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    Senza un nome…

    volto-di-vecchio-520x330Pensiero d’autunno, affidato ai versi di un poeta. Rainer Maria Rilke. Da un libricino con la copertina dal colore dell’autunno, schizzato dell’arancio caldo dei frutti del loto, dunque, Giorno d’autunno:
    “Signore: è tempo. Grande era l’arsura. /Deponi l’ombra sulle meridiane, / libera il vento sopra la pianura. /// Fa che sia colmo ancora il frutto estremo; concedi ancora un giorno di tepore, / che il frutto giunga a maturare, e spremi / nel grave vino l’ultimo sapore. /// Chi non ha casa adesso non l’avrà. / Chi è solo a lungo solo dovrà stare, / leggere nelle veglie, e lunghi fogli / scrivere, e incerto sulle vie tornare / dove nell’aria fluttuano le foglie”.
    Chi non ha casa adesso non l’avrà… Chi è solo a lungo solo dovrà stare… E torna, insistente, il ricordo di un uomo, scomparso cinque anni fa in un giorno d’ottobre, e che ancora sempre mi compare davanti agli occhi, quando imbocco via Emanuele Filiberto, la strada che, qui a Roma, da piazza san Giovanni sale su su fino a piazza Vittorio.
    Quell’uomo… avrà vissuto almeno una dozzina d’anni in una vecchia automobile parcheggiata in quella strada. (…) Accostata al marciapiede, sulla destra guardando verso San Giovanni. A poche decine di metri dalla piazza. Negli ultimi anni l’auto era cambiata. Al posto di quella con la quale era arrivato, vecchia e grande, era comparsa un’auto più piccolina. Comunque malandata anch’essa . Comunque ferma nello stesso punto.
    La prima volta che l’ho visto aveva l’aria di una persona come uscita all’improvviso per sbaglio dai binari di un’esistenza, come dire…, normalmente-quasi-tranquilla. Poi chissà, un lavoro che all’improvviso non c’è più, un divorzio, una malattia e…, con i meccanismi feroci che abbiamo costruito, tutto in un attimo si scompone. E chissà quale piena aveva stravolto lo scorrere del fiume della sua vita, per abbandonarlo lì, sulla riva perduta di quel marciapiede. Dove per tutti quegli anni ha riassunto la sua esistenza, mattina dopo mattina, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Chissà quali pensieri hanno accompagnato il suo tempo, diventato a un tratto disperato e solo. Scandito dai gesti della sopravvivenza. Quale buio feroce intorno a lui…
    Eppure, quale forza inerte se per tanti anni è sopravvissuto a notti gelate d’inverno, a notti senza respiro d’estate, a pasti consumati in fretta, a pomeriggi vuoti di nulla, o pieni di chissà quali conti da chiudere con la sua vita e con chi l’aveva affollata e poi svuotata…
    Passando accanto alla sua auto, infinite volte me lo sono chiesto. E vendendolo, infinite volte avrei voluto chiedere, avvicinarmi, forse. Ma bisogna avere coraggio, molto coraggio per incrociare sguardi sempre rivolti verso chissà quale altro altrove. E sono stata vile anch’io. Anch’io sono passata via, appena appena sbirciando, rassicurata che fosse tranquillo, che mai cercava sguardi e nulla mai chiedeva.
    In tanti anni una solo volta l’ho visto parlare con qualcuno, alla fontanella sull’angolo della piazza, dove prendeva l’acqua. Di giorno quasi sempre spariva. Qualche volta l’ho visto aspettare un bus. Ma quando restava dentro l’abitacolo dell’automobile teneva i finestrini chiusi, e il mondo lasciato ben serrato fuori.
    Sedeva quasi sempre sul sedile anteriore destro. Tutte le sue cose le aveva sul sedile posteriore e nel bagagliaio, che qualche volta l’ho visto aprire, per controllare, frugare, cercare come in un pozzo senza fondo chissà cosa. Una volta l’ho visto tirarne fuori una pentola, molto grande, come residuo di una cucina affollata del tempo che era stato.
    Un giorno sembrava sparito. Lui e la sua auto. Ed appariva talmente vuoto quel brano di asfalto… Cos’era successo? Era successo che era la festa di un primo maggio. Gli avranno chiesto la cortesia di spostarsi più in là, motivi di sicurezza, per via del concertone. Ma il giorno dopo, andata via la festa e la folla, era tornato al suo posto. Esattamente lo stesso.
    Ci vuole molta ostinazione, mi sono qualche volta detta, per non essere ancora impazzito, per non essere ancora andato via dalla vita.
    L’avevo notato, cinque autunni fa… da qualche mese si era incurvato e smagrito. Sempre più spesso non si allontanava. Restava lì, dentro quel suo abitacolo, sul sedile davanti anche a dormire, con le gambe piegate sotto il cruscotto e con la testa appoggiata al finestrino. Un ottobre tiepido, ma qualche brivido di vento già stava arrivando, e nell’aria fluttuavano foglie…
    E si è gelata l’anima, vedendo, quel pomeriggio di fine ottobre di cinque anni fa, la sua casa-automobile circondata da vigili, che delimitavano l’area intorno con strisce di plastica bianca e rossa, e un fotografo, a catturare l’immagine della targa, dell’auto, delle gambe rattrappite che appena si indovinavano sotto il lenzuolo che lo copriva.
    Molto vile, neanche quel giorno ho chiesto se qualcuno ne conoscesse il nome.
    Il giorno dopo c’era un fiore, avvolto in un foglio di carta bianca, sul parabrezza dell’automobile.
    C’è stato, poi, per qualche tempo, un mazzetto di fiori di plastica, sul muro, all’altezza del pezzo di asfalto che era stato il luogo della sua casa. Come una preghiera, e chissà chi l’avrà messo. E mi rammarico, ora, di non poter pronunciare un nome, ma solo ricordare un profilo sottile e uno sguardo lontano.
    Scusate queste note tristi, Ma da via Emanuele Filiberto passo spesso. E le tracce del dolore sono davvero ostinate… sono ancora lì. Difficile da dimenticare. Leggendo, oggi, poi, di povertà assolute, vecchie e nuove, che si gonfiano tutt’intorno…

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