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    Akram e gli altri

    Leggendo, degli ultimi morti in Palestina. Ricordando la morte di 5 bambini del campo di Yan Kounis, saltati su una mina mentre andavano a scuola. Il racconto che allora, non ricordo più quando, ne è nato… Arbitrario, forse, come tutti i punti di vista. Ma non per questo meno vero. Come il nome di quei bambni, che si chiamavano Akram, Mohammed, Amr, Anis e Mohammed Sultan.

    “Vieni, Akram! Vieni! E’ l’alba. La finestra è aperta. Fra poco si affaccerà e la potrai vedere…”

    Akram sollevò appena la testa. Vide che accanto a Mohammed c’erano Amr e Anis. Mohammed Sultan li stava raggiungendo, più svogliato del solito.

    “Vieni Akram, non restare lì rincantucciato. Vieni, sarai contento!”

    Mohammed era molto gentile e paziente con lui. Lo era sempre stato. E Akram si era sempre sentito al sicuro accanto a Mohammed, suo fratello maggiore. Quando doveva avventurarsi lungo la strada che portava alla scuola, si assicurava sempre che insieme agli altri compagni ci fosse anche lui: sei anni sono tanti, ma tredici sono ancora di più e Mohammed, oltre a essere alto e forte, aveva sempre una risposta a ogni sua domanda. Con lui sarebbe andato ovunque. Ma Akram adesso si sentiva proprio stanco. E poi aveva voglia di piangere.

    “Coraggio, Akram…”, Mohammed si era avvicinato e gli stava tendendo la mano.

    Akram si lasciò condurre poco più avanti, dove erano già anche gli altri, il secondo fratello e i due cugini. Tutti insieme si affacciarono sulla vallata.

    La luce del mattino tagliava radente i bassi confini delle case, i profili delle tende, delle pietre, delle rovine, della polvere. Il sole appena sorto sembrava aver steso sul villaggio un unico grande velo e tutto si ammorbidiva nei toni del grigio e del rosa.

    Sotto quella prima luce era anche difficile distinguere la parte del villaggio ancora abitata da quella ormai morta. I muri crivellati dai proiettili che in qualche modo marcavano il confine fra l’una e l’altra zona si confondevano nella luminosità diffusa.

    “Lì Akram, a destra, dietro il muro, accanto al pozzo…guarda bene” Mohammed indicò la finestra.

    Era aperta, e una donna vi si affacciò per qualche istante. Ma Akram non fu certo che si trattasse proprio di sua madre.

    “Chiamala! Vedrai che sentirà la tua voce e si riaffaccerà” disse Amr.

    “Chiamala, no! che aspetti…” gli fece eco Anis.

    “…non c’è bisogno che alzi la voce… ti sentirà…” insistette Amr, dandogli una leggera spinta.

    Mohammed Sultan, come quasi sempre, taceva; sorrise appena, ma sembrò piuttosto fare una smorfia.

    “Finitela!” intervenne deciso Mohammed.

    Akram sollevò i larghi occhi neri. Forse perché appena aperti o perché più inquieti del solito, apparivano più grandi e tondi che mai. Quello sguardo leggermente convesso, il cui percorso appena obliquo sembrava moltiplicarne lo stupore, aveva sempre intenerito Mohammed. Che provò una stretta al cuore. Per gli occhi di Akram, ma anche per il silenzio di Mohammed Sultan. E per Amr e per Anis, e pure per se stesso. Tredici anni erano tanti, ben più di sei, ma in fondo erano sempre solo tredici anni.

    Poche persone erano già in strada, laggiù nel villaggio. Si muovevano lente e come senza meta. Una piana inquietudine pervadeva ogni cosa. I passi degli uomini sembravano preludere a passi di altri. Il silenzio delle mura suggeriva bisbigli, come per appuntamenti solo accennati, con mesta sollecitudine. Grappoli di bimbi si affacciavano dalle ferite delle case, appena pochi attimi, per ritirarsi immediatamente, ma pronti a ricomparire in attesa di un richiamo.

    Mohammed, Amr, Anis, Mohammed Sultan e Akram restarono a scrutare la vallata. Era ancora molto presto, troppo per rivedere tutti.

    Mohammed indicò tre uomini che si stavano allontanando verso la periferia, sul confine di Sagat Gharbi.

    “Parlano di noi” disse.

