani/e nella loro veste di autorità sanitaria locale

    La pistola taser è strumento di tortura e crimine di pace.
    Per un programma di interventi di “ordine pubblico” a basso/nullo impatto sanitario e psicosociale.


    Benché già definita da fonti autorevoli “mezzo di tortura” la pistola taser si sta diffondendo nel territorio sponsorizzata anche da rappresentanti del governo pro tempore e proposta apertamente a singoli sindaci come dotazione pure per la polizia locale.
    Riteniamo che la pistola taser debba essere immediatamente bandita sulla base delle motivazioni che qui avanziamo:
    • Quella principale è che la pistola taser viene usata contro persone di cui l’utilizzatore non sa nulla circa la eventuale condizione di vulnerabilità; questo è del tutto inaccettabile sul piano etico e dal punto di vista sanitario; è come se il medico usasse un mezzo di contrasto senza essersi accertato che il paziente non è allergico; come è noto gli effetti avversi possono essere anche mortali.
    • Nonostante l’uso “al buio” che assomiglia ad una “roulette russa” piuttosto che ad una procedura di sicurezza , anche agli occhi chi non sia particolarmente esperto in materia di medicina, pare evidente che in definitiva la pistola taser sia stata usata proprio su o per la esattezza, contro una coorte di persone a più alto rischio rispetto alla popolazione generale di cosiddetta “sana e robusta costituzione” (definizione di vecchia memoria, giustamente oggi desueta); il rischio di morte secondo il produttore dell’arma, è 0.25% (un decesso su 400 persone colpite) ma si tratta di stime fatte da soggetto in conflitto di interessi (come chiedere all’Eternit se l’amianto è cancerogeno): stime che certamente non si riferiscono ad una popolazione selezionata/vulnerabile come quella che ha subìto fino ad oggi le scariche elettriche (55.000 volt) in tutto il mondo.
    • Gli effetti fisici e collaterali della pistola taser dunque, significativi per tutti, si impattano ed entrano in sinergia con fattori di rischio di cui le persone colpite sono quasi sempre portatrici (recente assunzione di psicofarmaci, di sostanze stupefacenti , cardiopatie ed altro a volte neppure diagnosticate ); la scarica elettrica della pistola taser può entrare in sinergia negativa anche con condizioni parafisiologiche come una tachicardia da sforzo; una tachicardia è peraltro spesso o sempre presente in certi frangenti di concitazione anche a prescindere da rilevanti condizioni di vulnerabilità individuali.

    • Negli ultimi mesi abbiamo purtroppo assistito in Italia al decesso di 4 persone dopo l’uso della pistola taser (Olbia, Genova, Reggio Emilia e Napoli); alcuni decessi si sono verificati anche nel 2024; inquietanti e drammatici sono poi i dati epidemiologici internazionali (dove e se sono stati raccolti…): fonti autorevoli riferiscono di più di mille persone morte negli USA dal 2000 ad oggi dopo l’utilizzo della pistola taser; è ovvio che una successione cronologica di eventi non deponga automaticamente o in ogni caso a favore di un nesso eziologico certo, ciononostante la evidenza epidemiologica pare lampante pur tenendo conto di eventuali fattori di confondimento ; anche per questo abbiamo costituito un “archivio/osservatorio” sugli effetti della pistola taser; a differenza di chi, non avendone le competenze professionali, ha commentato erroneamente referti autoptici di cui è venuto in possesso (non si sa a quale titolo). Noi stiamo raccogliendo, grazie alla collaborazione dei familiari e degli avvocati di difesa delle persone colpite, le relative documentazioni sanitarie e psicosociali; tuttavia dalle attuali “fughe di notizie” si intravedono chiare conferme alla nostra tesi cioè che la pistola taser può essere, per persone portatrici di pregresse vulnerabilità e in termini di ragionevole certezza. la concausa determinante del decesso oppure la causa unica della morte.
    • Se gli effetti fisici della pistola taser sono prevedibili (di questi come abbiamo detto non sono del tutto al riparo i soggetti di cosiddetta “sana e robusta costituzione”) la letteratura medica evidenzia anche effetti e postumi di tipo psicologico fino al disturbo post-traumatico da stress; ci siamo posti domande per esempio sulla morte del giovane minorenne immigrato detenuto a Treviso; a differenza di quel sindacato di carabinieri che ha “assolto” il taser dopo una lettura, a nostro avviso del tutto errata, di una perizia medico-legale, noi non facciamo affermazioni perentorie per il ragazzo morto a Treviso ma, anche in questa circostanza, facciamo appello a chi vorrà collaborare (ancora una volta familiari /avvocati/cittadini e associazioni) a contribuire alla implementazione dell’Archivio-osservatorio a cui abbiamo dato avvio.
    • Un ulteriore elemento depone a favore del bando dell’uso e della stessa produzione: la cosiddetta legge di mercato determina inevitabilmente la diffusione della pistola taser, per così dire, “ovunque”; si ha notizia infatti che sia stata usata (non stiamo parlando ovviamente delle forze di polizia) in risse tra bande giovanili, per effettuare rapine e persino per attaccare picchetti di operai in sciopero contro condizioni di lavoro schiavistico; la diffusione nel territorio della pistola taser (in ambito legale o illegale che sia) si trascina dietro inevitabilmente dinamiche di escalation degli scontri e delle violenze.

