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    Confessioni

    Rileggendo da “Urla a bassa voce”, la postfazione di Giuseppe Ferraro, che insegna Filosofia della Morale all’Università di Napoli, e carceri e carcerati frequenta per insegnare loro filosofia. A proposito di confessioni e pentimenti…

    “In carcere capii che cos’è la confessione. Avevo letto tante volte i libri di Agostino, le Confessioni. Ne ho più di un’edizione tra i miei libri. Confesso, è il caso di scrivere, che non ne avevo compreso il senso fino a quando non mi trovai di fronte Giuseppe. Mi chiese un colloquio personale, fuori del gruppo di classe del corso di filosofia che teniamo nel corso dell’anno. Non chiedo mai, che cosa e perché ha portato in carcere chi trovo in carcere. Giuseppe volle quel colloquio. Mi racconto tutto quello che lo aveva portato in carcere, quanto aveva fatto e cosa sentiva di essere allora e nel momento in cui mi parlava. Non gli avevo chiesto niente, mi disse tutto di se stesso. Capii allora il senso della confessione. Giuseppe doveva dirmi tutto quello che era stato per stare in una relazione di amicizia vera, per consegnarsi a quel che rappresentavo come regola di una relazione di verità. Non poteva nascondermi nulla, confessarsi equivale a liberarsi e consegnarsi a un’espressione della regola di giustizia che si esprimeva in una relazione di amicizia. Senza interesse. Di verità. Di esposizione. Sarebbe poi stato a me mantenere quella regola di relazione senza infrangerla perché esclusiva solo a chi è puro e senza peccati, mi viene da scrivere. Capii allora perché Agostino scrisse le Confessioni, per consegnarsi alla regola di relazione della sua esperienza religiosa ovvero della sua “che si può tradurre solo con confessione aperta di un legame, di un rilegarsi. Quasi, mi permetto la suggestione, di rilegarsi come rilegato è un libro che è scritto rispettando un ordine di discorso che chiunque può apertamente leggere e capire, rifiutandolo o sentendolo come proprio. Giuseppe, strano caso, ha poi scritto un libro”.

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