Ripensando dunque all’India. Ritornano ricordi e, mi permetto, un’autocitazione. Dai miei “Appunti di viaggio“. Rivedendo Delhi, la Città Vecchia…
“…Intorno, ai bordi tormentati delle strade, più pacatamente si muove una folla stanziale. Ad ogni tratto c’è qualcuno che frigge qualcosa, che impasta, che rimesta qualcosa. Ognuno offre in vendita qualcosa. Anche un nulla. Non si capisce chi compri. Poi uomini e donne, avvolti in coperte grigie e sari sgargianti, tutti seduti sui talloni in attesa del presente. Vecchi, soprattutto vecchi smagriti e bambini come nugoli di gattini arruffati e sporchi. Qualcuno chiede un’elemosina. Non si capisce di chi siano figli, cosa mangino, come sopravvivano. Una bambina piccolissima e seminuda ride giocando con la suola di una scarpa che tiene ben stretta fra le mani e poi morde. Dietro un angolo buio, accalcati sotto il bancone di un bugicattolo dove qualcuno cuoce foglie di pane, l’impossibile scena di un gruppo di uomini e donne, scarni come è difficile immaginare, rannicchiati sui talloni con le ginocchia strette sotto il mento, avvolti in coperte grigie, in attesa forse dell’elemosina del pane per sopravvivere.
Ricordando l’India
Tempo di vertici
Un suggerimento. In tempo di vertice sulla crisi alimentare. Mentre un folto gruppo di signori mediamente ben nutriti discuteranno di fame e di alimentazione. Della fame degli altri, naturalmente. Leggere “India spezzata”, di Vandana Shiva. Per saper qualcosa dell’altra faccia della globalizzazione e della liberalizzazione del commercio. Quella che in India, ad esempio ci spiega Shiva, scienziata, ambientalista, nobel per la pace, “crea 10 milioni di nuovi disoccupati ogni anno, impoverisce i contadini e toglie diritti a chi è già emarginato”. Ci aiuta a mettere da parte per un po’ l’immagine dell’India splendente, superpotenza proiettata verso il futuro e a ricordare che la grande massa degli indiani è quella esclusa dai benefici della crescita economica, quella che nelle elezioni legislative del 2004 si era messa pazientemente in fila per dire con fermezza che la verità era un’altra, per dire “no” alla “shining India” degli spot elettronici, e sancire la sconfitta del partito nazionalista di Vajpayee.
“Vorrei essere zingaro”
Un amico, Roberto, mi ha girato questi versi. Reazione, a quanto successo nei campi rom di Ponticelli, di Giuseppe Occhiato, professore scrittore che spesso ha scritto di zingari. Un impeto, incontenibile, di ribellione contro una grande ingiustizia. Che all’italiano mescola parole calabresi e parole nella lingua degli zingari. Non tutte per tutti comprensibili, forse. Ma credo non ci sia sempre bisogno di spiegare dettagli. Rimane, incancellabile, la forza di suoni, serrati, che sanno di sangue e dolore, conoscenza e amore. Queste parole sono un urlo, da scagliare contro troppi silenzi… Ecco:
“Vorrei essere zingaro” (Incazzamento per i raid nei campi rom di Ponticelli, Napoli, 13-14 maggio 2008))
“Via gli zingari dalle città, dai nostri paesi, / i nomadi scacciamoli, questi vecchi, inutili arnesi, / perché insidiano le nostre sicurezze, estirpiamoli / dalla nostra carne, ai margini del mondo mandiamoli, / smantelliamo i loro campi, per favore, sì, per favore, / creiamogli nuovi lager, mediante che il loro odore, / persino il loro odore ci agita, così che lo smarrimento, / la salmura, le pricosìe e il nostro scontento / si squietino e noi cagià possiamo stare tranquilli, / anche se poi lagrimiamo per loro come tanti coccodrilli. / Sì, dalle viscere questa verminara ci dobbiamo cacciare: / senza patria sono e senza patria debbono restare, / senza diritti, precari per sempre e clandestini, / e delle loro rombrì saremo giudici diamantini.