    OVVIAMENTE NON RITENIAMO CHE, MESSA AL BANDO, LA PISTOLA TASER SI GIUNGA AL “MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI” ma riteniamo che il bando della pistola taser debba essere inserito in una strategia sistemica complessiva, propiziata da solide “linee guida”, una strategia-progetto che possiamo definire “UN ALTRO ORDINE PUBBLICO E’ POSSIBILE”.
    • Questa strategia consiste nell’elaborare modalità organizzative e nell’adottare strumenti tecnici che consentano di realizzare interventi a basso o se possibile nullo impatto sanitario e psicologico; capacità di negoziazione, formazione del personale nel campo delle tecniche non violente, personale adeguato sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista della dotazione di dispositivi di protezione individuale (specifici , ergonomici e diversi da quelli in dotazione ai lavoratori edili o metalmeccanici), uso della forza che non metta in campo un divario ingiustificato in quanto a capacità lesionistica. Come già detto: un altro ordine pubblico è possibile; meglio un livido che una aritmia ventricolare mortale; ma se possibile dobbiamo evitare anche il livido…
    • In questa strategia deve essere inclusa una efficace separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita che eviti di portare le armi al proprio domicilio ; se l’arma è uno strumento di difesa per contrastare i rischi in ambito professionale (per gli appartenenti alle forze di polizia) questa a fine turno deve essere lasciata sul posto di lavoro; i recenti omicidi e suicidi con le “pistole di ordinanza” ripropongono una questione che si discute da decenni; non siamo così ingenui da ritenere che la misura che proponiamo sarebbe sufficiente a prevenire i tragici eventi di cui stiamo parlando ma la esperienza dimostra che la disponibilità dell’arma facilita il “passaggio all’atto” e/o ne amplifica gli effetti.
    Le “motivazioni” a favore dell’uso della pistola taser sono del tutto infondate ; è fuorviante e illogico presentare la pistola taser quasi come una politica di “riduzione del danno”, una sorta di “metadone metaforico” per competere con la eroina di strada (sempre in chiave metaforica); la propaganda dei “piazzisti” di taser ha insinuato o persino dichiarato apertamente che “meglio la scossa elettrica che le pallottole”; se pensiamo a eventi come quello di Villa Verucchio del 31 dicembre 2024 quando il giovane egiziano Mohammed Sitta è stato colpito con una arma da fuoco sorgono inevitabili alcuni interrogativi ed alcune riflessioni; un primo interrogativo è come mai – nonostante la (infondata) tattica della “riduzione del danno” a Villa Verucchio – sono stati sparati 13 proiettili; la pistola taser non era disponibile? così come non era disponibile in occasione di un tragico evento alla stazione di Verona solo qualche mese prima? la riflessione è che anche a Villa Verucchio sarebbe stato possibile intervenire altrimenti, senza taser e senza armi da fuoco; certamente la prevenzione dei comportamenti a rischio e dei comportamenti etero o auto-aggressivi deve cominciare il “giorno prima” dell’evento acuto, ma se la prevenzione ha fallito la gestione degli scompensi comportamentali deve essere affrontata, per quanto tecnicamente possibile, con metodi non cruenti.
    • C’è una circostanza (è solo uno dei tenti esempi che possiamo fare) che rivela definitivamente la infondatezza della tesi della riduzione del danno: l’uso che è stato fatto della pistola taser nell’aprile del 2024, bersaglio un giovane militante ecologista – impegnato nella resistenza contro la cementificazione del parco don Bosco – colpito con taser e spray al peperoncino: nessuno può ragionevolmente sostenere che, non avendo in dotazione la pistola taser, in quella circostanza le “forze dell’ordine” avrebbero potuto usare le armi da fuoco; la tesi della riduzione del danno è frutto di falsità o di ipocrisia.
    • Per essere ancora più chiari: ci sono territori per esempio in cui viene messo in campo un certo uso della forza per la esecuzione dei Tso psichiatrici (anche con arma da fuoco come è successo a Genova); in certi territori è accaduto che qualche piccolo sindacato di vigili urbani abbia rivendicato l’uso dello spray al peperoncino per l’attuazione dei trattamenti sanitari obbligatori; ma ci sono territori in cui il problema della forza non si pone neanche (non vi è cioè bisogno di discutere del quantum di forza da esercitare) perché non vengono effettuati TSO (ci riferiamo alle aree che più di tutte sono state influenzate dalla prassi del movimento basagliano).
    • Ovviamente i TSO sono solo una parte della problematica del cosiddetto “ordine pubblico” e non sono paragonabili a tante altre condizioni (rapine, condotte violente contro persone ed altro) che potrebbero costituire una “tentazione” all’uso del taser ma la “prevenzione primaria” è sempre, in generale, la strada maestra anche se praticabile secondo livelli di difficoltà differenti da caso a caso.

