Adesso che la primavera si allunga verso l’estate, tornerà più spesso a sedersi sul muretto fra l’ingresso del garage e il tabaccaio. A scaldarsi al sole, fumare qualche sigaretta e guardare le persone che passano, senza guardarle, forse. A volte sorridendo, chissà cosa pensando. Quasi sempre sta fermo lunghissime ore. A volte capita che inizi a camminare a passo svelto da un capo all’altro della strada. Avanti e indietro, avanti e indietro. E all’improvviso urla. Un unico grido acuto e secco. Che non sembra appartenere a lui, ma uscire dal suo corpo smunto sputato fuori da qualcuno che vi sia rimasto prigioniero dentro. Laggiù in fondo. La prima volta che quel grido mi ha sorpreso alle spalle mi sono spaventata, abitavo da poco nel quartiere. Qualcuno allora mi ha fatto un cenno, come dire: “Tranquilla, non c’è nulla di cui avere paura. Non fa del male a nessuno, lo conosciamo, è del posto”. Poi l’ho rivisto e ho capito. Ho udito altre, rare grida, e sono stata io, una mattina, a dire a una giovane donna che passava per la prima volta di lì: “Tranquilla, non c’è nulla di cui avere paura. Non fa del male a nessuno. Abita qui”. Penso spesso a lui adesso che si torna a parlare della legge 180 e si ridiscute di trattamenti sanitari obbligatori.