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    Povera bambina…

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    Ripensando, alla ragazza di Torino che ha accusato due rom di uno stupro inesistente…

    Un pensiero, ancora, ai rom, e alla loro vita in fuga. Ma un pensiero, oggi, anche a lei… povera bambina. Povera bambina, che dice “per me la verginità è un valore”. Povera bambina, che chissà cosa le hanno insegnato a casa, cosa le ha detto la mamma, cosa il papà, cosa il fratello. Povera bambina, che chissà cosa”non” le hanno detto la mamma, il papà, il fratello. Quali i pensieri e le parole, se non essere più vergine fa tanta paura… Quali i silenzi… Tanta paura da temere che glielo si legga in volto… tanta paura da cercare subito una bugia, un colpevole che la scusi, che scusi il suo desiderio, per un attimo, fatale”, più forte di quel suo ormai inutile “valore”. Povera bambina, e povero il suo mondo e i suoi pensieri… la miseria cattiva della vita che cresce intorno a lei e in lei. Che cresce intorno a tutti noi e dentro ciascuno di noi.

    Casa dolce casa…

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    Casa dolce casa.

    I bambini zingari vivono nelle baracche, mentre io vorrei che avessero delle case, case dolci case. // Che avessero un divano, una televisione affacciata sul mondo ed una radio oer sentire che la guerra è finita. // Perché noi abbiamo una casa e loro no? Io vorrei che avessero una casa con un camino, che possa riscaldare il loro cuore immenso.

    Alessandro Rezk.

    Un testo, dall’opera collettiva in questi giorni al Quirinale composta, per la mostra “Noi, Italia”, dalle persone (disabili) che frequentano i laboratori artistici di Sant’Egidio.

    a proposito di raid, a proposito di delirii, a proposito di Torino e di fanciulle spaventate, di accuse bugiarde, pescate nell’anima buia di questa terra…

    Underground…

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    Sottoterra, ancora andando, al mattino quasi presto. Il giorno dell’Immacolata, in metropolitana alle settemmezza del mattino. Alle settemmezza del mattino, sottoterra, un giorno di festa, quasi solo volti colorati. Per lo più del Bangladesh, Indiani, cinesi, e qualche nero d’Africa. Un ragazzo sperduto con troller, un maturo signore con troller, una ragazza un pò assonnata, e i loro visi scoloriti, sparsi qua e là in mezzo a tutte le sfumature del bruno e del giallo. Un cinese sul sedile di fronte sembra dormire. Con la testa reclinata sulla spalla. Sembra dormire e sembra sognare. O forse non dorme, ma è lì piuttosto a trattenere un sogno, perché non fugga via. Strizza le palpebre come a metterlo bene a fuoco, quel sogno che forse sta già sfumando nella nebbia del giorno. E ancora sorride. Di piacere e di dolcezza. Sorride, di piacere e di dolcezza, anche quando li riapre, gli occhi. E chissà cosa ancora vede, intorno a lui… Accanto c’è un ragazzo nero d’Africa che dorme disteso. Occupando tutti e quattro i posti della fila. E il suo sonno è così profondo, che chissà non sia questo suo un viaggio infinito, avanti e indietro, avanti e indietro su un vagone di metropolitana. Ha le scarpe color argento. E mi piace pensare, abbia passato la notte danzando…

    Un mondo a parte

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    Caro Ninni, grazie per averci dato la tua amicizia, in tutto questo tempo ci hai insegnato tanto, forse non siamo stati in grado di apprendere di piu’. Sono passati tre anni… veloci come un attimo di vento che in un attimo ti scompiglia i capelli e subito dopo è già lontano, ad accarezzare qualcos’altro con un soffio leggero… Ma i ricordi ci sono ancora, nessuno li porta via…”.  Un brano, dalla lettera di una compagna di classe di Ninni, al termine della terza media. E i tre anni di scuola media di Ninni, che e’ un ragazzino autistico, tessono la trama di “Un mondo a parte”, pubblicato da Arkadia, e scritto da Bruno Furcas che da tempo si occupa del recupero di adolescenti con diverse problematiche. Una storia vera, che narra il percorso anche difficile di un bambino che nei primi anni di scuola ha avuto una davvero brutta esperienza, fatta di rifiuti e incomprensione. Di cattiveria, anche. Ed è storia che purtoppo spesso ricorre. Ninni, ha ricevuto una brutta accoglienza nelle scuole elementari, e colpisce la durezza e la brutalita’ delle situazioni descritte. Anche il primo impatto nelle scuole medie non e’ stato semplicissimo, perche’ come si legge nel libro, Ninni e’ “uno sbriciolature di lezioni frontali, irrompe nella tranquillita’ di un istituto come uno tsunami”.  Ma quello che Furcas vuole raccontare e’ la bella esperienza di una scuola che ha saputo accogliere questo tsunami. Come? Costruendo, spiega, un percorso che è riuscito a coinvolgere tutti: insegnanti, di sostegno e non, assistenti, i compagni di scuola. E c’è Fabio, che segue Ninni in questo suo percorso. Fabio che in realtà è l’autore del libro, questo Fabio/ Furcas che spiega subito ai compagni di scuola:  “Ninni non è un pacco. E’ un ragazzo come voi, ma molto più complesso. L’unica cosa che dovete chiedervi è come potrò essere utile per lui, e poi, se volete, potete anche domandarvi : in che modo lui sarà utile per noi?“. Ed è straordinario  come reagiscono i ragazzi… (…)