    In conclusione chiediamo la messa al bando della pistola taser non come “provvedimento isolato” ma nell’ambito di un approccio alla gestione del cosiddetto ”ordine pubblico” radicalmente diverso da quello attuale (esacerbato peraltro da recenti provvedimenti governativi) e gestito nell’ambito di pratiche a basso o nullo impatto sanitario e psicosociale; è evidente che la via maestra per gestire l’“ordine pubblico” è la PREVENZIONE DI TUTTE LE FORME DI DISAGIO PSICOSOCIALE CON LA CAPACITA’ DI INTERVENIRE “IL GIORNO PRIMA” DEGLI EVENTI E NON , IN MANIERA CRUENTA, IL ”GIORNO DOPO”.

    A partire da queste premesse facciamo appello:
    – al Presidente della Repubblica perché inviti il Parlamento e il governo a ridiscutere le procedure che hanno autorizzato l’uso della pistola tase, il che aprirebbe la prospettiva di un dibattito che includa la ipotesi della dismissione totale dell’uso e anche ovviamente del divieto di fabbricazione e di commercializzazione.
    – “Indagare” il singolo operatore che ha usato il taser con gravi effetti sulla persona colpita ha senso (nel caso di uso del tutto abusivo) ma ha senso se contestualmente viene indagato anche chi ha “sdoganato” e legittimato la dotazione (governi e ministeri).
    – in subordine (soprattutto come forma di attenzione per gli scettici ma in buona fede) chiediamo un provvedimento di moratoria totale, per tutti i corpi di polizia, per 5 anni che consenta un vero confronto sulla nocività dello strumento.


