Mi piace. Non c’è che dire. E’ la parte del mio andare che mi piace di più.
Comincia nel momento in cui la luce inquinata del giorno vira nel tranquillo pallore del primo tratto del sottopassaggio. Dopo la discesa di appena dodici gradini e la breve galleria a destra. Altri sette gradini e poi subito ti avvolge l’aria calda di terra e umido e fatica di corpi, a tratti trapunta di un lieve fetore di plastica appena bruciata. La respiro a pieni polmoni. Mi piace lasciarmi invadere da questo odore che stordisce un po’ e conduce, quasi in stato di lieve incoscienza, al rullo della scala mobile. Che si muove lenta, lunghissima e indifferente. Mentre oltre le teste e i corpi che all’unisono scivolano verso il basso, come in un lento zoomare si avvicina la piattaforma che porta ai treni. Ed è lì che finalmente si apre lo spazio del tempo che scorre certo e lento lungo il binario sotterraneo.
Proprio non riesco a capire perché la pagina dei film di Repubblica lo segnali con un sommesso ‘si può vedere’, e riservi ad altri stellette ‘da non perdere’. E peccato, che i criteri contemporanei della distribuzione cinematografica l’abbiano da subito confinato in un numero risibile di sale. C’è da scommetterci che fra breve scomparirà quasi del tutto. Ma in attesa che venga trasmesso sui canali Rai con i ritocchi programmati per il pubblico televisivo, suggerisco di armarsi di pazienza e determinazione e andarlo a cercare nelle ‘nicchie di resistenza’. Ne varrà davvero la pena. Per “Sonetàula”, di Salvatore Mereu, regista sardo (chi ha visto “Ballo a tre passi”?). 158 minuti di cinema a mio parere raro. Eccezionale nel panorama della filmografia italiana.
“Shock and awe”. Colpisci e terrorizza. ‘Titolava’ così l’operazione iniziata a Bagdad la notte fra il 19 e il 20 marzo del 2003. Per portare la democrazia. Democrazia a grappoli. Come le più micidiali fra le bombe. Se pure ha un senso stabilire una gerarchia della morte. Colpisci e terrorizza. Dando il via ad un altro capitolo della storia della distruzione. Che da quando la meccanica ci ha permesso di volare, e abbiamo cominciato anche a volare come falchi su cieli dichiarati nemici, si è arricchita di una nuova perversione. Lo squilibrato rapporto di forza fra chi è sopra e chi è sotto. Sopra, e sotto le bombe. Civili, soprattutto sempre, anche se sempre un po’ più tardi ci accorgiamo che le bombe non sono mai intelligenti. O lo sono fin troppo, perché fin troppo bene colpiscono e terrorizzano. Ma ci sono cose che non possiamo fingere di non sapere. Quando invochiamo guerre giuste e pulite.
Ragazze che ballano. In lingua Rom ‘chejà celen’, due parole che sono già l’avvio di un passo di danza. Il ‘brivido che vola via’, del verso della canzone di Vasco Rossi che appare in apertura del libro. “Chejà Celen”, appunto. Un titolo che aveva attirato la mia attenzione dal banco dello stand di ‘Sensibili alle foglie’, alla fiera romana della Piccola Editoria. Irresistibili le movenze delle danzatrici in copertina, nella foto di Tano D’amico. Ma quello che mi ha convinto a portare a casa quel volumetto, è stato lo sguardo della sua autrice. Occhi verdi e, ho pensato vedendola, un bellissimo volto da zingara. Per sapere dopo che Vania, Vania Mancini, zingara non è, ma al mondo Rom dedica la vita. E in qualche modo, forse, ho pensato, qualcosa della luce selvaggia dei figli del vento è trasmigrata sul suo viso. Come capita succeda, fra persone che si sono amate e accompagnate a lungo.