    “Come fai a saperlo?” chiese Amr, pronto come sempre a obiettare qualcosa alle parole di Mohammed, che in fondo aveva solo un anno più di lui e al quale quindi a fatica riconosceva la supremazia che gli attribuivano invece gli altri.

    “Indicano la strada che va alla scuola. Non vedi?”

    “Hai ragione…” disse Anis. Mohammed Sultan fece solo un cenno col capo, e restò in silenzio.

    I tre uomini si stavano muovendo ora veloci verso il punto dell’esplosione. Si fermarono ai bordi di quello che sembrava solo un grande vuoto. Lì restarono in silenzio finché il sole fu più alto. Il suo riflesso rimbalzò sulla lamiera di un blindato che, poche centinaia di metri più avanti, marciò di un passo. I tre uomini si rimisero in cammino per ritornare al villaggio.

    Gli occhi di Akram si riempirono di lacrime e Mohammed lo strinse un po’ a sé.

    “… vorrei… ritornare attraverso quel vuoto…proviamo..” con un suono roco Mohammed Sultan uscì dal suo silenzio. Era la prima volta che se ne sentiva la voce dopo l’urlo che li aveva mandati lassù.

    “Non c’è ritorno” sentenziò Mohammed.

    Akram questa volta pianse strillando. Amr e Anis lo guardarono con pietà. Pensarono che sei anni erano davvero troppo pochi.

    “Ma verranno tutti… ci saranno tutti a salutarci, vedrete” aggiunse fiero Mohammed. “Dobbiamo solo aspettare ancora qualche ora”.

    “E poi…?!” chiese Amr.

     “E poi?” chiese Anis.

    “E poi vedremo…”

    “Quando verranno tutti gli altri, Mohammed?..” chiese Akram, finalmente smettendo di piangere.

    “Più tardi…”

    Altre persone intanto, giù nel villaggio, erano uscite in strada. Alcune donne si avviarono verso il gruppo di case diroccate sul confine nord, oltre lo sbarramento di protezione delle abitazioni.

    Mentre le seguiva con lo sguardo, Mohammed Sultan ricordò le volte che anche sua madre aveva lasciato la tenda dove da qualche mese abitavano per tornare alla vecchia casa. Sempre con la speranza di ritrovare le cose abbandonate nella fuga, anche se lui non riusciva a immaginare cosa potesse mai restare intatto fra mura di case rase al suolo. Una volta l’aveva pure accompagnata. Lei aveva portato con sé il più piccolo dei fratelli, che ancora reclamava un suo giocattolo. Mohammed Sultan li aveva seguiti appena qualche passo dietro, in silenzio, a guardare loro le spalle. Era stato un giorno fortunato. Sua madre aveva scavato a lungo con le mani fra le pietre e i calcinacci di un angolo. Ostinata come una volpe. Alla fine si era voltata verso di lui mostrando un fazzoletto a fiori gialli e rossi. Col bottino di quel giorno avevano portato a casa la testa di una bambola, le gambe di una sedia e, approfittando del suo aiuto, anche una pietra angolare del focolare. Mohammed Sultan ricordava bene quel giorno. Era la prima volta che aveva visto sua madre sorridere, da quando le ruspe avevano calpestato le mura della loro casa, sbriciolandole, e cacciando via tutti, anche una mamma come la sua, e i bambini come lui, e i suoi fratelli, che nessuna colpa ricordavano di avere. Ricordava quanto grande era stata allora la sua rabbia, che non si era mai acquietata ed era la stessa di adesso, anzi adesso era diventata smisuratamente più grande. Ora che non aveva neanche più forza nelle mani. Chi avrebbe ricostruito ora la sua casa?

    “Quando verranno tutti?” chiese ancora Amr.

    “Più tardi. Il sole è ancora troppo basso” rispose Mohammed.

    “Ma non c’era nessuna battaglia quando è successo…” intervenne Anis.

    “No, non c’era battaglia”

    “Non ti sei accorto di nulla…” ancora Anis.

    “No, non c’era nulla di cui potersi accorgere… ” “…sulla strada della scuola…” balbettò Akram.

    “…non ci hanno visti…” sospirò Amr.

    “Non eravamo previsti” mormorò Mohammed prima di sedersi in terra, e invitare gli altri accanto a lui. “Non stancatevi… dovremo camminare molto, dopo”.