    Facciamo infine appello a cittadine/cittadini per costituire UN COMITATO NAZIONALE per la messa al bando del taser nell’ambito di un progetto che affermi la necessità dell’uso di tecniche e procedure organizzative a basso o nullo impatto sanitario e psicosociale (progetto che prevede l’avvio immediato di un archivio/osservatorio orientato anche allo studio di esperienze in Paesi diversi dall’Italia).

    Bologna , 15.10.202

    PRIMI FIRMATARI:
    Carmine Abate
    Daniele Barbieri
    Patrizia Beneventi
    Francesco Domenico Capizzi
    Francesco Cappuccio
    Luna Casarotti
    Alessandra Cecchi
    Francesca De Carolis
    Savio Galvani
    Ezio Gallori
    Maria Clara Labanca
    Davide Lifodi
    Francesco Masala
    Benigno Moi
    Giuseppina Pantaleo
    Franca Pisano (madre di Igor Squeo)
    Marcello Maria Pesarini
    Vincenzo Fabrizio Pomes
    Rossella Scarponi
    Enrico Semprini
    Vito Totire
    ASSOCIAZIONI:
    Centro per l’alternativa alla medicina e alla psichiatria Francesco Lorusso
    Circolo “Chico” Mendes
    Circolo Rete nazionale lavoro sicuro
    Forum nazionale salute mentale
    Yairaiha
    Scienza, Medicina, Istituzioni, Politica, Società OdV

    Ulteriori adesioni, comunicare a : vitototire@gmail.com
    Bologna , 15.10.202

    IL 27 settembre davanti al Cpr di Ponte Galeria

    0

    Cari amici e amiche,
    stiamo attraversando l’Italia per arrivare davanti le mura dei luoghi dove siete rinchiusi. Una condizione che è ingiusta e dolorosa e che voi ogni giorno denunciate.
    Vorremmo farvi arrivare la nostra voce, e un pensiero forte di solidarietà, perché sappiate che la vostra lotta per la libertà è forte e coraggiosa e non cade nel nulla.
    Il nostro viaggio è guidato da un cavallo azzurro che rappresenta per noi la storia della lotta contro ogni forma di detenzione e crede in un mondo senza confini.
    Ha ormai più di cinquant’anni il cavallo, si chiama Marco, e da quando è nato è andato davanti prigioni, ospedali, manicomi (quando esistevano). Marco Cavallo è un simbolo di LIBERTÀ.
    Oggi siamo qui, a portarvi il nostro abbraccio, per dirvi che nessuno e nessuna di voi è solo, e che siamo in tanti e tante a batterci insieme a voi perché questi posti vengano chiusi per sempre e venga cancellata la legge che li ha fatti nascere. Tutti e tutte devono tornare ad essere liberi. È terribile e vergognoso che si possa finire in una prigione per un documento scaduto, un permesso irregolare, per aver passato un confine. Non si può imprigionare la libertà di movimento.
    Oggi siamo qui fuori, e vorremmo che riusciste a sentire le nostre voci. Ma soprattutto siamo qui a raccogliere le vostre voci, le vostre testimonianze, per portarle fuori il più possibile, pronunciando i vostri nomi. Voi, che ogni giorno ci insegnate cosa significa battersi contro le frontiere, la violenza e le disuguaglianze, per un mondo più giusto
    ”.