    Per ricordare…

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    “Come mi duole la testa, madre, dentro di me qualcosa resiste a scendere ancora una volta in quelle grotte, negli inferi, nell’Ade, dove fin dai tempi antichi si muore e si rinasce, dove con l’humus dei morti si cuoce ciò che è vivo, dalle Madri dunque, dalla dea della morte, all’indietro. Ma che significa avanti, che significa indietro”

    Per ricordare Christa Wolf, morta ieri. Le parole della sua Medea. Che da qualche parte del libro che non trovo dice, o ricorda qualcuno, la madre forse, le abbia detto, che prima di ucciderla, per ucciderla, avrebbero dovuto uccidere il suo orgoglio… e immagine più bella non riesco a trovare di donna…

    Non chiamatele più morti bianche

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    Le parole… bisognerebbe maneggiarle con più rispetto, le parole… Per questo ho firmato, condividendolo, questo appello, e un invito a firmarlo…

    “Vorremmo rivolgere un appello al mondo dell’informazione: non chiamate più le morti sul lavoro con il termine “morti bianche” e “tragica fatalità”. Sono due termini che ci offendono, e offendono in particolar modo i familiari e la memoria dei morti sul lavoro. Queste morti non  sono mai dovute al fato o al destino cieco e beffardo, ma perché, in molti luoghi di lavoro, non vengono rispettate neanche le minime norme per la sicurezza sul lavoro. Queste non sono “morti bianche”, quasi fossero candide, immacolate, innocenti, ma sono morti sporche, anzi sporchissime!!!! In queste morti c’è sempre un responsabile, a volte più diuno. E’ anche partendo dal linguaggio che si combatte una battaglia di prevenzione e per la sicurezza. E chiediamo ai mezzi di comunicazione anche di tornare ad accendere i riflettori su  questo bollettino di guerra quotidiano. Affinché il tragico contatore dei morti, degli infortunati, degli invalidi si possa finalmente arrestare”.

    Primi firmatari: Marco Bazzoni, Stefano Corradino, Giuseppe Giulietti.

    http://www.articolo21.org/104/appello/non-chiamatele-piu-morti-bianche.html

    e buon dicembre a tutti…


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    il caso… proprio oggi arriva questa riflessione di Pasquale, che volentieri pubblico…

    “Passeggiando colgo al volo una domanda di un bambino di circa 6 anni al padre che lo tiene per mano: “papà cos’è una lingua biforcuta?”. Non riesco a cogliere la risposta del padre e mi domando quale può essere stata. Riferita alle caratteristiche di certi rettili o di certi uomini?  Può darsi che la domanda del bambino nasca dalla visione di qualche film western nel quale un indiano accusa con disprezzo un bianco yankee di avere la lingua biforcuta. Per gli indiani d’America la lingua biforcuta indicava la doppiezza dei bianchi che ingannavano, promettevano pace e facevano la guerra. Quando l’epiteto era rivolto ad un uomo della tribù stava a significare il tradimento dei valori costitutivi della comunità e del linguaggio comune che non ammetteva equivoci: un albero è un albero, un guerriero un guerriero, un bisonte è un bisonte. Non era contemplato un doppio registro di idee, sentimenti, valori. L’unico altro registro era quello dei sogni che ispirava pensieri ed azioni. Gli indiani d’America sono stati sconfitti, ha vinto la lingua biforcuta della società moderna. Il potere, la democrazia, i rapporti sociali e spesso anche quelli personali si muovono sul doppio registro,  si reggono sulla doppiezza di valori formali ai quali raramente corrispondono valori reali.

    Questa è la civiltà che ha vinto. Forse ci siamo persi qualcosa.”

    Quali pesi, quali misure…

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    Dichiarazioni a confronto. Oggi, alla notizia di Lucio Magri, andato a morire in una clinica svizzera, scegliendoselo da solo il tempo e il modo della sua morte. Oggi che “Sulla tristissima vicenda di Lucio Magri, tutti farebbero bene a stendere un ‘pietoso velo’  fatto di silenzio”. Parola di Maurizio Ronconi, esponente umbro dell’Udc. Che pure, in altri tempi e per “altro caso”, dichiarò e dichiarò: “Per Eluana si ricorra immediatamente al ricovero coatto, facendola finita con i bizantinismi e le lungaggini dei procedimenti legislativi”.

