Ed eccolo li’, incontrato per caso di prima mattina senza ancora averlo cercato. Affacciato su O’Connell Street, all’angolo con North Earl St.. James Joyce. Sembra essersi fermato solo per una breve sosta, cosi’, distrattamente camminando. Leggermente inclinato sulla destra, la mano sul bastone da passeggio, il piede sinistro poggiato un po’ in avanti, incerto se riprendere il cammino. E chissa’ per dove. Il volto, nel bronzo della statua, appare un po’ piu’ pieno, meno asciutto dei ritratti che ricordo. Ma lo sguardo e’ quello di sempre. Dietro la montatura rotonda degli occhiali. Un po’ stupefatto, quasi si fosse da poco affacciato dalla cornice di una foto rubata al tempo. Per incontrare la “grande guglia”. The Spire, i 120 metri d’acciaio di un gigantesco ago che punta verso il cielo. Perplesso anche lui, forse, per quell’ “eyefull tower”, quello “schianto di torre”. La statua di Joyce e’ poggiata su di un breve basamento, a breve altezza dal lastricato, tornato, pensi, a piedi dal passato, per ancora osservare i suoi Dubliners.
Poco distanti, su alti, altissimi piedistalli, stanno gli eroi che hanno fatto la storia del paese. Monumentali, come quello del Grande Liberatore. Daniel O’Connell svetta imponente sul ponte piu’ avanti. Ma piu’ in alto ancora, planato sulla sua testa, stamane un gabbiano sta di vedetta sulla citta’.
Dublino – 2
Da Dublino- 1
Volando verso Dublino. Dopo un viaggio nel segno dei bambini. Un nugolo vociante che affolla l’aereo. Biondi, azzurri, rossi, bellissimi. Odore di futuro. Eppure la prima suggestione, a terra, arriva dal passato. Dai 200.000 antichi manoscritti della Long Room, nella Old Library del Trinity College. Dalle mani inguantate d’azzurro di tre giovani donne che, come senza neppure sfiorarli, poggiano preziosi testi lassu’ in alto. E chissa’ come, ritorna una pagina dell’Autodafe’ di Canetti, e l’immmagine di altre mani di donna coperte da guanti per non offendere i libri… Piu’ avanti il legno di salice della piu’ antica arpa irlandese. E “volgendo l’oscurita’ in luce”, le incredibili miniature del Libro di Kells. Manoscritto del nono secolo. Copia dei quattro vangeli straordinariamente decorata.
Alcuni versi, di un monaco irlandese. “I and Pangur Ban my cat/ ‘Tis a like task we were at:/ hunting mice is his delight,/ hunting words I sit all night…”
“Io e il mio gatto Pangur Ban/ lo stesso compito eseguiamo:/ lui a caccia di topi lieto corre intorno/ Io a caccia di parole sto seduto notte e giorno…”
Ujjayi
A lezione di yoga. Prove di respirazione. Ujjayi pranayama, che tradizionalmente, leggo, si traduce con “respiro vittorioso”. C’è chi ritiene si riferisca invece alla forma non silenziosa di questa tecnica. Che, semplificando, consiste nel contrarre i muscoli del collo, ostruendo in parte la glottide. Cosicché il passaggio dell’aria provoca un suono sordo. Che, mantenuto continuo e regolare, diventa un suono simile al flusso di un’onda del mare sulla spiaggia. Il suono nasce timido, quasi rappreso. Ma poi cresce e si unisce al suono del respiro di ognuno, e moltiplicato per il suono di ciascun fiato, diventa come rumore del respiro di un mare. Mantra, che è voce d’oceano. Ampio, tranquillo. Potente. Si osserva il respiro e si pensa di poter arrivare infine a possederlo, quel mare. Per un attimo persino sereni. Chi possiede il mare, si dice, può possedere anche il mondo. Tranquillità d’un attimo. Se si affaccia, a disturbare la quiete della mente, un pensiero agitato, che sussurra: “Il mare… complice… dell’irrequietezza… dell’uomo”, parola di Conrad. E magari ci si ricorda di non saper nuotare…
In autobus …
Osservando in autobus una giovane suora, dalla pelle di un bellissimo colore ambrato, dai tratti somali, e gli occhi brillanti di cerbiatta. Se ne incontrano spesso, di suore, qui sulle strade che incrociano le piazze delle basiliche. A coppie, a gruppi, in file che sono quasi prove di processioni. Se ne incontrano spesso, e di tutti i paesi. A volte mettono serenità, a volte allegria persino. A volte mestizia. Non so quanto proiettando su di loro momenti sfasati di umori che a loro pure non appartengono. Ma c’è un pensiero difficile da mandar via, ogni volta che vedo vestita da suora una giovane africana. Pensiero triste. Perché ho sempre trovato i vestiti delle monache quanto di più mesto e mortificante per un corpo di donna. Che è pensiero che immagino lontano, a loro, forse, in tutt’altre dimensioni proiettate. Ma proprio non riesco a non pensarla, oggi, quasi una cattiveria.