    E’ il messaggio letto ad ogni tappa del viaggio di Marco Cavallo nei Cpr. Ne abbiamo parlato del progetto lanciato dal Forum salute mentale per portare i riflettori su quei luoghi che rappresentano “l’istituzione totale” nelle sue forme più aberranti, ‘lager’ sono stati definiti da chi vi è entrato, molto richiamano gli Ospedali psichiatrici giudiziari, somma, se possibile, di Manicomio e Carcere. Come testimoniano le tante testimonianze e denunce fatte negli anni da Parlamentari, Garanti, Sanitari e associazioni che si occupano di tutela dei diritti della persona, nei Cpr vengono distribuiti in misura massiccia psicofarmaci, anche in assenza di medici, anche in assenza di prescrizione medica, mentre le condizioni di vita all’interno non garantiscono salute fisica e mentale a chi vi è recluso. Punto centrale, per il Forum, opporsi “al ritorno ad una psichiatria garante dell’ordine e controllora del comportamento di uomini e donne detenute/i”.
    Un viaggio particolarmente importante in questo momento di erosione dei diritti che riguarda tutti noi.
    E quindi eccoci. Marco Cavallo ha iniziato il suo viaggio il 6 settembre, partendo da Gradisca d’Isonzo. Gli altri appuntamenti il 20 a Milano, il 27 a Roma, il 3 ottobre a Palazzo san Gervasio, l’8 a Brindisi, per concludersi il 10 a Bari. Per chiedere la chiusura dei Cpr e l’abolizione della detenzione amministrativa, da cui questo orrore discende.
    Ovunque per vessillo bandiere di scarto. Come quelle portate dagli ospiti del manicomio di Trieste quel lontano giorno del febbraio del 1973, quando al seguito di quella straordinaria macchina teatrale che è Marco cavallo attraversarono le vie di Trieste. Segnando un punto di non ritorno nella lotta per la libertà, contro le istituzioni totali. E anche oggi, ad ogni tappa, il colpo d’occhio di quei ritagli di stoffa cuciti insieme, coloratissimi, è stato ovunque bellissimo.
    A ricordare che nessuno è “scarto”.
    Non è scarto, Iulius che:
    Io non sto bene sono schizofrenico, ho tutte le carte. Ho bisogno dei miei farmaci, non posso stare rinchiuso. Non hanno nemmeno letto cosa ha scritto il mio psichiatra. Non lo sanno cosa può fare uno schizofrenico quando è rinchiuso. Io qui mi ammazzo. fatemi uscire, devo uscire di qui. Perché sono qui? Perché non sono libero? la mia situazione è già un casino, perché mi tengono qui? io non ho fatto niente. sono schizofrenico. sono schizofrenico. Che posto è questo, sembra una gabbia per uccellini. Io non sono un uccellino. sono un uomo. un uomo con tanti problemi. fatemi uscire.

    Non è scarto Mohammad che:
    Io sono in Italia da più di 15 anni, non so più nemmeno come è il mio paese. Ho
    fatto il mediatore e partecipato tante volte alle manifestazioni per i nostri diritti in piazza ed in tante città. A un certo punto ho avuto difficoltà, ho perso il permesso e dopo qualche mese sono finito qui. Tutto cancellato, tutte le mie parole nel cesso. La parola diritti che ho gridato tante volte qui è morta, finita per sempre. Questa è una gabbia per scimmie. Se hai bisogno di medico, non viene e dobbiamo urlare tutti insieme e spesso non basta perché dobbiamo accendere il fuoco così qualcuno viene. Qui ci sono due che non parlano nemmeno, non so se perché sono muti, ma insieme hanno qualcosa che non va eppure vedi….stanno qui. Come fanno a stare qui? si vede che hanno tanti problemi. Io non ce la faccio più, non prendo i farmaci per dormire che danno a tutti, ma non ce la faccio più…. Sono arrabbiato ora. Sono stato 7 anni in carcere ok, ma il carcere era meglio che stare qui. Ora ammazzo qualcuno anche qui così torno in carcere. Meglio. Sono qui da 10 mesi! sai quante cose si possono fare in 10 mesi. Qui non facciamo niente. Niente. Il cibo fa schifo ed è scaduto. Ogni giorno qualcuno si taglia, perché non ce la fa più. Ci stanno giorni dove ci sta tanto sangue e, uno qui va a vedere e sente l’odore del sangue…

    Non è scarto Hafed che:
    : “Sono qui ormai da 11 mesi. Sai cosa mi ha fatto questo posto? si dice che un lupo
    se ben trattato può diventare domestico; qui da animale domestico mi hanno trasformato in un lupo. Io non so come possano pensare che io possa restare qui. Ci sono i bagni alla turca, io non riesco a fare i miei bisogni, devo farmi accompagnare perché altrimenti cado. Dicono che sono idoneo a stare qui, ma ho un problema al respiro da tanti anni e ho questa cosa che non riesco a fare i mie bisogni. E’ sempre più difficile. Non ce la faccio più. Questo non è un posto normale. questa è Guantanamo..