Silenzi
Leggendo di caccia ai clandestini sugli autobus, a Milano. Veri e propri raid. Prove di “tolleranza zero”, si può dire. Applicazione dell’aggravante di clandestinità. “Intensificazione dei controlli”, puntualizzano le autorità. Certo si sentiranno più sicuri, s’immagina, i cittadini regolari. Nelle loro regolari case, delle loro regolari città. Abbarbicati alla legittimità dei loro regolari possedimenti… Che caschi pure il mondo, purché io beva il mio tè…. Che brutta aria, sta soffiando tutt’intorno. Paura che diventi tempesta. E non trovo parole. Mi aiuta Tullio De Mauro, che parlando di discriminazioni e persecuzioni ricorda, su Internazionale di questa settimana, una poesia tedesca, del pastore Martin Niemoller: “Quando presero gli ebrei, non dissi niente; non ero in effetti ebreo./ Quando presero gli zingari, non dissi niente: non ero in effetti uno zingaro./ Quando presero i comunisti, non dissi niente, mica ero comunista./ Quando presero gli omosessuali, non dissi niente: mica ero un omosessuale./ Quando presero i socialisti, non dissi nulla: non ero un socialista./ Quando presero me, non c’era più nessuno che avrebbe potuto dire qualcosa“.
Parole da scrivere sui muri, da far mandare a memoria nelle scuole. Da rileggere ogni mattina, prima di uscire di casa.
Ancora Dublino…
Ripensando Dublino. In attesa del volo per il ritorno. La prima immagine che torna è quella di un albero, nel primo tratto di prato, sulla sinistra, a pochi passi dall’entrata del cimitero. Il tronco, larghissimo, a breve altezza da terra si spacca in due, e la metà sinistra si sviluppa per almeno due metri in senso perfettamente orizzontale al terreno, prima di riprendere la direzione verso l’alto. Sembra un grande, possente braccio. Di padre lì ad aspettare soltanto che tu, anche tu, ti ci sieda. Non importa se sai, anche non vedendo, in quanti già l’affollano da tempo, mentre qualcuno, lo senti, è appena allora arrivato. E viene quasi da piangere. Ma l’invito è irresistibile. Al riparo dal sole e dal vento. Illusione di quiete. Già persa, neppure un’ora dopo, rincorrendo il fiume. C’è ancora vento, che ne increspa la superficie in senso contrario al cammino verso il mare, e sembra, il fiume, volere a tutti i costi fuggire al suo destino, risalire il corso e tornare a rifugiarsi nelle valli dalle quali è nato.
… – 7
Al Glasnevin Cemetery. Perche’ non si puo’ lasciare un paese senza aver salutato i suoi morti. E qui, oltre la grande torre rotonda d’ingresso, la piu’ alta d’Irlanda, il cimitero appare come un grande prato incolto. Dove insieme all’erba e ai fiori gialli di maggio, spuntano steli di pietra. Fitti fitti, come un campo dopo il tempo della pioggia. Ma e’ soprattutto luogo affollato di eroi. Qui, e piu’ avanti ancora, la lunga storia dello spirito rivoluzionario d’Irlanda, nei piccoli e grandi templi che, si legge nell’opuscolo d’ingresso, ogni irlandese puo’ venire a ‘curare’. Ma oggi c’e’ solo vento, un vento forte, a tratti freddo, a tratti caldo, nell’altalena di nubi che vanno e vengono, a tratti liberando, a tratti imprigionando la luce del sole. Fuori, oltre le mura, nel mondo che ritorna dei vivi, sulla folla eccitata del sabato campeggiano i cartelli che invitano al voto per il trattato di Lisbona. Un voto per l’Europa, fra due settimane. Alcuni invitano a dire ‘Si’, alcuni a dare un ‘No’. Vota No, urla un manifesto affacciato sul fiume. Molti, dice, hanno dato la vita per la tua liberta’…
…- 6
Nella cattedrale di St Patrick, per bere un po’ di pace. Quattro cani di pietra, accucciati in terra, con il muso allungato sulle zampe, fanno compagnia ai morti di guerre passate. Uomini della Royal Army d’Irlanda. Per le guerre di Cina, d’Africa… Ai piedi delle lapidi con l’espressione triste che solo i cani sanno avere. Soprattutto quando in attesa di qualcuno che non tornera’ piu’, e ancora aspettano e sanno d’illudersi. Sembrano ancora piu’ tristi adesso che arrivano a tratti interrotti le voci dei coristi, che si preparano per il canto del Vespro. Mentre qualcuno che non so ora e’ gia’ morto. Un suono d’organo invade la navata e prende allo stomaco. Fuori, dopo dieci giorni inusuali di sole, per la prima volta il cielo si scioglie nella pioggia.
