Fino al 29 aprile, al Teatro delle Moline, a Bologna, uno spettacolo di Marinella Manicardi, ancora una volta con un testo di Marcello Fois. Stanze. Dove affaccirci per trovare cosa? Cosa c’è in queste stanze? Marinella Manicardi, nelle sue note di regia, risponde così…
“Ci sono due sorelle, una, organizzatrice di eventi, l’altra, eterna ricercatrice universitaria, che si incontrano nella casa dove è morto il padre, allontanatosi dalla loro vita quando erano ancora bambine.
C’è un padre morto e dunque assente, eppure interrogato, insultato, invocato, che ha vissuto molti anni in quel piccolo spazio, ora quasi vuoto di oggetti, non della sua presenza. Contro di lui, le sorelle vogliono disfarsi velocemente di questa casa, quasi a cancellare il dolore dell’abbandono subito, oppure appropriarsene velocemente, per la stessa ragione. L’apparizione di una vicina, che sembra conoscere molto bene la casa e chi la abitava, dilata ogni decisione. E’ la vicina gentile che porta i biscotti, ma anche la persona che ha ricevuto le confidenze del padre, il suo arbitrio orgoglioso.

Ancora sguardi dall’altra riva. E il ricordo della bambina di un tempo, che ancora sente l’eco delle favole che ascoltava da lei. E che fa rimbalzare fino a noi. Un racconto di nonna Rina, dunque… racconto biricchino. Sembra, anche lei, ancora riderne…
E’ presto, perché la maschera cada? Forse… Ma una risposta arriva dalle quinte di un palcoscenico, perché qualcuno, quella maschera, ci ricorda, ha già preferito gettarla…
Anche questa maschera arriva da una riva lontana. Da una casa della Rive Gauche, affacciata sul fiume. Ha attraversato ponti sulla Senna, valicato le Alpi, si è abbandonata a un ballo impazzito la notte di un carnevale, quasi trent’anni fa, fra i canali di Venezia. E la luna era gelida di nebbia. Poggia ora lo sguardo sul tempo. Quello di allora, quello di oggi. E tutto precipita nella fessura cava dei suoi occhi. Tace. Ma conosco l’accento del suo silenzio. Ora straniero, ora salato dell’acqua del Golfo. Ancora non so, se maschio o femmina. Se diavolo o angelo. Se riso o pianto. Gli anni, a poco a poco, tessono ragnatele di crepe, a ferire il cuoio indurito. Ma è ancora presto, forse, perché la maschera cada. Forse.
Un fiume in piena, sembra passato davanti alla riva dove lei smarrisce lo sguardo. E una carezza sbadata d’acqua ha cancellato un tratto di guancia e il dorso della mano, sbiadito chiazze di colore dell’abito. La stessa mano d’acqua che ha graffiato via la foto che certo era custodita nel medaglione appeso al collo di lei. Ritratto d’un amore da portare, poggiato sul cuore, tutta la vita. Ma oltre il fiume del tempo, ritorna, da quella riva, il pensiero quieto di lei, la sua lieve tristezza composta, il segreto delle parole di quel piccolo libro, forse quaderno, forse diario. Che sembra le stia scivolando di mano. Ma che ancora il fiume non è riuscito a strapparle via… Ed è stata forse l’ultima piena, passando distratta, confondendo i colori, sfumando i tratti, a fissare quest’immagine, come su tela…
Storia di Antonio. Nato all’inizio del secolo scorso in una famiglia poverissima, in un paesino alle porte di Milano. Storia di Antonio nato con una gamba più corta dell’altra. E quindi solo un peso per genitori già disperati. Che lo chiudono in un pollaio. In attesa che muoia. Ma Antonio non muore. Le galline, chissà, forse sanno come meglio accoglierlo. Ma dal pollaio Antonio viene portato in manicomio. Dove infine muore. Storia di Antonio, che ora sarà un film. Voluto da quel Don Chisciotte del Teatro Patologico che è Dario D’Ambrosi. Che di questa storia, scovata negli archivi di un manicomio, ha già fatto uno spettacolo teatrale. Da far recitare ai “suoi ragazzi”. Disabili mentali (si dice così?) che nel suo Laboratorio d’Emozioni ritrovano la vita. E cos’è la vita, ci ricorda D’Ambrosi, se non emozioni?
Ancora cartoline di sguardi. Spedita, questa, da una riva lontana lontana, nello spazio e nel tempo. Nel bianco e nel nero sgranato del passato, vedete?, ancora si scorge il celeste di due acuti ritagli di cielo…
Un ultimo pensiero, a Berlino. E ai vent’anni trascorsi da allora. Con questi versi.