    Non è scarto Hassan che:
    Ad un certo punto mi sono davvero arrabbiato. Chiamavo il medico ogni giorno e
    non mi curava mai. Io qui mi sono fratturato le gambe e mi hanno ingessato: un mese una gamba, un mese l’altra. Normalmente non potrei stare qui…e invece in questo cpr non mi hanno fatto uscire mi hanno lasciato qui e non riesco nemmeno a camminare bene. Quindi sì ho protestato e ho bruciato un materasso. Sai che hanno fatto? mi hanno portato in isolamento con un altro con il mio stesso problema. Abbiamo protestato anche lì e sono entrati con scudi e manganelli in tanti…non so quanti…dieci forse. A lui gli hanno fatto due punture (sedazione forzata). Due! ha dormito per 4 giorni. E dopo anche a me hanno fatto una puntura dietro la testa. Per diversi giorni non riuscivo a svegliarmi. Adesso ho mal di denti da marzo, mi fa malissimo. Mi accompagnano dal dentista che non ci sta mai! io ho un dolore impossibile, impossibile. Qui poi ti riempiono di psicofarmaci: scrivono che ti danno 3 pillole, ma a me ne danno 9. e io non so nemmeno che cosa è..

    Non è scarto Marie che:
    Sono stata badante per tutta la vita in questo paese. Sono georgiana. Non mi hanno mai fatto un contratto, nemmeno uno. E’ stato molto difficile per me. Ho abbandonato mia figlia. Ho solo le sue foto che mi manda mia madre, ma io non ho potuto vederla crescere. Sono stata qui a crescere i figli degli altri, a pulire il culo delle madri degli altri. Almeno sono riuscita mandare soldi per farla studiare, per farle avere un posto sempre caldo in cui stare. Ma mai, mai nessun documento. Una volta mi hanno anche buttata fuori di casa, perché il padrone voleva fare sesso con me, mi disturbava sempre e io non volevo. Mi diceva “guarda che ti butto fuori, resterai come una cagna in strada e lì vedi cosa ti faranno”. E così mi ha picchiato tanto, tanto, ma io sono scappata via con le mie cose, appena sono riuscita. Non ho trovato nessun aiuto fuori, è stato molto difficile. Poi una ragazza della mia comunità ha deciso di aiutarmi e almeno ho avuto un letto e ho ripreso a lavorare. Ma non voglio raccontare di più. Guarda dove sono adesso. Mi hanno rinchiuso perché loro non mi hanno dato un documento. Mi hanno picchiata e mi hanno rinchiusa.
    Mi hanno umiliata e mi hanno rinchiusa ed io come faccio a mandare soldi a mia figlia ora?


    Queste sono solo alcune delle testimonianze raccolte con telefono S.O.S., da Yasmine Accardo, di LasciateCientrare, che da anni si occupa della condizione di chi nei Centri viene rinchiuso. Queste e tante altre le testimonianze, lette davanti al Cpr di Ponte Galeria, a Roma. E ne riportiamo parte perché più di qualsiasi discorso, di qualsiasi parola, denunciano verità che non vogliamo sentire.

    Pensando al viaggio che Marco Cavallo nell’autunno del 2013 fece per arrivare davanti agli Ospedali psichiatrici giudiziari e chiederne la chiusura. Quei luoghi di violenza e sofferenza infine furono chiusi.
    Magari anche questa volta Marco Cavallo, vogliamo crederci, farà il miracolo.
    E un miracolo, comunque, per ora ha già fatto. Da quando si è rimesso in cammino, ha raccolto intorno a sé tante persone, gruppi, associazioni, che questo viaggio hanno accompagnato, come una marea che è andata man mano gonfiandosi. Ricordandoci che questo paese è decisamente migliore dell’immagine che normalmente se ne dà.