… – 5
La voce d’Irlanda. E’ un violino impazzito, e una coppia di cigni che scivola muta lungo il canale, nella luce della sera. Cenni convulsi di danza e ancora cigni, che tornano, sull’acqua. La voce d’Irlanda e’ il suono di un’arpa. E’ un incanto che sa come far nascere la gioia e il dolore, e come donare la quiete. E’ un’onda che ti avvolge e fonde con attimi d’aria, d’acqua, di fuoco. Di terra. Un ponte, qualcuno mi spiega, fra l’uomo e il mondo intorno a lui, e oltre ancora. L’arpa. Strumento magico e potente. Strumento di liberta’, pure, e al suo suono i bardi hanno raccontato le gesta degli eroi. Adesso, che forse di eroi, si spera, non c’e’ piu’ bisogno, ancora l’arpa suona per accompagnare i momenti del passaggio della vita. Matrimoni e funerali. E rallegra e strazia. Un matrimonio come un funerale e’ il gigantesco quadro che occupa l’intera parete della piu’ grande sala del piano rialzato della National Gallery of Ireland. “Il matrimonio di Strongbow e Aoife“, di Daniel Maclise. Le nozze dello “straniero” con la principessa irlandese, allegoria dell’inizio della fine dell’indipendenza del paese. Mai scena di matrimonio fu piu’ mesta. Volti di pianto e corpi abbandonati. Colori cupi che minacciano tempesta. E, al centro, la figura della sposa sembra svanire nel pallore della veste. Su tutto, incombe il silenzio dell’arpa. Abbandonata in un angolo in terra, li’ in basso sulla sinistra.
… – 4
Il mare d’Irlanda. E’ una canzone ubriaca. E’ un sentiero di vento. Graffi di rovi e aghi di pino. Soffi d’erica, rododendri, abbracci d’edera e gonfie ginestre. Colori di corolle che ancora non riconosco, e un cucciolo di porcospino che ha perso la strada e ora non e’. E’ cielo d’incanto e rocce bianche di luce, grida d’uccelli e un’onda sottile. E’ rullo di navi e un silenzio lontano. Che e’ voce di mantra. Che e’ soffio di vita.
… – 3
Oscar Wilde, invece, bisogna proprio andare a cercarlo. In un angolo di giardino dietro le cancellate di Merrion Square. La luce di maggio ha affollato gli alberi di foglie, e lui sta nascosto fra ombre di rami e alti cespugli. E’ seduto sopra una roccia e vestito della giacca da camera, dai colori accesi di smalto. E’ seduto, anzi quasi disteso. Quasi temi stia li’ li’ per scivolare sul piano inclinato di quella rupe. Ma resta fermo. Inchiodato al suo letto di pietra. Lo sguardo oltre l’inferriata, al di la’ della strada, alle finestre della casa di fronte, che lo vide bambino. Pensi ne sia stato appena cacciato. E fa uno strano sorriso. Una smorfia, piuttosto. “Quando le persone sono d’accordo con me, ho l’impressione di avere torto”. Una delle sue “storiche” frasi scritte su una stele piu’ in basso. Forse e’ di questa che ride amaro. O forse ritorna, cupo, un pensiero. Dal de profundis. Di quando si subisce un giudizio e tutta la vita viene giudicata. Di come tutte le sentenze sono sentenze di morte. Pensiero dal profondo del suo dolore…