    Ancora, spulciando fra frasi di ieri e di oggi: “Quello che abbiamo saputo sulla morte di Lucio Magri esprime una vicenda di straordinaria drammaticità che ha tutto il nostro rispetto anche se l’esistenza di cliniche per la buona morte fa venire i brividi”. Fabrizio Cicchitto, PdL, che in altri tempi, e sempre per quell’altro caso, dichiarò: “E’ evidente che è un’operazione tipica della cultura della morte. Per cortesia, non parliamo di laicismo. Purtroppo si tratta di ben altro e molto peggio”.

    Quando e per chi il rispetto, quando e per chi i pietosi veli, quando e quali le vicende di straordinaria drammaticità

    Sull’autobus….

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    Tornando a casa. Sull’autobus. Il venerdì sera. La folla, un pò stanca, di sempre. Le parole, le attese, i bisbigli… Quelli che hanno trovato posto, quelli che stanno in piedi… E il piccolo parapiglia di sempre alle fermate, quando le porte si aprono e qualcuno deve scendere e qualcuno deve salire…. C’è un uomo, dall’aria tranquilla, fermo giusto sul limite della porta. E’ un pò infagotttato, ha due grandi buste poggiate in terra, la barba sale e pepe e gli occhi azzurri. Tranquilli e un pò persi… Sorride appena appena. Sorride anche quando una signora con malgarbo gli dice che, insomma!, che si facesse più in là, che la gente deve scendere e lui e i suoi pacchi danno fastidio!…  L’uomo non si scompone, neppure si inquieta. Solo, appena appena sorridendo, dice che è lì sulla porta perché sta aspettando sua moglie… e lì deve restare perché, spiega gentile, quando lei viene alla fermata, lui è lì pronto per aiutarla a salire. Se dovesse arrivare… se dovesse salire… E i suoi occhi gentili sembrano ancora più azzurri. E ancora sorride nel vuoto, a quella donna che sicuramente vede nel suo orizzonte, e che un giorno, lei riconoscendolo e lui sentendosi riconosciuto, avrà bisogno di lui, che l’aiuti a salire sull’autobus, come solo sa fare un gentiluomo d’altri tempi…

    Sguardi

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    Un racconto, di Matteo Sartore, che è un invito, a guardarsi intorno, a liberare sguardi… anche solo sul tavolo accanto… e scoprire sentimenti inaspettati. Un invito all’attenzione, a non essere sempre così distratti, così inutilmente concentrati a correre, avanti e indietro, avanti e indietro lungo la riva della nostra fretta…

    “Non ti sono mai piaciuti i ristoranti affollati. Rumore di piatti e bicchieri, confusione, camerieri affrettati e scortesi. Tutto ti annoia e innervosisce. Le chiacchiere degli amici non aiutano. Così inizi a guardarti intorno. Al tavolo vicino al tuo c’è una famigliafelice. Padre e madre giovani. Due gemelle che avranno sì e no sette anni e un altro bambino un po’ più grande, con una strana maglietta blu, sembra un pigiama. Ha una sedia diversa dalle altre, grande, nera e con le ruote. Non è composto. La testa è reclinata, come se ascoltasse qualcosa che sente solo lui. Non guarda in giro, è come se non avesse niente da vedere. A te sembra che gli occhi non esprimano nulla, che siano vuoti. La madre si alza e gli allaccia un tovagliolo al collo, preparandosi ad imboccarlo. Il gesto sembra abituale, come versare dell’acqua. Gli occhi del bambino prendono vita e si fissano in quelli della madre. La testa non si muove e sul suo viso si forma il sorriso più bello che tu abbia mai visto. Guarda la madre ed è felice. C’è qualcosa di diretto ed importante tra di loro, una cosa che condividono. Come se si sostenessero a vicenda. Il bambino sorride ancora ed è riconoscente nell’unico modo in cui è capace. La madre gli pulisce il viso, lo accarezza e lo bacia piano in fronte. Sorride anche lei. Tu ti commuovi perché capisci quanto il loro amore sia semplice e diretto, mentre tu analizzi tutto allo stremo, non ti fidi, vuoi certezze. A volte però le certezze arrivano se non le cerchi. A volte amare qualcuno, a dispetto delle difficoltà, è l’unica cosa che ti rende felice”

    Le immagini… non nascono mai dal nulla, e quelle di questo dolcissimo racconto Matteo Sartori se l’è portate dentro per anni… dopo l’incontro di questi sguardi, al tavolo di una sala di ristorante. Sguardi che, ci ha detto, in quel momento gli hanno indicato la via… Ora, fra una corsa e l’altra per il suo lavoro che lo porta in giro qua e là anche per il mondo, ha trovato il tempo per dare il suo tempo a chi sa accontentarsi davvero di poco. Di un momento di compagnia. Delle parole dell’amicizia. Di silenzi, anche, profondi come attimi di verità. E quel che ne riceve, dice, è impagabile…