A proposito di scrittori
Fra le carte gli appunti da un articolo di David Grossman. Conservati fra i più preziosi. Perché si scrive? La domanda che forse uno scrittore sente rivolgersi con più frequenza. E’ fulminante la risposta di chi, come lui, ricorda, scrive vivendo in una realtà di tragedia che, chiudendo in una gabbia, impoverisce il linguaggio. Si scrive, dice, per spezzare gabbie. Peccato adesso non ritrovare l’intero articolo che ricordo bellissimo. Ma un ritaglio da un’altra riflessione dello scrittore israeliano, pubblicata la primavera scorsa su La Repubblica, non è da meno. Ecco.
“Io scrivo, dice Grossman, e mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talvolta una sorta di medicina che cura una malattia. Uno strumento per purificare l’aria che respiro dalle prevaricazioni e dalle manipolazioni dei malfatttori della lingua, dai suoi vari stupratori.
Insonnia
Grida nella notte. Dal cielo urla lacerate. D’animale. Che nel buio che svela paure, pensi come squartato. Poi soffi e graffi, versi e lamenti quasi di bambino, e il furore di corse impazzite da un giardino all’altro. Rispondono latrati. Di cani prigionieri, immagini d’appartamenti o di balconi. Abbaiano, i cani, a tutto ciò che si muove, libero, nella notte. Alle baruffe dei gatti nel tempo degli amori alla luce della luna. Invidiosi, immagini, persino dei loro gemiti di dolore. Continuano, e si gonfiano, verso l’alba, le grida nel cielo. Ora più vicine, sempre più vicine, e sembra sia la notte a straziarsi fuggendo. Il chiarore svela urla affamate di gabbiani. Che arrivano a rimestare fra i rifiuti urbani, ai bordi delle strade, fin sotto casa. Che lontani d’ogni riva, pensi, hanno dimenticato, il rumore del mare.
Un amore
Ritrovando le parole di una passione di qualche tempo fa…
“Questa è la mia dichiarazione d’amore per Lisalda. Ma ad essere onesta dovrei definirla una resa. Visto che ancora una volta ha vinto lei. Pensate, ero riuscita a fuggire lontano, non solo dal fascino delle sue moine, dal ricatto dei suoi occhi languidi e sdegnosi ogni volta che mi sono allontanata da casa per più di ventiquattr’ore, dal bruciante bisogno di affondare le mani nel suo corpo per potermi addormentare. Ero fuggita da tutto e da tutti. Felice di riassaporare la gioia di altre piazze e l’abbraccio di venti senza orario e senza confini. Ero finalmente seduta sull’orlo del basamento di non ricordo più quale fontana, non ricordo più su quale crocevia, al centro di non so più quale città quale paese quale universo. Ma è bastato un raggio freddo per riconoscere il brivido della luna. La stessa che si incanta ogni notte nei suoi occhi verdi. E mi ha nuovamente catturato il suo richiamo.
Domande
Forse è solo un’impressione, ma da qualche giorno le strade sembrano riempirsi di vuoti. Vuota è la fetta di marciapiede a pochi passi dal semaforo, dove ogni mattina una donna sedeva e neanche chiedeva, l’elemosina, perché in molte, donne del quartiere, sempre le abbiamo lasciato qualche moneta. Qualcuna spesso fermandosi, a scambiare due parole, a chiederle della sua bambina. Ad ascoltare le sue parole, le piccole bugie, anche. E sono sempre state le più anziane, le più dimesse anche, a preoccuparsi di portarle qualcosa, da mangiare, magari d’estate da dissetarsi, perché meno stanco passasse il tempo, seduta su quel marciapiede. Pratiche quotidiane d’umanità. Poi nel pomeriggio scompariva, lasciando il posto a qualcun altro, un’altra, in genere, che andava a occupare il margine opposto del marciapiede. Anche quel lato è vuoto. Torneranno? Domani? Dopodomani?
Ancora Aprile
Per lasciare aprile con le parole del poeta con cui l’abbiamo salutato.
“…/Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai gridando: “Stetson! / Tu che eri con me sulle navi a Mylae!/ Quel cadavere che l’anno scorso hai piantato nel tuo giardino,/ ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?/ O l’improvvisa brinata ha disturbato la sua aiuola? / Oh tien lontano di qui il cane, che è amico all’uomo, / O con le sue unghie lo metterà allo scoperto!/ …”
T.S Eliot, The Waste Land, 1922
Ansie
Cercando di popoli, democrazie e governi. Incontrando de Tocqueville…
“.. Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell’abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri… Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po’ di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto…