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Ancora Aprile

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Per lasciare aprile con le parole del poeta con cui l’abbiamo salutato.

“…/Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai gridando: “Stetson! / Tu che eri con me sulle navi a Mylae!/ Quel cadavere che l’anno scorso hai piantato nel tuo giardino,/ ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?/ O l’improvvisa brinata ha disturbato la sua aiuola? / Oh tien lontano di qui il cane, che è amico all’uomo, / O con le sue unghie lo metterà allo scoperto!/ …”

T.S Eliot, The Waste Land, 1922

Ansie

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Cercando di popoli, democrazie e governi. Incontrando de Tocqueville…

“.. Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell’abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri… Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po’ di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto…

Waterboard, per esempio…

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Dal video di Amnesty International sulle torture negli interrogatori dei presunti terroristi.


“Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata…

…eppure la ‘mattanza’ continua

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Forse era ‘solo’ una prostituta. Uccisa, messa in un sacco e gettata nel bosco alle porte di Lecco. Poco più di vent’anni, sembra. Tagli sul corpo e forse strangolata. Trovata per caso. Per quel braccio morto che spuntava fuori dal sacco, sembra. Nella stessa zona dove, l’estate scorsa, furono trovati i corpi di due ragazze, rumene, anche loro uccise e buttate in un sacco. Spazzatura. Questioni di malavita, serial killer…? La mattanza comunque continua. Ma la rappresentazione della violenza reale sembra assai più debole di quella ‘percepita’. Nessuno oggi, nessuno l’estate scorsa, ha invocato a gran voce ronde da mandare sui cigli delle strade.

Punteruoli rossi e triangoli neri

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Si chiama punteruolo rosso. Ha un coriaceo naso allungato. Con il quale scava gallerie nel legno morbido delle palme. La femmina vi depone le uova. Che diventano larve, che diventano crisalidi, che diventano insetti adulti. Che depongono altre uova. E nascono nuovi insetti. Che scavano ciascuno la propria galleria. Larve e insetti si moltiplicano a ritmo esponenziale, gallerie si accavallano, si intrecciano, si uniscono. Fino a diventare un’unica voragine nel cuore della pianta. Che priva di midollo muore. Tronco cavo, basta una folata di vento a buttarla giù. Punteruoli rossi. Non solo insetti. Come larve che minano la vita, rieccole spuntare, minacciose parole d’ordine. Sembra esattamente quel che adesso ci voleva. Una povera ragazza violentata da un rumeno.

Malinconie

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C’è qualcuno in città, che si aggira salvando piccioni. Una donna armata di forbicine, piccolissime, per liberare gli uccelli dai fili di plastica che i volatili raccolgono per costruire nidi, ma nei quali spesso rimangono impigliati, ferendosi, mozzandosi a volte persino gli arti. Una specie di fatina urbana, che immagini comparire all’imbrunire, compiere paziente la sua missione e poi svanire nella notte, magari volando via. Lieve, come la scrittura che ce la svela, nelle pagine del libro di racconti di Piera Mattei. “Melanconia animale”. Racconti che dalle prime parole, quasi un fiato, “tradiscono” la sua autrice. Che, mi permetto, molto più che scrittrice è poeta.

Sorrisi e parole

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Passando, per la strada, prima di andare al voto. Sfilano sui muri volti di cartone. Candidati, replicati ciascuno a decine. Tutti sorridono. Chissà perché nessuno abbia pensato di proporsi per i giorni della campagna elettorale con un’espressione diversa, più intensa, severa, intendo. Chissà perché non sia stato suggerito da alcuno dei “curatori” d’immagine. Magari anche solo per distinguersi un pochino di più l’uno dall’altro. No, sono tutti lì che sorridono lievi, leggeri, promesse di futuro, che sfuma nell’aria… appena un cenno furbetto nella piega del labbro. E tacciono. Sorrisi nel silenzio. Adesso che il momento del voto ci regala un pugno di giorni vuoti di parole. Godiamoceli. Non più travolti da girandole di buone intenzioni urlate. Liberi del brusio d’improbabili duelli. Dell’affastellarsi di frasi. Di intollerabili minacce. Molte da dimenticare. Qualcuna già dimenticata. Un pò di silenzio, finalmente. Per sciogliere pensieri.

“Ci sono, ci sei?”

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Uscendo dal cinema ( fra parentesi dopo aver visto “La Banda”, di Eran Kolirin, film delizioso, a tratti persino divertente, a tratti struggente). Esplode, come sempre in quest’era, la snervante sinfonia di sonerie. Trilli, versi, jingle, cenni di sigle, canzoni mozze. Un isterico metallico schiamazzare. Neanche il tempo di lasciare sfumare il sogno. Di entrare nell’attimo del silenzio che segue lo spegnersi della voce del film. Come mancasse l’aria. E ci si attacca subito al respiratore. Quella sorta di cordone ombelicale che ci lega a tutti e al tutto che è diventato il cellulare. Come si avesse poco da dire agli amici, al compagno, alla compagna con cui si è condiviso il tempo della proiezione. Come fossero già troppi quei novanta minuti d’intimità. Pericolosi, forse.

Reliquie

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Una sola volta ho visto un cuore conservato in un’urna. A Vienna. A dire il vero il cuore non l’ho visto affatto, sigillato dentro l’urna di pesante metallo. Ma la scritta alla base del contenitore era chiara. Vi era conservato il cuore di un Asburgo. E mi è importato poco sapere che la pratica dell’espianto del cuore, come delle viscere, era cosa necessaria per il processo d’imbalsamazione. Non ho potuto che immaginarlo con molta tristezza. Quel cuore smarrito, lontano dal corpo al quale era appartenuto e insieme al quale avrebbe forse preferito dissolversi nella terra. Ora era lì dentro, condannato a una solitudine eterna e buia. Nudo del corpo. E lo sguardo, anche di qua dall’urna, si fa impudico. Tristezza ancora maggiore ho provato quando ho saputo di Chopin e del suo cuore, custodito in Santa Croce a Varsavia, così lontano dalla tomba di Père Lachaise a Parigi, dove riposa.

A proposito della “180”

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Adesso che la primavera si allunga verso l’estate, tornerà più spesso a sedersi sul muretto fra l’ingresso del garage e il tabaccaio. A scaldarsi al sole, fumare qualche sigaretta e guardare le persone che passano, senza guardarle, forse. A volte sorridendo, chissà cosa pensando. Quasi sempre sta fermo lunghissime ore. A volte capita che inizi a camminare a passo svelto da un capo all’altro della strada. Avanti e indietro, avanti e indietro. E all’improvviso urla. Un unico grido acuto e secco. Che non sembra appartenere a lui, ma uscire dal suo corpo smunto sputato fuori da qualcuno che vi sia rimasto prigioniero dentro. Laggiù in fondo. La prima volta che quel grido mi ha sorpreso alle spalle mi sono spaventata, abitavo da poco nel quartiere. Qualcuno allora mi ha fatto un cenno, come dire: “Tranquilla, non c’è nulla di cui avere paura. Non fa del male a nessuno, lo conosciamo, è del posto”. Poi l’ho rivisto e ho capito. Ho udito altre, rare grida, e sono stata io, una mattina, a dire a una giovane donna che passava per la prima volta di lì: “Tranquilla, non c’è nulla di cui avere paura. Non fa del male a nessuno. Abita qui”. Penso spesso a lui adesso che si torna a parlare della legge 180 e si ridiscute di trattamenti sanitari obbligatori.