    “Quanto dovremo ancora camminare?” chiese Amr.

    “Non so”. Mohammed non aveva risposte. Tredici anni sono tanti, lui era il più grande di tutti, fratelli e cugini, sapeva di essere quasi un uomo, ma qualche volta era stanco anche lui.  

    Si riaffacciò sulla valle e così gli altri. Akram poggiò la testa sulle sue gambe.

    L’animazione continuava a crescere, nelle strade del villaggio. Intorno, sul confine del deserto, a ridosso delle protezioni di sacchi di sabbia, si avvicinavano lenti i carri armati. Più numerosi del solito, avanzavano di pochi metri, poi una sosta per ruotare su se stessi, ispezionare l’intorno come animali in caccia, e quindi ripartire per fermarsi a un soffio dal limite delle abitazioni.

    “Sparano?” piagnucolò Akram.

    “Dici che spareranno?” chiesero Anis e Amr.

    “No… non credo. Non oggi” Mohammed.

    “Me la racconti, la favola degli alberi?” chiese Akram.

    “Non adesso”

    “Gli alberi, ti prego …” balbettò Akram.

    Mohammed sorrise. Lanciò un’altra occhiata alla valle, valutò che avrebbero dovuto aspettare ancora del tempo, e cominciò a raccontare di quando, dove adesso era solo un deserto di pietre, crescevano ulivi e palme da dattero e alberi da frutto.

    “Ve ne erano a migliaia. E c’erano pozzi d’acqua fresca, uno per ogni casa e per bere non c’era bisogno di aspettare che venissero riempiti i container e che l’acqua fosse divisa fra tutti”.

    “…e c’era anche un grande bananeto, vero?”

    “Anche un grande bananeto… un’oasi vecchissima, appena iniziato il deserto”.

    “Prima dell’occupazione?”

    Prima dell’occupazione, e non era solo una favola, concluse come sempre concludeva il racconto di quella storia troppo lontana. Tanto lontana che Mohammed, ogni nuova volta che la narrava, si sentiva autorizzato ad aggiungere i dettagli che la sua fantasia e la sua generosità gli suggerivano: e quindi su quella stessa terra crescevano nuovi alberi, le piantagioni si moltiplicavano e i pozzi diventavano fontane e le fontane vasche e le vasche piscine, di cui forse sua madre non aveva mai parlato. Neppure nelle favole della sera. Ma Akram ne era contento, e questa ora era la cosa importante.

    Anche questa volta, quando Mohammed ebbe terminato, il piccolo batté le mani. Sembrò persino felice.

    “Guardate, guardate quanti!” Amr indicò la folla che si era radunata nel centro del villaggio.

    “Guarda Akram…, è vero…c’e’ Abbas…e gli altri” Mohammed indicò un gruppo di ragazzi, quasi bambini, che si teneva compatto in disparte.

    “Umarah… e Kamir. Hei.. c’è anche Safiy, l’avresti mai detto”.

    “Vedi… nostro padre, Amr”

    “ E gli altri cugini…”

    “Ci sono proprio tutti” sussurrò Mohammed Sultan. Mancava solo il più grande dei suoi fratelli. Era già mancato tante volte, ma Mohammed Sultan aveva imparato molto presto che le porte delle prigioni non si riaprono facilmente, anzi da qualche anno aveva cominciato a pensare che forse non si riaprono affatto. In ogni caso non si sarebbero riaperte per permettere a un prigioniero di andare, quella mattina, al funerale dei suoi fratelli.

    Sarebbero venute le madri. 

    Quella di Akram già urlava il suo dolore sulla soglia di casa.

    “Ecco… nostra madre… Akram, vieni”, la indicò Mohammed.

    “Non la vedo” rispose il bambino tenendo la testa china.

    “Devi guardare, non capisci niente!” Amr lo spintonò.

    Akram ricominciò a piangere.

    “Avanti, non sei più un bambino” insisteva Anis.

    Il pianto di Akram divenne disperato.

    “Lascialo in pace, Amr!!!” intervenne Mohamed.

     “Silenzio!” aprì bocca Mohammed Sultan.

    Tacquero tutti.

    Giù a valle, dentro i confini del villaggio, l’aria si era come per un attimo fermata. La folla sembrava immobilizzata. Poi ricominciò a muoversi per scomporsi e subito ricomporsi lentamente, molto lentamente, a ridosso di due case.