    Imparare dai bambini…

    0

    Dai bambini c’è sempre da imparare. Ascoltate quello che racconta Sandra, Sandra Berardi…


    “Per puro caso stasera mi sono ritrovata per un paio di orette a tu per tu con la mia pronipotina di quasi due anni. Orario di cena e ci siamo organizzate: pappa e cartoni. Pappa si, cartoni no.

    Ha preteso (letteralmente) diverse versioni video di Bella ciao: prima quella di Bregovic, con tanto di ballo stile cosacco; poi quella dei Modena CR rimessa più e più volte a cui si aggiunge uno straccio sventolato a mo’ di bandiera tra saltelli e girotondi…infine per riposare un po’, in attesa dell’ arrivo della mamma, le faccio vedere un po’ di foto che ho salvato su fb. Esulta a ogni ritratto di Amélie (la cagnetta) che già conosce e vuole rivedere le foto che non le sono familiari.

    Mi ha molto colpito che un articolo sul carcere, con foto del cancello di sezione, ha attirato la sua attenzione e, ridendo, ha riprodotto il verso della gallina: Cocococodè.

    A breve toccherà insegnarle che nelle gabbie non ci devono stare neanche le galline”.

    Bello no? Prendere appunti…

    Un invito ad essere con noi sabato prossimo

    0

    Ti invitiamo a prendere parte ad un visionario evento politico, artistico e poetico: *Sabato 27 settembre alle 10,30 per la tappa romana del viaggio di Marco Cavallo per chiedere la chiusura dei Cpr* e l’abolizione della detenzione amministrativa.

    *Chi è Marco Cavallo?* È un imponente Cavallo blu nato dentro il manicomio di Trieste e rappresenta la lotta contro tutti i luoghi di segregazione istituzionale.
    *Cos’è un Cpr?* Come lo erano i manicomi, sono dei moderni lager dove vengono rinchiuse, in condizioni disumane, donne e uomini con la sola colpa di non avere un documento valido per stare in Europa.
    *Che succede il 27 mattina?*
    Marco Cavallo sarà accompagnato dal parcheggio della *stazione FS di Fiera di Roma* fino a uno spiazzo davanti il *Cpr di Ponte Galeria* (un non-luogo brutto, desolato e silenzioso) al ritmo delle *percussioni di Samba Precario* (un collettivo che dell’inclusione e delle diversità ha fatto la sua cifra artistica e politica) e dalle *Bandiere di Scarti* (realizzate nella sartoria sociale di Gorizia per rappresentare la colorata bellezza dell’umanità che si vorrebbe scartare).
    Lì, di fronte la recinzione, Marco incontrerà una piccola Mandria di cavallini, nati dal *collettivo di artisti di Monte Mario* dell’ex manicomio di Roma.
    Due meravigliosi attori *(Anna Ferraioli Ravel e Lino Musella)* gli presteranno la propria voce per raccontarne la storia e, soprattutto per raccontare quelle di tanti uomini e donne che hanno avuto la disgrazia di passare in quei luoghi crudeli chiamati Cpr.
    Vieni anche tu, per reggere una bandiera, per trainare Marco, per passeggiare con noi o semplicemente per vedere di persona un Cavallo Blu alto 4 metri che si è messo in testa di risvegliare la nostra assopita coscienza collettiva.
    Ti aspettiamo (oltre le bandiere di scarti ammessa solo una bandiera della Palestina, l’unica bandiera che ci farà piacere vedere).

    È un evento proposto dal *Forum Salute Mentale* e realizzato da varie associazioni, collettivi e singoli individui che di vivere in un paese con i lager non gli va.