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    Ricordando Praga

    Esattamente oggi, esattamente quattro anni fa. Vedrai.

    Vedrai, è stupefacente. Potresti persino piangere. Vedrai. Avevo assicurato. Né mi bastavano le parole per raccontare l’emozione, la tristezza, la paura, la commozione, che mi avevano preso l’anima, tanti anni prima. Al ricordo ancora fremevo. Vedrai, vedrai. Avevo continuato a ripetere in fila all’ingresso, attraversando le sale della Sinagoga, facendomi strada fra la folla di turisti in lenta e disordinata processione. Vedrai, è un disegno d’obelischi, in oblique geometrie impazzite, piantati nella terra, fra tronchi d’alberi e rovi, senza respiro, pietre di lapidi affastellate, a migliaia e migliaia, da non credere, vedrai, quasi a tenersi strette. Avvinghiate. Per non smarrirsi nella notte del tempo. Mi ero chiesta, allora, se fossero già loro, le stele di pietra, i fantasmi di questo giardino così affollato di morti. Fissati, mi era sembrato, nell’istantanea di una fuga impossibile. Vedrai… ti sembrerà di sentirne le voci… Come ricordavo d’averle davvero sentite, quelle voci. Fra le pietre del Vecchio Cimitero Ebraico. Che allora era venuta a spiare anche di notte. Guidata da un ragazzo dagli occhi azzurri. Che adesso tornava improvviso dal mio passato a riempirmi di nostalgia. Ma è bastato il gesto d’infilare il biglietto d’ingresso al passaggio di quei tornelli cromati, o la mestizia dei cordoni ora messi a guida del percorso, oppure l’ansia meccanica dei tempi di percorrenza dettati da un disciplinato avviso. O forse il chiacchiericcio di tutta quella gente, lì a coprire le voci del silenzio. A lacerare persino la magia della neve caduta nella notte. Tutto l’entusiasmo e persino il mio ricordo, sono soffocati in un attimo. Via, via. No, non ho neanche voluto lasciare la mia preghiera di carta per Rabbi Low. Ero sicura che il biglietto che avevo messo sulla sua tomba tanti anni prima fosse ancora lì sotto, scivolato nella fessura della pietra, perché non ricordavo che il mio desiderio fosse stato ancora esaudito. Via, via. Ancora non so quale dei fantasmi che vivono appollaiati sulle mura fra il Castello e il ponte San Carlo mi abbia suggerito per quella mattina di lasciare le strade del centro antico. Comunque un fantasma annoiato da tutta quella folla, di chiacchiere, di cristalli, di negozi, di pietre e marionette per turisti. Via, allora, verso la periferia, alla ricerca di altre voci. Da cercare a due passi dalla stazione del metrò. Fermata Zelivského. Oltre i binari del tram. Ecco. Dietro un lungo muro grigio e un alto cancello di ferro, aperto sul silenzio infinito del nuovo Cimitero Ebraico. Il guardiano saluta con un cenno muto e poi solo fughe di viali, ordinati lungo assi cartesiani, e lapidi e stele. Una dietro l’altra, una dietro l’altra infisse nella neve. Non c’è proprio nessuno lungo i viali dove fantasmi non hanno bisogno di aspettare che faccia notte per balzare fuori. Non c’è nessuna voce che disturbi le loro voci. Così quaggiù finalmente è possibile sentirli. Ecco, lì dietro. Neanche fingono di volersi nascondere, fra i tronchi degli alberi, alti e neri e magri e nudi. L’inverno è tutto loro. Sono lì, cristalli d’aria. Cenni di neve. Soffiano leggeri e pungenti sulla punta delle orecchie. Impazienti. Adesso basta, mi sembra dicano. Ritornate nel vostro mondo. Questo ancora non vi appartiene. Ma no, un attimo, lasciateci ancora un attimo. Abbiamo attraversato tutta la città. Sappiamo che qui da qualche parte c’è Lui. Franz, Kafka. Siamo venuti per lui. E poi non siamo soli. Ecco, entrano due figurine infagottate. Potrebbero essere due giovani studenti. Li seguiamo. Puntano diritti al fondo del primo viale. Poi svoltano a destra, fila 21, quindi a sinistra. Pochi passi e si fermano. A ridosso del muro. Mormorano qualcosa e presto si allontanano, scoprendo la piccola stele di pietra grigia. Infissa nel silenzio. Vi sono iscritti tre nomi. Il suo è il primo. E’ rivolta, la stele, verso il muro di cinta. Che penso muro di pianto. Che penso lui scavalchi ogni notte per tornare a vagare fin sotto le mura del Castello. Per provare magari a scappare, penso. Stupida. Per ancora restare, soffiano gli alberi lì intorno e l’aria e i cristalli di neve. Per restare e aspettare che il mondo gli si offra. Per ancora essere smascherato. Non ricordi? Non vedi, come estasiato, il mondo, già si torce davanti a lui?

     

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