    Mohammed, Amr, Anis, Muhammed Sultan e Akram trattennero il respiro.

    “Ecco…” fece Mohammed in un sussurro. “…ecco…”

    Sulla porta, larga poco più di una ferita, comparve un corpo avvolto in un sudario, portato a spalla dagli uomini. Seguì un altro e poi un altro corpo ancora.

    Dalla porta della casa accanto ne furono portati in strada altri due.  Vennero allineati dietro ai primi tre. L’ultimo era visibilmente più piccolo degli altri. Su ognuno c’era una bandiera. Accalcati intorno, un gruppo di bambini stringeva in mano delle fotografie. Erano i ritratti di Mohammed, Amr, Anis, Mohammed Sultan, Akram.

    I cinque corpi lentamente ondeggiarono sopra il mare di folla che aveva invaso ogni strada e ogni passaggio e si stringeva intorno alle salme. Qualcuno urlava.

    “E’ così che succede quando si muore?” chiese Amr. “Noi quassù e noi laggiù?”

    “Solo per poco, credo” rispose Mohammed. “Quando saremo sottoterra potremo andare via e saremo solo noi di quassù”.

    “Ah sì” fece Akram anche se non capiva.

    “Sono venuti in tanti…”

    “Mille forse?”

    “Mille e mille e mille…”

    “ Dovrebbero fare più in fretta, io sono stanco” disse Amr.

    “Anch’io, abbastanza stanco, e anche tu no?” aggiunse Anis, rivolgendosi a Mohammed Sultan, che non rispose.

    “Ma che succede adesso?”

    “Sparano in aria…sparano per noi”

    “Come a una festa?”

    “Quasi come per una festa… in nostro onore… insomma”

    “Allora perché piangono…siamo degli eroi?”

    “Anche i nostri compagni di scuola… sono molto tristi…”

    “Anche le nostre madri… urlano. Urlano troppo” Mohammed Sultan aprì bocca.

    “Guardate là” gridò Amr spaventato. “Guardate, sparano!”

    “Dove?”

    “Laggiù, sotto la porta….i carri armati”

    “Si muovono”

    “E’ una guerra?”

    “Ancora guerra?”

    “E’ una battaglia”

    “Ma sparano, sparano ancora! Anche gli altri. Cosa è successo?”

    “Le guardie, le guardie ci respingono nel villaggio”

    “Gli abbiamo tirato pietre?”

    “Credo di sì”

    “Ma sparano, sparano troppo, sparano tutti… guarda!!!…Adesso si fermano di nuovo… cosa succede!?”

    “…è Wael.. è caduto per terra.. lo hanno colpito”

    “Wael!?

     “Si, è lui. Gli sono tutti intorno. Fermiamoci ancora qui, anche dopo che il funerale sarà finito. Gli andremo incontro”.

    “Quanto ci vorrà?”

    “Sta già arrivando l’autoambulanza. Lo porteranno fino in ospedale, poi dovranno lasciarlo andare via”.

    “Verrà con noi?”

    “Credo di sì”

    “Ne sei sicuro?”.

    “Credo di sì… ho visto i suoi occhi. Ci stava già cercando” disse Mohammed. “Arriverà prima di sera”. 

    “E’ bastato un solo colpo?” chiese ancora Amr.

    “Non so…”. Mohammed si stava chiedendo se il dolore che stava provando Wael mentre moriva, era lo stesso che aveva provato lui e che sicuramente avevano provato Amr, Anis, Mohammed Sultan e Akram. E se era più forte il dolore di un solo colpo, o quello dello schianto dell’aria che esplode nelle schegge. Ma forse più doloroso di ogni altra cosa era lo strappo dalla vita alla morte, attimo irrimediabile che ogni altro strazio forse supera e annulla.

    Mohammed incrociò le gambe e si sedette. Così fecero gli altri. Avrebbero atteso il tramonto e l’arrivo di Wael.

    Akram si accostò a Mohammed: “Me la racconti ancora… la favola dei giardini…” sussurrò socchiudendo gli occhi. Akram sembrava molto stanco, ma era stanco anche Mohammed, che questa volta non rispose. Sei anni sono pochi, stava pensando, tredici anni sono molti di più, ma forse ancora pochi per dover lasciare per sempre quel tratto di deserto.

     

     

     

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